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La figlia del re
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E-book362 pagine4 ore

La figlia del re

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Info su questo ebook

Mary e Richard si trovano in Egitto, nella Valle dei Re, per una missione unica nel suo genere: il loro scopo è ritrovare un antichissimo manoscritto che dimostrerebbe l’esistenza di una figlia avuta dal faraone Tutankhamon a soli diciassette anni. Informazioni concrete e leggenda si intrecciano intorno alla storia del manoscritto, ma i due archeologi sono convinti della sua esistenza, e non intendono deludere il loro finanziatore. Non sono, però, gli unici ad avere intrapreso la ricerca del prezioso reperto: poco lontano dal loro campo, infatti, un’altra squadra ha il loro medesimo obiettivo. Gli scavi non portano alla luce granché, finché iniziano a manifestarsi degli eventi strani e inspiegabili: un vento furioso si abbatte sulla Valle scardinando le tende degli operai, e proprio quella notte Mary ritrova casualmente uno strano manoscritto. Che sia quello che tutti stanno cercando? Qualcuno, però, sta seguendo nell’ombra ogni loro mossa, e da quel momento nessuno sarà più al sicuro. Tra continue sparizioni del manoscritto e brutali uccisioni, sarà arduo ricomporre i pezzi di questo intricato puzzle. Chi intende far conoscere la verità, e chi invece vuole solo confonderla?

Gianni Montalto è nato a Formia in provincia di Latina il 16 dicembre 1961. Sin da ragazzo la cultura egizia,  e la storia millenaria che la alimenta, non ha mai smesso di affascinarlo. Questo è il suo romanzo di esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2021
ISBN9791220111546
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    Anteprima del libro

    La figlia del re - Gianni Montalto

    Nota dell’autore

    Alcuni luoghi indicati nel romanzo sono frutto della pura immaginazione e i riferimenti a fatti realmente accaduti sono citati per specificare il periodo storico cui essi si correlano per dare risalto alla narrazione.

    L’omonimia e/o il ruolo rivestito da taluni personaggi, rispetto a persone realmente esistite o ancora in vita, sono assolutamente casuali.

    1

    La coltre di sabbia, sollevata nella notte dal vento impetuoso, fece affiorare, ai piedi della scalinata che conduceva alla tomba del faraone, il libro le cui pagine confuse si rincorsero spedite per alcuni istanti prima di celarsi nuovamente in essa.

    Il turbinio destò di soprassalto Mary Jones, accampata in quel luogo intriso di fascino e mistero che ogni giorno chiama a raccolta centinaia di visitatori, rapiti da tanta magnificenza e bramosi di conoscerne l’antica storia.

    Aprì la zip della tenda e, affacciandosi, il suo sguardo si smarrì nelle luci soffuse che avvolgevano la Valle non consentendole di avere una visuale nitida. Percepì dei rumori ma non fu in grado di stabilirne l’esatta provenienza.

    In quel momento era sola. Il suo assistente, Ahmed, si era allontanato per recar visita a moglie e figli. Poteva chiamare gli operai che alloggiavano nei pressi, ma non lo fece.

    Con estrema cautela seguì l’istinto che la condusse fino all’ingresso della tomba KV62, quella di Tutankhamon.

    Fu avvolta dal silenzio, cupo e impalpabile. Il vento, destatosi all’improvviso dal torpore, sibilò ancora alcuni istanti prima di placarsi definitivamente, ma l’aria frizzante che aleggiava nella notte la inebriò a tal punto da farle perdere i sensi.

    All’alba fu lo stesso Ahmed a trovarla riversa in modo innaturale ai piedi della tomba del faraone.

    Prontamente la soccorse. Le diede un buffetto per risvegliarla. «Signora Mary! Signora Mary... Cos’è successo?!».

    La donna, ancora frastornata, non rispose.

    Ahmed la prese in braccio e la ricondusse nella sua tenda, dove la adagiò delicatamente sulla branda.

    «Non so cosa mi sia capitato» biascicò la donna dopo aver ripreso parzialmente conoscenza. «Mi sono avvicinata alla tomba e ho perso i sensi... non ricordo più niente... dov’è Richard?».

    Richard Bernwell stava condividendo con lei quell’avventura. Avevano ottenuto dalle autorità locali il permesso di eseguire scavi nella Valle dei Re per la ricerca, almeno come mira dichiarata, di reperti archeologici, come del resto nelle logiche intenzioni di altri gruppi di studiosi e scienziati.

    In realtà, lo scopo della loro missione era il ritrovamento di un fantomatico manoscritto che avrebbe dimostrato l’esistenza documentata di una figlia nata dal rapporto fra Tutankhamon e l’amata moglie Ankhesenamon, quando il faraone aveva soltanto diciassette anni.

    I geroglifici incisi in modo quasi impercettibile su un muro perimetrale del tempio di Luxor, narrerebbero che Ay, imperatore d’Egitto alla morte di Tutankhamon, avrebbe ordito l’uccisione della virgulta. Il sangue reale che le scorreva nelle vene l’avrebbe legittimata a regnare dal giorno in cui il padre avesse esalato l’ultimo respiro, suscitando l’ira di chi ambiva a esserne il successore. Fu così che Ankhesenamon, avendone appresa l’idea assassina, con l’assenso del marito avrebbe cercato di preservare la figlia ordinando a due fidati sudditi di trasferirla ancora in fasce in un luogo segreto presso una famiglia, la cui identità non doveva, per alcun motivo, essere svelata, a costo della vita se fosse stato necessario.

    Gli emissari, dopo aver raggiunto la meta e consegnata la bimba, nel fare ritorno sarebbero stati intercettati dai devoti di Ay – evidentemente, a corte, la notizia era trapelata – e uccisi senza che rivelassero tuttavia il posto in cui lei era stata condotta.

    Dopo che Tutankhamon morì, la figlia avrebbe trascorso la sua vita lontana dall’Egitto senza farvi più ritorno.

    Gli stilati murari non specificherebbero altri particolari degni di nota. Il destino della fanciulla era quindi incatenato a quel manoscritto la cui esistenza, peraltro, non era certa, anche se i geroglifici scolpiti nel tempio la farebbero dedurre.

    Molti studiosi affermati, in assenza di altri tangibili riscontri, non avevano mai considerato genuini quegli scritti, come se l’estensore avesse voluto dare sfoggio della sua fantasia, prendendosi gioco dei posteri: in altri termini, si trattava di una leggenda. L’unica verità storica era certificata dai due feti, appartenenti alle bimbe morte subito dopo la nascita, rinvenuti nella camera funeraria di Tutankhamon all’epoca della sua scoperta, avvenuta nel 1922 per opera di Howard Carter.

    Contrariamente ai più, invece, Richard e Mary credevano in quelle scritture ed erano quindi determinati a darne conferma cercando accoliti da votare alla loro causa.

    Riuscirono a convincere un magnate americano, Frank Sorvino, a finanziare il progetto con l’impegno, una volta ritrovato il prezioso documento e dopo averlo tradotto, di consegnargli il cimelio, a inderogabile condizione che il papiro non lasciasse gli Stati Uniti senza il loro preventivo assenso scritto e che la sua consultazione, da parte di esperti, studiosi o terzi in genere, fosse concordata e adeguatamente remunerata.

    Per sancire l’accordo sottoscrissero un contratto che, una volta riposto in una busta debitamente sigillata, consegnarono a un notaio di reciproca fiducia che lo avrebbe custodito a garanzia il quale preferì, di fronte alla legge, non conoscerne il contenuto, nonostante avesse partecipato alla sua stesura.

    Per considerarne valide le clausole, il manoscritto doveva comunque lasciare l’Egitto legalmente, ossia le autorità non dovevano porre veti all’esportazione, anzi avrebbero dovuto concedere il nulla-osta che sarebbe servito alla dogana statunitense per autorizzarne l’ingresso sul territorio americano e ritenerne quindi legittimo il possesso e l’utilizzo.

    Una circostanza che doveva essere attentamente vagliata da Richard e Mary qualora fossero venuti in possesso del manoscritto, perché era molto difficile ottenere l’autorizzazione all’espatrio del cimelio.

    Le autorità egizie erano sempre state molto rigorose nel preservare i tesori autoctoni; ogni abuso era (ed è) sanzionato con pene esemplari e tutti gli addetti ai lavori ne erano (e ne sono) consapevoli.

    Se l’affare fosse andato a buon fine, avrebbero incassato un milione di dollari, giusto compenso per il lavoro svolto.

    Bisognava quindi ricorrere a qualche stratagemma per raggiungere l’obiettivo prefisso e di ciò doveva occuparsi Richard, mente eclettica della spedizione, anche se prima della partenza lui non era ancora riuscito a venirne a capo.

    Ogni cosa a suo tempo. Prima troviamo quel manoscritto e poi... non dormirò per riflettere su come lo porteremo via! fu il suo pensiero una volta lasciato l’ufficio del notaio.

    Se fossero stati sorpresi a occultare oggetti antichi rinvenuti durante gli scavi, la condanna li avrebbe portati dritti in carcere, per buona pace dei rapporti internazionali. Sorvino, qualora si fosse provato a coinvolgerlo nel misfatto, si sarebbe dichiarato certamente estraneo alla vicenda. Dopotutto l’accordo era basato sulla liceità dell’esportazione e non sulla sottrazione fraudolenta di un reperto archeologico!

    Furono stabilite anche le sanzioni nel caso in cui non fossero state rispettate le regole pattuite; infatti Sorvino avrebbe dovuto pagare duecentomila dollari se non avesse ottemperato ai divieti e agli obblighi impostigli dal contratto, e altrettanti a carico di Richard e Mary se si fossero resi responsabili di condotta disdicevole di fronte alle autorità egiziane tali da ledere il rispetto e l’onorabilità del loro finanziatore.

    Non furono stabiliti termini per il ritrovamento, ma in ogni caso le regole sarebbero valse per tutta la durata dell’autorizzazione agli scavi, inclusa la proroga, qualora concessa dalle autorità egiziane, la cui richiesta era tuttavia discrezione di Sorvino che, comunque, avrebbe avuto tutto l’interesse a presentarla nel caso in cui il primo periodo di scavi fosse stato infruttifero.

    Se al termine dei lavori in Valle non fosse stato recuperato il prezioso cimelio, il contratto si sarebbe risolto automaticamente senza aggravi per alcuno.

    In ogni caso, Frank Sorvino doveva sobbarcarsi gli oneri legati alle escavazioni, le paghe degli operai e l’organizzazione in genere, compresi il vitto e l’alloggiamento di tutti i componenti della spedizione, incluso il compenso per Richard Bernwell e Mary Jones, stabilito forfettariamente in quindicimila dollari per ognuno, indipendentemente dall’esito dell’operazione.

    Gli scavi, concentrati nei pressi della tomba di Tutankhamon, poiché ritenuta l’area in cui con ogni probabilità si poteva rinvenire il prezioso manoscritto, erano iniziati già da tre settimane durante le quali non si trovò altro che qualche misero oggetto privo di autentico valore archeologico. In Richard e Mary cominciavano a serpeggiare malumore e sconforto. Una volta la settimana aggiornavano, tramite e-mail, il loro finanziatore sugli esiti delle ricerche; anche il magnate cominciava ad assaporare il gusto amaro di un mesto fallimento.

    Mary sorseggiò un po’ d’acqua fresca rimanendo seduta sulla branda. Cercò di rammentare cosa fosse accaduto quella notte ma non riusciva a capacitarsene.

    Richard, avvertito al cellulare, arrivò in Valle a bordo del suo fuoristrada e si precipitò nella tenda di Mary.

    «Allora, cosa...?!».

    «Stai tranquillo» lo interruppe immediatamente la donna che nel frattempo si era quasi completamente ristabilita, «sto bene, sto bene!».

    Richard si sedette accanto a lei. «Mi vuoi spiegare cosa ti è successo?».

    «Sono confusa... stanotte ho sentito dei rumori... ho pensato fosse soltanto il vento, poi sono uscita e mi sono diretta verso l’ingresso della tomba di Tut. Poi... non ricordo altro!».

    Richard le sorrise rincuorandola. La strinse fra le sue braccia e le diede un bacio sulla guancia.

    «Ricordati che abbiamo un lavoro da compiere. Non vorrai mica che ti porti in ospedale a guardare la tv!».

    2

    La campanella delle sette era il segnale per riprendere il lavoro.

    Gli operai si ammassarono nei pressi del luogo deputato agli scavi e, intonando a gran voce un canto arabo, iniziarono a picconare e spalare.

    A breve distanza dalla zona riservata alle ricerche del gruppo di Richard e Mary, un’altra squadra si prefiggeva lo stesso recondito obiettivo: ritrovare quel sacro documento.

    Phil Houston, capo della compagine, aveva anch’egli dichiarato alle autorità locali la volontà di ritrovare semplici reperti archeologici, celando quindi le effettive intenzioni.

    Inizialmente, Houston e Bernwell avevano deciso di condividere le ricerche – si conoscevano dai tempi dell’università – ma la bramosia di eccellere individualmente e insanabili attriti creatisi, determinati soprattutto dall’alterigia che nutriva entrambi, li separarono in battaglia e così Richard si alleò con l’avvenente Mary, divenuta col tempo la sua fidanzata.

    Le due forze in campo si spiavano a vicenda. D’altronde la posta in palio era immensa e la popolarità planetaria che ne sarebbe scaturita, una volta resa pubblica la notizia, li induceva a gareggiare anche in modo sleale se fosse stato necessario.

    Quel mattino ebbero la visita non preannunciata di un delegato alla vigilanza sugli scavi, mandato sul posto dalle Autorità locali. Quelle incursioni senza preavviso erano la regola e fungevano da deterrente contro i malintenzionati che, non di rado, trafugavano beni archeologici per soddisfare esigenze economiche personali rivendendoli al mercato nero, sempre prolifico per i cimeli della Valle. Abdul Saphir era noto come un intransigente vigilante, inflessibile nel denunciare la benché minima infrazione all’autorizzazione concessa. Il suo peregrinare nella Valle era sempre molto fastidioso; a tutela della propria incolumità in ogni sua sortita si faceva accompagnare da quattro energumeni armati.

    Saphir era salito agli onori della cronaca qualche mese prima quando era riuscito a scoprire un improvvido ladro egiziano intento a consegnare la refurtiva – alcuni reperti trovati nei pressi della piramide di Cheope – al suo mandante, un inglese privo di scrupoli. In quell’occasione, Saphir, non pago d’aver scoperto la distrazione dei cimeli dalla piana di Giza, pedinò il furfante e quando questi fu in procinto di consegnare gli oggetti al mandante intervenne platealmente nella hall dell’albergo in cui era ospite l’inglese. Al caso si era interessata l’ambasciata britannica che aveva cercato di far assolvere il suddito della Regina accampando scuse poco plausibili e appellandosi agli ottimi rapporti diplomatici che legavano i due paesi da tempo immemore, con la promessa che il loro connazionale avrebbe lasciato immediatamente l’Egitto senza farvi più ritorno. Insensibile a ogni ingerenza, il tribunale del Cairo aveva celebrato il processo quattro giorni dopo l’arresto dei due malfattori e la sentenza era stata pronunciata il pomeriggio stesso: sei mesi senza condizionale per entrambi. L’intercessione dell’ambasciata non aveva sortito quindi gli effetti sperati. Una punizione esemplare, già comminata in passato in circostanze analoghe, senza distinzione di pelle, religione, estrazione sociale o provenienza dei colpevoli. Se fossero stati prosciolti, la sentenza avrebbe costituito un pericoloso precedente in termini giudiziari, cosicché i giudici vollero conservare la linea dura. Per le sue gesta, Abdul Saphir fu encomiato dal Consiglio Supremo delle Antichità Egizie del Cairo e investito dell’ambito incarico di primo dirigente del servizio di vigilanza sugli scavi della Valle dei Re.

    Tuttavia, come ogni persona di lustro che si rispetti, la sua ammirevole condotta e dedizione al lavoro gli aveva procurato estimatori ma anche nemici d’alto rango che si annidavano negli uffici del potere. Talvolta il commercio illegale di oggetti antichi viene anche favorito dalla connivenza di persone influenti che, approfittando della loro posizione politica e sociale, spesso corrompono gli addetti alla vigilanza pur di ottenere profitti. Saphir in più occasioni aveva sollevato al Consiglio Supremo sospetti su taluni, ma gli era stato detto di non interferire sulle indagini che la polizia stava svolgendo in modo riservato. Suo malgrado, aveva dovuto quindi mettersi da parte.

    Non era sposato, non aveva figli né fratelli o sorelle e i genitori li aveva persi in un incidente stradale quando aveva soltanto quattro anni. Era stato allevato dallo zio materno che lo aveva fatto studiare fino all’università. Conseguita la laurea con lode alla facoltà di scienze delle antichità egizie del Cairo, si era procurato un modesto impiego al museo cittadino per eccellenza espletando mansioni prettamente d’ufficio.

    Dopo solamente tre anni, durante i quali mostrò dedizione e senso del dovere, aveva spiccato il volo ed era divenuto vigilante della Valle dei Re. Anche i guadagni ebbero una impennata considerevole. Con i compensi accumulati in cinque anni di lavoro, e risparmi oculati, era riuscito a costruirsi una casa in periferia del Cairo circondata dal giardino che accudiva amorevolmente. Saphir era soddisfatto della vita che conduceva.

    Nonostante avesse un bell’aspetto e molta cura nel vestire, a vanto dei suoi trentacinque anni portati splendidamente, non desiderava una compagna fissa. Preferiva frequentare locali in cui si potevano fare amicizie disinteressate, anche se, a dire il vero, qualche simpatia cominciava a nutrirla nei confronti di un’avvenente cameriera del Mahed Café, poco più che ventenne, la quale lo ricambiava con particolari attenzioni nel servizio al tavolo, con sorrisi e ammiccamenti a profusione. Non per niente quel locale stava diventando una tappa fissa nelle uscite serali del probo vigilante.

    Saphir aveva un fidato compagno di lavoro, Benjakhur Mussef, con cui divideva le confidenze più intime. Avevano frequentato lo stesso corso universitario, anche se i profitti nello studio di Benjakhur non erano stati all’altezza di quelli maturati da Abdul. Da quando Saphir era stato promosso a primo dirigente del servizio di vigilanza sugli scavi della Valle dei Re, Mussef ne era rimasto un fedele sott’ordine.

    L’afa di quel mattino stava diventando insopportabile. Saphir si avvicinò agli operai della squadra di Bernwell assumendo, come di consueto, un’aria sospettosa. Appuntò sul note ogni particolare, anche il più insignificante. Cominciò con l’indicarvi il numero degli scavatori presenti avendo cura di specificarne orientativamente l’età, al fine di verificare se nel tempo ci fossero state sostanziali modifiche. Riscontrò questi dati con quelli acquisiti alcuni giorni prima senza appurare differenze di rilievo. Registrò anche la zona esatta in cui si stavano facendo gli scavi, contrapponendo poi i risultati con il contenuto della concessione rilasciata dall’Autorità non rimarcando anomalie. Chiese ad alcuni a che ora avevano iniziato il lavoro e se lo annotò. Insomma, un’ispezione minuziosa come nella migliore tradizione di Abdul Saphir.

    Per meglio vigilare sui lavori, le Autorità egiziane spesso infiltrano spie fra gli scavatori le quali si devono rapportare frequentemente con il preposto alla vigilanza segnalando fatti o situazioni degni di nota come, ad esempio, eventuali litigi fra operai e i motivi che li hanno originati, particolari ordini impartiti dal datore di lavoro, assenze non giustificate di alcuni scavatori e cose del genere.

    Le spie sono ben remunerate; d’altronde i rischi che corrono sono notevoli e se i compagni di lavoro le scoprono la loro incolumità fisica e quella dei rispettivi familiari sarebbe compromessa. Insomma, agire nell’ombra consente buoni guadagni, ma allo stesso tempo la vita quotidiana non è di certo agevole visto il clima di sospetto che aleggia sempre fra gli scavatori che, è inutile dirlo, sanno che fra loro esse vi si annidano.

    Già da alcuni anni Saphir si avvaleva in loco dei servigi di un uomo fidato la cui identità era nota soltanto a lui e, a tutela della riservatezza, ai suoi superiori gerarchici non volle mai rivelarla. Nel caso dell’inglese condannato dal tribunale del Cairo fu proprio la spia di Saphir ad aver un ruolo decisivo nella sua scoperta.

    Poco prima dell’ora di pranzo Saphir lasciò la Valle, accompagnato dai quattro energumeni e tutti trassero un sospiro di sollievo. Nonostante non ci fosse nulla da nascondere, almeno fino a quel momento, la sua presenza, di per sé, incuteva paura. Bastava un gesto inconsulto oppure un litigio fa scavatori che immediatamente sarebbero stati assunti provvedimenti senza indulgenza.

    Allo scoccare del mezzodì il cuoco del campo chiamò a raccolta gli operai i quali interruppero immediatamente il lavoro per raggiungere il luogo designato ai pasti, allestito poco distante dall’area di scavo. A confezionarli c’era Ahjid Abdellah – gli avi erano originari della Nubia – reclutato da Mary a Washington. Per lei Ahjid aveva rinunciato a una fulgida carriera come cameriere in un ristorante di terz’ordine frequentato da gente comune senza pretese.

    Era stato Richard a presentare Ahjid a Mary un giorno in cui era capitato a Washington per un convegno sull’archeologia il cui relatore era uno studioso dell’antico Egitto capace tuttavia di annoiare i presenti con inutili riferimenti storici. Al termine del suo intervento, durato oltre mezz’ora, l’applauso era stato una liberazione per tutti i presenti. Il relatore aveva lasciato poi la parola a Ethan Wayne – laureato in scienze dell’antichità e in medicina – un esperto di egittologia che aveva attirato su di sé l’attenzione del pubblico raccontando aneddoti che lo vedevano protagonista, per quanto da egli asserito, in alcuni viaggi nella terra dei faraoni. Aveva affermato, ad esempio, che durante una visita all’interno della piramide di Cheope era stato testimone di qualcosa di sovrannaturale: davanti a lui si era propagata dal nulla una fitta nebbia che lo aveva indotto a uscire dal sepolcro. Dopo alcuni minuti la nebbia si era dissolta e lui non era riuscito a posteriori a spiegarsi l’evento. Pensare a un’obnubilazione all’interno di una piramide era già di per sé qualcosa d’inspiegabile ma Wayne, grazie a un eloquio avvolgente, aveva saputo rendere l’episodio veritiero.

    Aveva poi sostenuto di essere stato vittima, in un’altra occasione, della rappresaglia di alcuni predoni che si professavano seguaci di Ramses il Grande. Wayne e altri otto turisti, dopo essere stati legati e imbavagliati, erano stati portati in mezzo al deserto e lasciati sotto il sole cocente per oltre un’ora. Un elicottero di ricognizione li aveva individuati e tratti in salvo. Non si era saputo più nulla né degli aggressori e nemmeno dei motivi che li avevano spinti a commettere quel gesto. Certo, episodi che avevano il sapore di un romanzo d’avventura, ma lui giurava che era tutto vero e molti ne erano stati persuasi.

    Aveva parlato anche dell’attentato del 17 novembre 1997 a Luxor nei pressi del tempio eretto in onore della regina Mattkara Hatshepsut – quinta sovrana della XVIII dinastia egizia – nel quale avevano perso la vita cinquantotto turisti, quattro guardie indigene e sei tra i fautori del macabro gesto. Altri ventiquattro erano stati feriti. Quel giorno Ethan Wayne faceva visita al tempio e solo per un caso fortuito non era stato coinvolto nella carneficina: al momento dell’eccidio si trovava all’interno del monumento e all’udire degli spari e di urla concitate aveva pensato bene di acquattarsi dietro una colonna per uscirne dopo che il silenzio era nuovamente sceso sul sacro tempio. Aveva prestato soccorso ai sopravvissuti e la sua opera, come del resto quella di altri volontari, era stata apprezzata dalle autorità governative egiziane che lo avevano insignito di un’onorificenza.

    In quella circostanza Ethan aveva conosciuto Karim, un ragazzino che, nonostante avesse soltanto nove anni, si era speso molto per aiutare i sopravvissuti, suscitando l’ammirazione degli altri soccorritori.

    Wayne, nel raccontare i particolari di quel triste episodio, aveva usato parole toccanti tanto da ammaliare i presenti in platea che, visibilmente commossi, gli avevano tributato un applauso soprattutto alla memoria di quegli sventurati. Lui sapeva come stregare il pubblico. Secondo alcuni avrebbe potuto fare un’ottima carriera come politico.

    Al termine del suo intervento c’era stato un rinfresco, particolarmente gradito agli ospiti, tutti rigorosamente invitati dalla dirigenza di una banca londinese che aveva promosso l’evento, cui partecipavano oltre quattrocento persone provenienti da tutto il mondo; fra esse luminari ma anche profani della materia, smaniosi comunque di apprendere i segreti dell’archeologia come una nobile arte. Per l’occasione era stato allestito un imponente servizio d’ordine che aveva tenuto lontano i soliti e sgraditi curiosi che comunque avevano occupato l’ingresso dell’albergo dove si stava svolgendo il convegno, certi che fra i partecipanti vi fossero celebrità.

    Richard e Ahjid si erano conosciuti ad Harvard frequentando entrambi la facoltà di Giurisprudenza. Nonostante ciò Richard, nella vita, aveva avuto più fortuna del suo compagno di studi. Mary non conosceva la vera storia dell’università riconosciuta fra le più importanti del mondo, così Ahjid gliela aveva raccontata: John Harvard era arrivato negli Stati Uniti nel 1637 con la moglie. Si era iscritto all’Emmanuel College ma era morto di tubercolosi il 14 settembre del 1638 all’età di trentuno anni. La sua era una famiglia facoltosa e gran parte della sua fortuna l’aveva lasciata in eredità allo stesso ateneo i cui rappresentanti dell’epoca, per gratificarlo degnamente, avevano deciso di intitolarglielo. In sua memoria, nel parco dell’università era stata eretta una statua che col tempo fu denominata delle tre bugie. Infatti, contrariamente a ciò che si possa pensare: la persona raffigurata non è John Harvard ma un anonimo studente scelto dallo scultore nel 1882; non era stato lui l’iniziatore e la stessa fondazione dell’ateneo era stata decisa nel 1638 e non nel 1636 come riportano gli annali.

    La passione per l’Egitto e per la Nubia era stata per Richard e Ahjid motivo di amabile conversazione e scambio di opinioni.

    Quando Mary dovette partire per la Valle dei Re, convinse Ahjid ad aggregarsi alla truppa, con la garanzia di un soddisfacente compenso. Rinunciare al ristorante non gli avrebbe di certo arrecato nocumento; d’altronde era già nelle sue mire trovare una sistemazione lavorativa più decorosa e remunerativa e qualche mese sul suolo natio avrebbe di certo giovato sia al portafogli sia al morale. La moglie, anche se con qualche patimento, lo avrebbe aspettato. Non aveva figli, anche se desiderava tanto averne.

    Alla ciurma, intorno al desco, si unirono Richard e Mary.

    Lei si era ormai ripresa e la voglia di lavorare la rinvigorì.

    Tuttavia Richard, in via precauzionale, invitò Ahmed ad assisterla ininterrottamente, visto che lui sarebbe dovuto tornare al Cairo per curare i rapporti burocratici con le varie autorità. Mantenere buoni contatti, senza esagerare con le lusinghe, era basilare per una convivenza serena e Richard in questo era un maestro e la favella non gli mancava, ma era costretto a restare spesso lontano dalla sua amata.

    Ahmed assentì senza indugi. Sarebbe rimasto accanto a Mary anche la notte, allestendo una tenda a fianco della sua, rinunciando così a

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