Il ponte dei delitti
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Info su questo ebook
Un antico libro di preghiere
Un patto misterioso
Una città piena di ombre
Nathan Sutherland, console inglese a Venezia, ha il compito di risolvere i problemi dei connazionali in visita nella città lagunare. Un lavoro di solito noioso, ripetitivo, almeno fino a quando a Nathan non capita un’occasione singolare: in cambio di una grossa somma di denaro, dovrà custodire un piccolo pacchetto, al cui interno è contenuto un libro di preghiere illustrato dal maestro veneziano Giovanni Bellini. La proposta è allettante, per il console può voler dire cambiare vita e dedicarsi ai suoi passatempi preferiti. Ma suo malgrado si ritroverà al centro di una pericolosa disputa, un business mortale, iniziato vent’anni prima dai gemelli Domenico e Angelo Moro, che ruota intorno a un misterioso furto.
Tra i canali di Venezia si nasconde un mistero
Un thriller pieno di segreti, senza un attimo di pausa
«Un thriller raffinato con continui colpi di scena.»
«Una storia che ti trascina per tutto il tempo dentro la Storia.»
Philip Gwynne Jones
È nato nel Galles del Sud nel 1966. Ha vissuto e lavorato in diversi Paesi europei prima di stabilirsi in Scozia nel 1990. È venuto in Italia per la prima volta nel 1994, lavorando per qualche tempo presso la sede di Frascati dell’Agenzia Spaziale Europea. Oggi è insegnante, scrittore e traduttore, e vive a Venezia.
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Anteprima del libro
Il ponte dei delitti - Philip Gwynne Jones
1697
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, le attività, le organizzazioni, i luoghi, gli eventi e gli episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente casuale.
Titolo originale: The Venetian Game
Copyright © Philip Gwynne Jones, 2017
The moral right of the author has been asserted.
All right reserved
First published in Great Britain in 2017 by Constable, an imprint of Little, Brown Book Group
Traduzione dall’inglese di Marco Bisanti
Prima edizione ebook: settembre 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1278-3
Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma
www.newtoncompton.com
Philip Gwynne Jones
Il ponte dei delitti
Newton Compton editori
Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Epilogo
Ringraziamenti
In memoria di Helen Susan Noble, 1968-2014.
Mi manchi
Capitolo 1
Sua Maestà ostentava la solita calma dall’alto della sua postazione a muro, mentre io avevo addosso gli sguardi molto meno sereni della famiglia Mills.
Fra poco sarebbe arrivata la domanda. Questione di attimi. Nel frattempo, sistemai le carte sulla scrivania elargendo sorrisi a tutti. La signora aveva un’aria stanca e gli occhi arrossati, lui era a un passo dal gridare qualche parolaccia per sfogare la rabbia; il figlio, visibilmente annoiato.
«Quadro magnifico», disse Papi indicando la regina.
«Trova anche lei? L’ho ereditato dal console precedente. Il suo ufficio era molto più grande del mio. Secondo lui, creava la giusta atmosfera. Meno straniera, più rassicurante». La salutai con un gesto allegro. «Dio la salvi, eh?».
Nel breve ma imbarazzante silenzio che seguì, giurai a me stesso che non avrei mai più cercato di fare lo spiritoso al lavoro.
Papi guardò la bandierina sgualcita appesa all’asta in miniatura sul mio tavolo.
«Ha visto giorni migliori. Potevano dargliene una nuova».
«Ehm, quella è nuova. È solo difficile impedire al gatto di giocarci». Provai a spostare la conversazione su un terreno più sicuro. «Devo rivolgervi soltanto un paio di domande. Poi farò qualche telefonata e potrete tornare alla vostra vacanza. Okay?». Sfoggiai il mio sorriso più disarmante. «Siete stati alla polizia, no?».
Lui abbassò la testa.
«Ha il numero di riferimento della denuncia?».
Papi cercò nel portafogli e pescò una fotocopia stropicciata. Io riempii il modulo con i dettagli.
«Bene. Altri due minuti di pazienza, prego. Devo chiamare Milano e fissarvi un appuntamento».
Presi la cornetta e iniziai a comporre il numero, ma lui alzò subito la mano. «Scusi, perché deve chiamare Milano?».
Rimisi giù. Sorridendo, ancora. «Devo fissarvi un incontro in quel consolato; spero per domani. Dovete andare lì per ritirare gli Emergency Travel Documents. Li consideri come dei passaporti temporanei, vi faranno tornare a casa».
«Non possiamo ritirarli qui?».
Bingo. La domanda. Immancabile ogni volta. Dopo dodici mesi di fila, non ero ancora riuscito a mettere insieme una risposta convincente.
«Temo di no. La mia è solo una carica onorifica, non sono né il console né l’ambasciatore ufficiale. Per passaporti e documenti di viaggio si deve andare al consolato generale ufficiale di Milano. Sta solo a due ore di treno. È una bellissima città con tante cose da vedere. Al consolato perderete al massimo mezz’ora; anche meno, se riusciamo a sistemare tutta la documentazione oggi. Il mio consiglio è di prenderlo come un altro giorno di vacanza. Non fatevi rovinare i piani da questo contrattempo».
La moglie si illuminò, timida. «Milano mi ispira. Ho sempre voluto andarci».
Lui non voleva saperne. «Immagino che ci verrà a costare».
Trattenni un sospiro. Anche questo succedeva sempre. «Gli etd costano centoventi euro ciascuno. E, certo, c’è il biglietto del treno; ma se riusciamo a sistemare le carte subito, forse potremmo cavarcela anche con un centinaio di euro in tutto».
«Quanto?»
«Be’, per farvi tornare a casa non si potrà scendere molto sotto i cinquecento euro. E ricordi, quando sarete di nuovo a casa dovrete comunque farvi sostituire quei passaporti».
«Pensavo che il suo compito fosse quello di aiutarci».
Stavolta non seppi frenare un sospiro. «Ma io vi sto aiutando, Mr…». Feci la pausa più breve possibile per sbirciare sul foglio davanti a me. «Mr. Mills. Mi creda, sto facendo il possibile».
«Allora perché non ce le dà lei queste specie di… passaporti d’emergenza?»
«Come le ho spiegato, io sono solo un console onorario. Non sono autorizzato a farlo».
Mills scosse la testa e scoppiò in una finta risata. «Allora è qui che finiscono i soldi dei contribuenti, vero?».
Tombola. Quando si arrivava a questo, di solito non mi sentivo più in dovere di cortesia. «Io non vengo pagato, Mr. Mills».
«Certo, lei sta qui per il suo buon cuore», disse sorridendo alla moglie. Guarda, non mi faccio fregare da nessuno
.
«Esattamente. Tornando a noi, posso chiamare il mio collega a Milano e fissarvi un appuntamento. Poi, magari diamo un’occhiata al sito di Trenitalia che, vi avverto, per chi non l’ha mai usato è incomprensibile – italiano o inglese che sia – e vi comprate i biglietti. Posso anche suggerirvi un itinerario carino da fare a Milano in giornata e consigliarvi un buon ristorante. Altrimenti, se preferite, sarò felicissimo di farvi passare il resto della vacanza a cercare di risolvere la cosa per conto vostro. A voi la scelta».
Cominciai a mettere da parte i documenti costringendolo ad arrendersi. «Niente, niente. Va bene. Scusi, ma ho avuto una giornata difficile. Sa com’è».
Lo assecondai e rialzai la cornetta. Sorrisi al ragazzino. «Milano ti piacerà, Simon. Ti chiami Simon, vero? Potrai vedere San Siro. Tu per chi tifi: Milan o Inter?».
Dalla faccia, sembrò non capire. «Preferisce il rugby», disse la madre.
Ci guardammo in silenzio per un attimo e poi entrò Gramsci. Il bambino si chinò per accarezzarlo, ma allontanò le dita di scatto come se si fosse scottato. La madre prese un fazzoletto di carta per tamponargli la ferita.
«Sono desolato. Temo che non sia molto espansivo».
Gramsci si lanciò sulla bandierina, ma io lo scacciai in tempo con la mano. Atterrò sul davanzale della finestra, il punto migliore da cui guardare il mondo fuori con aria incattivita. Ci fu un altro silenzio imbarazzante. Poi, grazie al cielo, qualcuno alzò la cornetta. «Consolato britannico, Milano».
«Helen. Sono Nathan. Solita cosa, se puoi. Servono tre etd. Adulto maschio, adulto femmina, bambino. Ti mando subito i dettagli via fax. Ce l’hai un momento per loro domani?»
«Ciao, Nathan. Come te la passi a Venezia? Sto controllando. Sì, sono fortunati, posso riceverli all’una».
Lanciai un’occhiata alla famiglia Mills. Ricambiarono con un misto di confusione e antipatia. In fondo, non era colpa loro. Uno stronzetto le aveva rubato la borsa su un vaporetto. Un attimo dopo si erano accorti che tutta la loro vacanza sarebbe girata intorno ai commissariati e ai consolati, e che qualunque possibilità di passare una bella giornata era diventata secondaria per lo stramaledetto problema di come tornare a casa. Doveva essere seccante e allarmante al tempo stesso, anche in una città accogliente per i turisti come Venezia. Forse ero stato troppo brusco. Stavo per confermare l’appuntamento, quando Mills bisbigliò di nuovo le parole soldi dei contribuenti
.
«Scusami, Helen, non credo che per loro sarà possibile».
La collega restò in silenzio, poi: «In tal caso dovranno essere qui puntuali alle nove del mattino. Non un minuto dopo. Devono partire da Venezia entro le sei e mezza».
«Perfetto, Helen. Grazie ancora. Ci sentiamo!». Posai la cornetta. Infantile, forse. Se c’era la possibilità, però, perché rinunciare a queste piccole vittorie?
Sorrisi allungandomi sulla scrivania. «Mi spiace, ma a quanto pare dovrete partire molto prima del previsto…».
La famiglia Mills andò via piuttosto imbronciata. Io appoggiai la testa sulla scrivania e chiusi gli occhi. Altri venti minuti e per quel giorno avrei chiuso, difficile che ormai si presentasse altra gente.
Qualcuno tossì appena. Sobbalzai e drizzai subito la schiena.
«Mi scusi. La porta era aperta».
A parlare era un tizio sulla sessantina. Elegante, forse troppo vestito per quel periodo dell’anno, indossava un abito scuro con gilè che gli stringeva un po’ sulla vita. Aveva un principio di calvizie all’attaccatura dei capelli e gli occhi azzurri, ma doveva essere stato un bell’uomo. Gramsci gli si era messo in braccio e, cosa incredibile, faceva le fusa.
«No, errore mio. Mi scusi. Prego, si accomodi».
Posò a terra Gramsci con una delicatezza sorprendente e poi si mise a sedere.
«Mr. Sutherland, vero?»
«Sono io. Tra parentesi, lei dev’essere onorato. Il gatto di solito non ama gli estranei. O le persone in generale».
Prese dal taschino un fazzoletto e si asciugò le mani – forse in modo un po’ teatrale – per togliersi di dosso i peli residui.
«Allora, come posso aiutarla, Mr…?»
«Montgomery. È una sciocchezza, davvero, non le porterà via molto tempo». Infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori una busta imbottita. «Vorrei che tenesse questa per me. In cassaforte. Un paio di giorni».
Stava per passarmi la busta spingendola sul tavolo, ma io alzai la mano.
«Mi scusi, può ripetere? Cosa vuole che faccia?»
«Questo pacco. Ci badi lei per qualche giorno». Lo spinse verso di me, con estrema delicatezza.
«Mi scusi, davvero, ma prima di continuare deve capire che non posso proprio farlo».
L’uomo inclinò la testa. «Sì, lo so. Questo non è un deposito bagagli. Ma mi creda, è solo per un paio di giorni».
Gli feci segno di no. «Davvero, non posso. Non so nemmeno che c’è qui dentro».
Mi sorrise. «D’accordo, secondo lei cosa può esserci?». E lo spinse sulla scrivania, stavolta con un gesto più deciso.
Rigirai la busta tra le mani. «Per quanto ne so, può essere una foto di sua madre. O droga. O gioielli rubati. Esplosivo. Un hard disk con dentro brutalità di ogni tipo».
Avrebbe dovuto offendersi, e invece sembrò quasi divertito. «Ma davvero?»
«Mr. Montgomery, lei mi è molto simpatico. Di più: forse è l’unica persona a entrare in questo ufficio che il mio gatto non abbia cercato di attaccare. Ma non posso prendere un pacco con dentro Dio sa cosa e infilarlo in cassaforte. Non può usare un armadietto alla stazione? O nel suo hotel?»
«Sarei più contento se stesse qui. Voglio dire, lei è inglese, no?»
«Be’, sì. Ma deve scusarmi. Non posso aiutarla».
«Diciamo allora che è una foto di mia madre. E che sono disposto a darle diecimila euro per custodirmela».
Ogni fibra del mio corpo tentò di sollevarsi di cinque centimetri, ma riuscii a limitarmi a un solenne cenno della testa. «Diecimila euro?»
«Esattamente».
«Deve averla amata moltissimo. La risposta è ancora no».
Lui annuì. Rimanemmo un attimo in silenzio a guardarci.
Parlai prima io. «Bene. Posso fare qualcos’altro per lei?».
Non disse niente, continuava a fissarmi.
La cosa iniziava a diventare seccante. Aprii un cassetto, presi un biglietto da visita dal blocchetto che c’era dentro e glielo offrii. «Qui c’è il mio numero, in caso ne avesse bisogno. Si è fatto tardi però. Se non c’è altro che posso fare per lei…».
Si allungò sulla scrivania, ma non fece alcun movimento per prenderlo. Anzi, mise la mano sulla bandierina. La rigirò, se la piazzò davanti e fece rimbalzare con delicatezza l’indice sulla punta dell’asta. Si morse il labbro con una smorfia di dolore. «È molto appuntita. Deve stare attento».
Senza distogliere il mio sguardo dal suo, allungai la mano e riportai la bandierina verso il mio lato della scrivania. «Non si preoccupi. Ora temo che si sia fatto tardi…».
«È la seconda volta che lo dice».
«Lo so, però a quest’ora avrei dovuto già chiudere l’ufficio».
«Ha ancora dieci minuti. Cosa pensa di farci?».
Non che avesse alzato il tono di voce, ma non mi piacque affatto la piega che stava prendendo la conversazione. «Mr. Montgomery, credo che lei debba andare».
Mi fissò ancora, scrollò la testa come per schiarirsi le idee e si tirò il colletto. Aveva una camicia molto costosa, solo un po’ troppo stretta. Poi allargò le dita e iniziò a tamburellare sulla scrivania. «Sa, non ho mai avuto questi problemi col suo predecessore».
«Il mio cosa?». Stavolta non riuscii a frenare un piccolo scatto.
«Il suo predecessore. Il console che c’era prima». Pronunciò quelle parole molto lentamente, come per spiegare qualcosa all’ingenuo che gli stava davanti. «Non ho mai avuto questo problema con lui». Si sporse in avanti di pochissimo.
Cercai di restare immobile. «Dev’esserci un malinteso».
Lui sogghignò. «Oh, non credo proprio».
Lo guardai dritto negli occhi. «Mr. Montgomery, ora gradirei che andasse».
Abbassò la testa. Si chinò per dare a quel traditore di Gramsci una grattatina sotto il mento e poi si rimise in piedi. Decisi di fare un ultimo tentativo, così, giusto per curiosità.
«Immagino che non possa dirmi cosa c’è lì dentro, vero?».
Sorrise di nuovo, stavolta senza alcuna cordialità. «Potrei. Ma penso che non lo farò. Ci vediamo».
Capitolo 2
Al Paradiso Perduto ci davano dentro. La cover band non era il massimo, ma il repertorio – Deep Purple, Black Sabbath e, scelta temeraria, Jethro Tull – sembrava aver richiamato ogni maschio veneziano di una certa età. Il locale era un misto di chiasso, sudore, odore di pesce e frittura. In senso buono. Direi che mi stavo divertendo.
«Devono fare per forza tanto casino?»
«Stai invecchiando, Nathan. Certo che devono fare casino. Scommetto che non sei mai andato alla Fenice dicendo: Questo Verdi fa bella musica, ma alza troppo il volume
».
«Non posso permettermi di andare alla Fenice, Dario. E sì, sono troppo vecchio per questo. Mi sanguinano le orecchie».
Nell’attimo di improvviso silenzio che seguì, mi accorsi che stavo urlando e che tutti si erano girati a guardarmi. Poi, un riff trascinante e insistito di chitarra esplose da un amplificatore. Dario mi afferrò la spalla e mi diede uno scossone.
«Pink Floyd! Astronomy Domine! Questa è del periodo di Syd Barrett…».
«Dario, come fai a sapere ’ste cose?».
Sembrò che l’avessi insultato. «Nathan, questa roba viene dal tuo Paese».
«Può darsi. Ma dico, come fai a saperne così tanto di questa musica? Io non straparlo mai di Gaber o Celentano».
«Ma quelli non li sente nessuno. Cioè sì, ma non seriamente. Questa è vera musica inglese. Nessun altro Paese al mondo ha mai fatto musica del genere. Dovresti esserne fiero!».
«Sì, credo di sì. È solo che… non lo so… forse sono troppo vecchio».
«Guardati intorno, Nathan. C’è gente di tutti i tipi. Vecchi, giovani, persino stronzi bisbetici come te».
Era vero. Il pubblico era un insieme di studenti, capelloni e uomini di mezz’età come noi. Ai tavoli si mangiava pesce fritto, polpette di carne, baccalà, seppia grigliata; gli spritz invece – con Campari o Aperol – erano distribuiti e fatti scivolare sul bancone con efficienza da distributore automatico. Presi un sorso della mia deludente bionda italiana. Erano sempre deludenti. Nelle giornate calde sembravano la cosa migliore del mondo, per quei dieci secondi che ci mettevano a diventare calde e senza schiuma. Cosa avrei dato per una vera birra! Una sigaretta ci stava tutta, ma sapevo che Dario mi avrebbe urlato contro.
Vuotai il bicchiere. «Altro giro?», mi chiese.
«Sì, perché no? Lenirà il dolore. Prendi anche un polipetto».
Mentre il mio amico era a fare rifornimento, la band cominciò a suonare una vecchia canzone degli Hawkwind, Master of the Universe. Mi uscì un urletto di eccitazione. Quando Dario tornò, mi trovò che cantavo insieme al gruppo. Forse, con le dita fingevo anche di suonare la chitarra.
Sorridendo, gli si formarono delle rughe agli angoli degli occhi. Mi avevano sempre stupito le rughe profonde che aveva attorno agli occhi. La prima volta, mi era sembrato che avesse preso troppo sole. Poi, capii che era perché rideva tantissimo. Mi afferrò le spalle e mi scosse di nuovo. E quando Dario ti scuoteva, tu tremavi dalla testa ai piedi.
«Vedi! Te l’avevo detto che ti saresti divertito!».
«Vero, sono gli Hawkwind, no? Non avevo mai sentito una cover di questo pezzo».
«Gli Hawkwind fanno schifo. Senti la mia storia sui Pink Floyd».
Posai la birra e lo guardai, gelido. «Okay. Sentirò la tua storia sui Pink Floyd. Ma se parli ancora così degli Hawkwind non siamo più amici».
Dario ridacchiò e per un attimo ebbi paura che mi desse un’altra delle sue percosse.
«Scherzo, Nathan. In Search of Space è un ottimo disco. Ma la storia dei Pink Floyd…».
Diedi un bel morso al polipetto. Un piccolo polpo. Su uno spiedino. Geniale. «Okay, sentiamo».
«È il 1994, okay? Roger Waters ha lasciato il gruppo da anni. Nessuno pensa che gli altri possano fare qualcosa di buono senza di lui. Invece, pubblicano The Division Bell. Il loro ultimo album, un grandissimo album. E vengono a suonarlo a Venezia. Venezia!
«Ora, ovviamente io ho il biglietto. Un pomeriggio che sono in ufficio, però, mi arriva una telefonata. È Maria, all’epoca mia moglie, chiama dalle Zattere. E mi dice che li ha visti, tutti e tre, seduti da Nico a farsi uno spritz.
«Devo andarci, ma come? Venti minuti di autobus da Mestre e poi un vaporetto? No, se ne sarebbero andati. Dico al mio capo che devo andare, ho ricevuto una telefonata importante, tornerò fra un’ora.
«Salto in moto, la mia vecchia Guzzi Le Mans 850. Faccio tutto corso del Popolo, giro in via della Libertà, salgo sul ponte e spingo a tutto gas fino a Venezia. C’è una giornata stupenda. È fresca, ma il sole splende su tutta la laguna. Il cielo è limpido. Continuo a sfrecciare sulla corsia di sorpasso e la città vecchia si avvicina sempre di più; tutto quello che riesco a pensare è che i Pink Floyd si stanno facendo una bevuta da Nico e io devo raggiungerli prima che se ne vadano.
«Alla fine del ponte, prendo la svolta per San Basilio. Lì trovo un posto di blocco, dove prima c’era la vecchia stazione marittima. C’è un poliziotto ma – senti questa – è un vecchio amico. Abbiamo fatto il servizio militare insieme. Gli urlo che devo andare da Nico perché ci sono i Pink Floyd e lui mi fa cenno di passare!
«Così, arrivo a San Basilio e so che ora devo stare attento, perché le strade sono piene di gente. Tutti mi urlano e mi salutano, pensano che sia un turista pazzo, un ubriacone o forse uno che sta girando un film. Passo il primo ponte e ormai sono alle Zattere, sulla strada che costeggia il canale. C’è un altro ponte, per un attimo mi sembra di volare, poi atterro di nuovo.
«Eccoli. Nick Mason. Richard Wright. David Gilmour. Mi fermo con una sbandata, metto il cavalletto, tolgo il casco. A quel punto, tremo. Mi avvicino e dico a Gilmour: Volevo dirvi solo che siete dei grandi
.
«Gilmour allora guarda la moto e scuote la testa. Poi sorride».
Dario si interruppe e fece una smorfia. «Ecco. Questa è la mia storia sui Pink Floyd».
Io mi scolai la birra.
«Stai dicendo che ti sei fatto una corsa in moto alle Zattere solo per dire a Dave Gilmour quanto lo amavi?»
«Sì!».
Assurdo. Se avessi avuto davanti chiunque altro avrei gridato che era una stronzata. Ma a Dario succedevano sempre cose del genere. Gli diedi un pugno sul braccio e me ne pentii all’istante. Fu come dare un pugno a un muro di mattoni.
«Sei un pazzo sciroccato. E poi che è successo?»
«Mi hanno fatto un autografo sulla tovaglia del loro tavolo!».
«No, che è successo dopo che ti sei fatto mezza Venezia con la moto?»
«Oh, mi hanno tolto la patente per dodici mesi. E avendo perso la patente, ho perso anche il lavoro. E avendo perso il lavoro, Maria mi ha lasciato. Non riuscivo a trovare nient’altro, così alla fine sono tornato nell’esercito. Ma ne è valsa la pena. La tovaglia ce l’ho ancora. La prossima volta che vieni a trovarmi te la faccio vedere».
La band aveva tirato per le lunghe Freebird e ora metteva a nanna gli strumenti.
Guardai l’orologio. Erano appena passate le undici, avevamo ancora un’ora.
«Ne prendiamo un’altra?»
«Meglio di no. Ho detto a Valentina che non facevo tardi».
«E dài. Un giro veloce».
Guardò il bicchiere valutando la cosa.
«No, devo andare. È sempre meglio fare come dice la moglie, no?».
Il silenzio durò un attimo, ma fu comunque imbarazzante.
«Scusami».
Alzai le spalle.
«Tutto bene?».
Lo rassicurai. «Sì. Più o meno. Quasi sempre». Cambiai argomento. «Sai che oggi è venuto un tizio in ufficio a farmi un’offerta che non potevo rifiutare?»
«E tu?»
«Ho rifiutato».
«Di che si trattava?»
«Mi ha chiesto di tenergli un pacco. Solo per qualche giorno, ha detto».
«Droga?»
«Quasi certamente. Comunque, l’ho mandato via. Sicuro che non ne vuoi un’altra?».
Sicuro. Temevo un’altra botta