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Il fiele nel cuore
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E-book224 pagine3 ore

Il fiele nel cuore

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Info su questo ebook

Di fronte al cadavere della sorella, Eleonora vive nel rimorso di non aver capito in tempo e di non aver fatto abbastanza.
Qualche anno prima Letizia ha sposato Alberto, un rampollo della Torino che conta. I primi anni sono segnati da un’apparente felicità. Lui è romantico, inebria la moglie con regali e gesti d’attenzione. Ma la sua vera indole e una fobica gelosia non tardano a manifestarsi con atti di violenza verbale e fisica sempre più frequenti, che degenerano fino a causare un aborto.
Quando Letizia si rende conto di aver creduto a una felicità non autentica si apre uno squarcio incolmabile tra le sue illusioni e la dolorosa realtà. Lascia Alberto, che però non si rassegna e la molesta con telefonate, appostamenti e pedinamenti.
La situazione precipita nel momento in cui Letizia, desiderosa di riappropriarsi delle propria vita, chiede la separazione.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9791220818711
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    Anteprima del libro

    Il fiele nel cuore - Nives Tharafeo

    1

    Era il giorno di Halloween del 1995. La nebbia avvolgeva la città con il suo spesso manto. Il Monviso era tutto imbiancato.

    Eleonora impiegò circa dieci minuti per raggiungere a piedi la fermata del 16 da corso Cairoli. Dopo una buona mezz’ora arrivò all’ospedale Umberto I. Stretta nel suo cappotto di lana, entrò all’obitorio. La Sala Settoria si trovava al piano seminterrato del padiglione 11. Si avviò verso una stanza accompagnata da un’addetta che, poco prima di entrare, le porse una piccola busta di plastica trasparente. Conteneva una collana con un ciondolo a forma di chiave e una piastrina. Quel cimelio era tutto ciò che le rimaneva di sua sorella.

    Si avvicinò al vetro che occupava l’intera parete. Il corpo era disteso su una barella d’acciaio. Ebbe un attimo di cedimento. Subito dopo fece un cenno col capo e l’inserviente abbassò la zip del sacco di plastica nera. Eleonora avvertì dei brividi acuti.

    Il volto di Letizia era bianco, ingrigito dall’effetto delle luci al neon. Sulle protuberanze del naso e della fronte luccicavano dei piccoli cristalli di ghiaccio. Sembrava dormire profondamente. Sul suo viso, incorniciato da una massa di capelli castano scuri ancora setosi, notò una leggera smorfia.

    Letizia aveva sempre avuto l’argento vivo addosso. Come quella volta che, da piccole, si erano inzuppate quando un temporale le aveva sorprese mentre giocavano in cortile. Mamma Lidia si era affacciata alla finestra della cucina e aveva gridato loro di andare a ripararsi. Invece di entrare nell’androne, Letizia si era messa a fare giro giro tondo piroettando come una trottola sotto la pioggia incessante. Eleonora rideva come una matta, mentre la mamma continuava a strepitare come un’aquila.

    Le venne in mente una poesia di Jorge Luís Borges, che tante volte aveva riletto.

    Ci sono momenti in cui si deve vivere la propria vita per capire sé stessi. Perché si cambia, il nostro mondo cambia, cambiano le cose senza che te ne accorgi, un mattino è come se ti svegliassi dopo i cento anni della Bella Addormentata. E ti chiedi cosa è successo a te, nel frattempo: se tutto è cambiato così, dov’eri tu che non te ne accorgevi. Chiedi, ma nessuno risponde.

    Ci sono momenti in cui si deve vivere la vita attraverso la vita degli altri. Altri che soffrono, altri che ti hanno aspettata a lungo, altri che dopo anni di silenzio finalmente parlano. Altri che hanno bisogno di un compagno nell’attesa delle loro attese.

    E altri per i quali il tempo che passa nell’aspettare è già un dono.

    Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno dopo giorno e non te ne accorgi se non guardando all’indietro.

    Non sai se ha senso. In certi momenti il senso non conta. Contano i legami.

    Eleonora si soffermò in particolare sull’ultima frase: contano i legami. Quelle parole, potentemente suggestive, non smettevano di risuonare nella sua testa.

    Avrebbe voluto dare un ultimo bacio a Letizia, ma le separava quel maledetto vetro. Il freddo impregnava ogni singola mattonella bianca di quella gelida stanza. Si legò la sciarpa al collo. Aveva dimenticato di indossare i guanti e ora le sue mani erano screpolate.

    «Perché non hai voluto ascoltarmi? Perché?» disse con un tono duro di rimprovero verso sé stessa. Chiese di poter rimanere alcuni minuti da sola con Letizia. Molteplici ricordi si intrecciarono nella sua mente.

    2

    Il padre Nicola era un affermato cardiologo; diversi istituti ospedalieri del nord Italia se lo contendevano per affrontare operazioni molto delicate. Parte del merito andava a sua moglie: una donna amorevole che aveva contribuito non poco a dargli una stabilità emotiva. Tra di loro c’erano quindici anni di differenza.

    Lidia, all’epoca venticinquenne, accompagnò la madre all’ospedale San Paolo di Savona, perché da tempo soffriva di una grave aritmia cardiaca. Il suo medico di base le aveva consigliato di farsi visitare da un noto specialista. La lista d’attesa del dottor Gandolfi era lunga e non era stato semplice ottenere l’appuntamento di martedì pomeriggio.

    Mentre aspettavano il loro turno, passarono in corridoio due infermiere.

    «Hai sentito anche tu quel che si dice in giro?» disse la prima, sorridendo maliziosa.

    «Eccome. Pare che il suo fascino abbia colpito ancora» le rispose l’altra, con un sorrisetto altrettanto beffardo.

    Lidia prese a passeggiare avanti e indietro nella sala di attesa. Si soffermò a guardare fuori i passanti che andavano al Prolungamento, i giardini che conducevano al mare. L’aria era frizzante ed erano tutti imbacuccati nei loro giacconi. Non si accorse che l’assistente del dottore le stava chiamando. Le indicò con la mano di avviarsi nella stanza della visita.

    «Buongiorno, dottore. Accompagno mia madre» disse Lidia con tono sommesso. Era entrata per prima. La madre la seguì lenta insieme all’assistente.

    «Avanti, avanti» le rispose cordiale il dottore, senza distogliere lo sguardo dal suo ricettario su cui stava facendo delle annotazioni.

    Impacciata, Lidia fece per sedersi, ma si sentiva in soggezione.

    Trascorsero alcuni istanti di assoluto silenzio; il dottore seguitava a scrivere appunti.

    «Ecco la signora Musso» lo interruppe finalmente la sua assistente. Egli levò gli occhi dal suo taccuino per abbozzare un saluto e fu a quel punto che si accorse meravigliato della reale presenza di Lidia. Lo colpirono i suoi occhi, di un colore verde profondo.

    «Preparo il lettino per la visita o preferisce che prima compiliamo la scheda della paziente?» gli domandò la sua assistente.

    Non ci fu nessuna risposta.

    «Mi scusi, da dove cominciamo?» gli ripeté l’assistente, a cui seguì un colpetto di tosse che emise Lidia per interrompere quella strana atmosfera.

    «Predisponga il lettino» si decise alla fine a rispondere. Mentre la madre si preparava per la visita, il dottore non smise di fissare il volto candido di quella giovane donna in una maniera ai limiti dell’insolenza. In imbarazzo, Lidia giocherellava con il gancio della sua borsetta e sentiva le mani tutte sudate.

    Per l’incallito scapolone fu un vero colpo di fulmine. Dopo meno di un anno da quel primo incontro erano già sposati.

    Per tradizione, i Musso erano ceramisti di rilievo, ma Lidia aveva preferito diventare maestra d’asilo. Amava molto quel lavoro, pur avendo messo in conto che forse non avrebbe più potuto dedicarvisi a tempo pieno. Il marito non gliel’aveva impedito esplicitamente, ma le aveva fatto intendere che la sua carriera veniva prima del resto.

    Per la sua competenza medica, prendeva parte a numerosi convegni di settore, a cui ogni tanto la moglie lo accompagnava. Riuscire a conciliare le attività lavorative di tutti e due sarebbe stato difficile. Con la nascita delle figlie, Lidia preferì dedicarsi a loro: a poco più di un anno e mezzo dal matrimonio nacque Eleonora e due anni più tardi Letizia.

    Si erano sistemati in un appartamento signorile nel centro di Savona. Le due bambine erano cresciute circondate dal profondo amore materno. Il padre, invece, aveva dei modi burberi, incapace di slanci di tenerezza verso le figlie. Era sovente in trasferta e al ritorno portava loro dei piccoli regali. Credeva che bastasse così poco per ottenere il loro affetto. Eleonora, più forte di carattere già da piccola, non sembrava soffrirne, a differenza di Letizia. Tuttavia, il legame che univa le due ragazze era molto forte e in grado di colmare altri vuoti.

    Si impegnavano nello studio, specie Eleonora, che stava ormai terminando il liceo classico Chiabrera, nel tempo in cui Letizia frequentava l’istituto di ragioneria Paolo Boselli. Quando Eleonora si diplomò, a luglio del 1980, il padre la sorprese regalandole un anello d’oro con zaffiro. Ancora una volta, ciò che non riusciva a esprimere con le parole, lo manifestava con i doni. Eleonora aveva già espresso l’intenzione di proseguire gli studi all’università di Genova per specializzarsi in medicina odontoiatrica.

    Ai primi di settembre il padre era stato invitato a un convegno specialistico a Torino e, in quell’occasione, la moglie andò con lui. Per non lasciare le figlie da sole, Lidia chiese alla sorella di prendersene cura per alcuni giorni.

    Sandra aveva quarantasei anni, due più di lei; non viveva a Savona, malgrado vi tornasse di tanto in tanto per andare a trovarla. Accettò quindi di buon grado, anche perché il marito Corrado, rappresentante farmaceutico, proprio in quel periodo doveva andare a Genova per lavoro.

    Si erano conosciuti sedici anni prima a Savona durante le vacanze estive. Corrado viveva a Torino con la famiglia ma, come molti piemontesi, trascorreva l’estate in Liguria. Frequentavano la stessa spiaggia, dove si erano incontrati. Il loro sentimento crebbe a poco a poco, finché compresero di essersi innamorati. Si sposarono nel giro di due anni. Sembrava andare tutto a gonfie vele tra di loro, tanto che avrebbero voluto allargare la famiglia. Dopo una serie di esami medici scoprirono di non poter aver figli e inizialmente la notizia li sconvolse. Eppure ciò non li separò; alla fine, se ne fecero una ragione.

    «Ciao Sandra, il convegno è terminato. Non vedo l’ora di tornare a casa. Sono sfinita e francamente pure annoiata. Partiremo tra poco. Da voi come va? Le ragazze si sono comportate bene? Mi raccomando, non le viziare troppo» disse Lidia al telefono, per avvisare dell’imminente rientro.

    «Stai serena. Le ragazze sono state bravissime e vi aspettano con ansia. Ma non vi converrebbe partire di giorno? Che cosa cambia una notte in più?» le rispose la sorella.

    «Sarebbe stato meglio, ma sai com’è fatto Nicola. E poi ho proprio voglia di dormire nel mio letto. Non mi va di restare ancora in questa anonima stanza di albergo. Ci vediamo più tardi» disse Lidia accomiatandosi.

    Quel maledetto sabato sarebbero dovuti arrivare per cena. Alle nove, però non si erano ancora visti.

    «Si saranno attardati» disse Corrado, mentre erano ancora tutti seduti a tavola.

    «Papà avrà trovato dei colleghi con cui parlare dei suoi interventi. Povera mamma» gli fece eco Eleonora.

    «Magari avranno deciso di rientrare domani, come le avevo suggerito» disse Sandra.

    Alle ventidue e trenta suonò il telefono. Erano ancora tutti svegli a guardare un programma in televisione.

    «Sarà la mamma che ci avvisa che fino a domani non li vedremo» fece Letizia, con aria compiaciuta.

    «Rispondo io» disse Corrado, che due minuti prima era andato in cucina. «Pronto. Sì, sono il cognato. Come dice? Può ripetere, per favore? Un incidente? Quale incidente? Oh Santo Iddio!»

    «Che cosa succede?» gli domandò Sandra.

    «Di quali rilievi sta parlando?» sbraitò Corrado, in preda a una totale agitazione. «Certo, mi occupo io di tutto. Mi dia il tempo necessario e vi raggiungo sul posto.»

    «Ma si può sapere che diamine ti hanno detto?» ripeté Sandra, urlando.

    Corrado riagganciò il telefono con un’espressione persa nel vuoto.

    «Ti decidi a parlare? Mi vuoi dire chi era al telefono?» insistette la moglie.

    Con la cornetta grigia del consunto apparecchio Sip ancora tra le dita, Corrado si sedette sulla poltrona accanto.

    «Zio, ci fai paura. Ci dici che cosa ti hanno detto?» disse Letizia avvicinandosi verso di lui con gli occhi supplicanti.

    «Per favore, non tenerci sulle spine. Si tratta di mamma e papà, non è vero?» disse Eleonora.

    «È terribile» si decise a parlare Corrado «hanno avuto un brutto incidente e la polizia ha chiesto che un familiare si rechi sul luogo per i rilievi del caso.»

    «Che cosa significa? Mamma e papà stanno bene?» disse Letizia.

    «Mi dispiace, ragazze. È meglio che vada. Sandra, resta qui con loro. Vi chiamo appena mi sarà possibile.»

    Un’ora dopo quella telefonata, Corrado giunse a Fossano nel punto dove era avvenuto l’incidente. Il viadotto autostradale Generale Franco Romano della Torino-Savona era alto ottanta metri e da lì molti si erano gettati nel vuoto, rendendolo tristemente noto come il ponte dei suicidi.

    Riuscì a parlare con i carabinieri, i quali gli dissero che l’auto era finita giù dal cavalcavia e sull’asfalto erano ancora evidenti le tracce di una brusca frenata. Un testimone oculare, che procedeva sulla corsia opposta, aveva affermato che l’auto aveva sterzato all’improvviso e il conducente aveva perso il controllo, andando a sbattere contro uno dei piloni e poi era volata di sotto. Le ipotesi erano che si fosse trattato di un colpo di sonno o di una distrazione. Le due vittime erano morte sul colpo. Dai documenti recuperati, Corrado confermò che si trattava dei cognati.

    Furono sepolti nel cimitero di Zinola, nella tomba della famiglia Gandolfi. Una calda brezza caratterizzò quella lugubre giornata, illuminata da un sole sbiadito.

    Letizia, più fragile, continuava a piangere disperata. Ora si aggrappava alla sorella, ora se ne allontanava, in un misto di dolore e di isterismo. Eleonora, coperta dai suoi occhialoni scuri, appariva impassibile e gli zii temevano che sarebbe potuta crollare secca. Le amavano come fossero state figlie loro. Sandra si convinse che la tragica morte della sorella avrebbe potuto sortire qualcosa di buono.

    D’intesa con il marito, ritenne che la soluzione migliore sarebbe stata quella di adottare le nipoti, anche se per loro avrebbe comportato il trasferimento da Savona a Torino. Rientrati a casa dal funerale, prese Eleonora da parte.

    «Tesoro mio, non ci sono parole che possano consolare te e tua sorella. La vita spesse volte è ingiusta. Ci mette di fronte a prove durissime di cui non sempre ne comprendiamo il significato. Ciò che conta è reagire, sempre. Prendetevi tutto il tempo che vi serve, io e lo zio ci saremo, non lo dimenticare.»

    «Lo so, zia. Se non ci foste stati voi, non so proprio come avremmo fatto» rispose Eleonora, seduta sul suo letto con gli occhi che fissavano il pavimento.

    «Forse non è il momento giusto, ma desidero dirtelo ugualmente» disse zia Sandra, che teneva le mani incrociate, come se stesse pregando.

    «Che cos’altro c’è?»

    «Ne ho parlato a lungo con lo zio e anche lui è d’accordo. Tu sai quanto volessi bene a tua madre. E sai anche quanto avrei desiderato un figlio.»

    «Che cosa c’entra adesso?»

    «Saremmo felici se tu e Letizia veniste a vivere con noi. La nostra casa è spaziosa e sarebbe bello avervi vicine. Mi rendo conto che per voi non sarebbe facile cambiare città.»

    «Come sarebbe? Non voglio lasciare la nostra casa. Qui c’è tutta la nostra vita, i nostri ricordi, gli oggetti di mamma e papà. Non possiamo cancellare tutto come se niente fosse.»

    «Non ti preoccupare. La casa resta e ci torneremmo per le vacanze e tutte le volte che vorrete.»

    «Dici sul serio?»

    «Certamente, angelo mio. Accetteremo la vostra decisione, qualunque essa sia» disse la zia, abbracciandola forte e dandole un bacio sulla fronte prima di uscire dalla stanza.

    Eleonora passò una notte insonne. Aveva avuto troppe emozioni in un colpo solo. La settimana precedente erano tutti insieme: lei, Letizia e i loro genitori. E all’improvviso gli accadimenti avevano stravolto le loro vite.

    La proposta degli zii avrebbe potuto sembrare intempestiva in quella circostanza, eppure non era del tutto fuori luogo. Erano troppo giovani per badare a sé stesse. Tutto sommato, l’opportunità di trasferirsi non era insensata. Adesso veniva la parte difficile: chissà come l’avrebbe presa Letizia.

    La mattina seguente, Eleonora era già in piedi di buonora e per far indorare la pillola alla sorella le preparò una ricca colazione, come quelle che era solita allestire la mamma di domenica, quando si ritrovavano per iniziare piacevolmente assieme la giornata.

    «Non senti che buon profumo di caffé?» disse Eleonora sull’uscio della porta della camera. «Hai voglia di farmi compagnia? Ho preparato le omelette con la marmellata che ti piacciono tanto. Ieri sera non abbiamo mangiato nulla e non possiamo restare a stomaco vuoto. Dai, alzati.»

    «Non ne ho voglia. Preferisco restare a letto» le rispose Letizia, tirandosi il lenzuolo sul viso.

    «Mica stai male solamente tu, che cosa credi? È dura anche per me. Soprattutto ora che la situazione potrebbe mutare.»

    «Mi sembra che lo sia già»

    «Se vieni a fare colazione, ne parliamo» aggiunse Eleonora con tono misterioso, dirigendosi verso la cucina mentre la cuccuma del caffé borbottava.

    Letizia fece un balzo dal letto. Prese la sua vestaglia rosa a pois; non riuscì a infilarsi le babbucce e le trascinò lungo il corridoio.

    «Adesso mi spieghi» disse alla sorella, raggiungendola in cucina.

    «Siediti e abbassa la voce. Gli zii stanno ancora dormendo. Facciamo colazione e ti racconto tutto» ordinò alla sorella, che eseguì senza fare storie.

    Eleonora le versò il caffé nella sua tazza preferita, quella gialla, e poi si sedette a sua volta.

    «Mangia con calma. Gustati il tuo caffellatte e le omelette.»

    «Non tenermi sulle spine. Che cosa devo sapere?» le domandò Letizia, con i capelli arruffati e le guance rosse. Avvicinò la tazza

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