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Canne Nere
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E-book583 pagine7 ore

Canne Nere

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Info su questo ebook

Giovanni Boldrini, il Simbionte del primo libro di Massimo Ruber (vincitore concorso Avvocati&Autori 2017 ANANKE.lab), doveva scontare l'ergastolo per gli omicidi commessi negli anni 70, prima del padre adottivo e poi di due amici, nell'intento di carpirne i patrimoni. Col primo dei patrimoni gli era andata male ma sogna di rifarsi il giorno che uscisse di galera vendicandosi del fratello traditore. Per il secondo, custodito in poco sicuri forzieri esteri, ci sono pretendenti ingannati e traditi che l'aspettano al varco per rifarsi.

Per ragioni incomprensibili alla gente comune, nonostante i tre cadaveri lasciati a sperare almeno nella giustizia divina, esce dopo 26 anni e 7 mesi per buona condotta. In questo contesto appare sulla scena il figlio di cui ignora l'esistenza, avuto da una ragazza sedotta e abbandonata in Honduras nei primi anni 70: si trova ora in Svizzera per portare a termine una delicata operazione nell'interesse nazionale e cerca il padre (per odio o per amore?) nella vicina Milano. Deve trovarlo prima di completare l'operazione affidatagli.

L'autore riprende il filo del terrore interrotto con la scoperta del segreto che avvolgeva la prima storia.
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2019
ISBN9788831633109
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    Anteprima del libro

    Canne Nere - Massimo Ruber

    Simbionte

    Premessa

    Molti scrittori, ed io ho l’illusione di essere uno di loro, sentono il bisogno di dialogare con i lettori durante il percorso di un romanzo. Serve a tranquillizzarli, come avessero qualcuno vicino, pronto a confortarli.

    Senza voler intaccare la sua gloria immensa con il paragone, persino il sommo Alighieri sentì il bisogno di avere qualcuno con cui condividere i gironi della Comedìa, scegliendosi nientepopodimeno che Virgilio d’alloro coronato.

    Non ho alcuna guida se non la mia fantasia, però mi farebbe piacere avere compagnia in questo percorso. E ho pensato a te che mi stai leggendo, chiunque tu sia.

    Un piccolo suggerimento: tieni d’occhio le date dei capitoli.

    PROLOGO

    ovvero gli avvenimenti che preannunciano il racconto.

    Il tesoro dei Maya

    Copán 1908 – 1910

    All’inizio del secolo scorso un gruppo di archeologi era penetrato in fondo ad una miniera dislocata nella zona di Copán, nota località archeologica a nord-ovest dell’Honduras.

    Era giunta ad essi notizia riservata, da fonte governativa, che un minatore di quella zona aveva trovato durante il lavoro di scavo una placca d’oro grande come il palmo della mano e molto sottile, lavorata a martello e scalpellino.

    Con un disegno antico, aveva detto al banco dei pegni dove si era rivolto per vendere quella placca in cambio di duecento pesos dell’epoca, circa dieci ‘miserabili’ dollari americani.

    Così l’archeologo Ricardo Montoyo definì il prezzo pagato da Miguel Salasco, proprietario del piccolo banco di Copán, che aveva intuito il valore reale di quel monile, di gran lunga superiore al prezzo pagato al ladro.

    L’archeologo volle sapere esattamente dove fosse stato trovato, promettendo in cambio l’impunità per il delatore e per il povero minatore che di certo, con quei duecento pesos, pensava di aver fatto un ottimo affare visto che ne guadagnava due al giorno, pari a un dollaro. E, oltretutto, in quel Paese e in quella Provincia, la media giornaliera dei malati o morti per tumore da polveri minerarie (per lo più cianuro) era pressoché pari a quell’unico dollaro.

    Andarono a cercarlo a casa, una povera capanna a pochi chilometri dalla miniera, dove si recava ogni mattina partendo all’alba per tornare sfinito al tramonto.

    Gli promisero altri duecento pesos se avesse indicato il punto esatto del ritrovamento. Con una scusa avrebbero detto al capo cantiere che erano inviati dal Ministero dei beni culturali a investigare all’interno della miniera per controllarne lo stato, la sicurezza e la profondità.

    La miniera, come quasi tutte, già allora era in concessione esclusiva ad una società canadese e tutto ciò che veniva estratto andava ad essa, in cambio di una imposta del dieci per cento da pagare allo Stato. In caso di reperti archeologici, la proprietà sarebbe stata del Governo.

    Gli archeologi volevano verificare se vi fossero altri reperti analoghi a quello, che era sicuramente dell’epoca post-classica dei Maya.

    Si recarono, perciò, nella miniera da dove era sbucato quel monile che era stato nascosto dal minatore sotto la suola dello scarpone: all’uscita venivano controllate tasche, gavette, casco, e un’occhiata veniva data anche sotto alle scarpe, sia pure senza approfondimenti, considerato lo stato dei piedi e delle suole, di sicuro maleodoranti e repellenti anche per i controllori.

    Scavando con i loro scalpelli per verificare la consistenza della parete ai fini dei propri studi, avevano praticato un foro sufficiente per controllare l’interno di quel che appariva, alla luce delle lampade, una grotta parallela. Colsero l’occasione per estrarre da una tasca il monile, ufficialmente trovato in quel buco che richiusero accuratamente.

    Fecero una mappa del punto in cui si trovavano ripromettendosi di ottenere l’autorizzazione dal Ministero, ed i mezzi necessari ad effettuare uno scavo parallelo alla miniera partendo dall’interno.

    Venne raggiunto in tal senso un accordo con la società mineraria che non avrebbe interferito se fossero stati trovati altri reperti archeologici.

    Te la faccio breve. Quegli archeologi, grazie al furto di un monile da parte del povero Ricardo Montoyo, stabilirono nel 1910 che si trattava proprio del tesoro dei Maya rimasto nascosto lì sotto per quattro secoli. E lo fecero requisire, in gran segreto, dal governo in carica.

    La grotta costituiva all’evidenza il caveau dei nobili Maya, dove essi poterono nascondere e salvare almeno una parte dei propri tesori dalla rapina dei conquistadores spagnoli.

    Ci misero troppo tempo per capire le reali intenzioni degli stranieri venuti da chissà dove (tra il 1517 e il 1527) con le loro case galleggianti. Avevano la pelle bianca e lunghe barbe, corpi rivestiti di metallo e cavalcavano enormi animali con le chiome. Usavano bastoni da cui uscivano fuoco e tuoni. Poche centinaia, che però avanzarono indisturbati e razziavano quel che trovavano, in particolare oro.

    Alle prime avvisaglie delle reali intenzioni di quegli stranieri, il re Maya in carica e gli aristocratici delegati al potere nelle varie provincie, intenti a farsi guerre tra loro, pensarono bene di salvare per tempo i beni di famiglia, tramandati da generazioni e per lo più destinati all’abbigliamento esotico dei nobili, oppure all’arredo stravagante delle proprie case, o a far loro compagnia nelle future tombe: statuette, vasi, collari, corone, maschere e quant’altro. Non l’usavano come moneta, perciò l’oro era qualcosa di esotico da lavorare per il lustro dei nobili con la fantasia degli artigiani, e come simboli del potere.

    Così carovane di portatori e di guerrieri arrivarono a Copán (centro del potere Maya in Honduras e dintorni, l’altro era Chichen Itza in Messico), recando quei tanti tesori che, messi insieme, costituivano già allora un bel patrimonio.

    Debellati gli stranieri, i Maya avrebbero recuperato il tesoro e, con esso, il potere.

    Non andò così, come è risaputo.

    Almeno i Maya erano stati più furbi dei cugini sudamericani, gli Incas di Atahualpa.

    La storia sarebbe troppo lunga da raccontare e ti consiglio il bellissimo libro di John Hemming, La fine degli Incas¹, che spiega come sia possibile che un popolo millenario come quello (e a nord i Maya e gli Aztechi) sia sparito dalla faccia della terra in appena cinquant’anni di dominio spagnolo.

    Eserciti di migliaia e migliaia di soldati sconfitti da qualche centinaio di cavalieri, che approfittarono delle guerre fratricide per conquistare immensi territori, e tanto oro.

    Se non lo sai ti racconto in breve quel che capitò all’imperatore Atahualpa.

    Si fece gabbare come un allocco dal furbo Hernando Pizarro: arrivato in quello stesso periodo, avanzò indisturbato fino a Cajamarca con centosessanta cavalieri, mandò a chiamare Atahualpa che aveva appena finito una logorante guerra fratricida, rimanendo da solo ad imperare da Quito a Cuzco (Ecuador e Perù).

    Mentre si godeva il trionfo venne a sapere di questo capo degli stranieri che avrebbe voluto tributargli, in privato, onori e offrire la propria amicizia, invitandolo in quel nido di aquile dove aveva insediato la propria guarnigione di cavalieri. Ritenendo di essere intoccabile, perché così lo voleva il popolo e così voleva lui per sentirsi Dio, accettò l’invito.

    Era una trappola: ci si avviò con tutto l’esercito di ottantamila guerrieri che lasciò schierato a valle, senza contare i milioni di sudditi sparsi nell’immenso territorio dalle Ande agli oceani. Tutti pronti a morire per il loro Dio.

    Pizarro gli fece sapere di essere allarmato da tanto schieramento a fronte dei pochi cavalieri propri, e che avrebbe gradito una visita amichevole: nessuno avrebbe mai osato toccare l’imperatore in persona, ovviamente.

    Lusingato da tanta fiducia e considerazione, Atahualpa entrò nella città assiso su una lettiga riccamente ornata e trasportata a spalla da ottanta elegantissimi dignitari ("molto fastosamente abbigliato, con la corona in capo e un serto di grandi smeraldi al collo"²).

    Seguivano altre lettighe cariche di dignitari, sempre a spalla di altri di minor rango. Erano tutti, proprio tutti, armati di sola presunzione imperiale e di grande fiducia in quella divinità contornata dallo sparuto drappello di uomini.

    Quando il corteo imperiale arrivò al centro della piazza non trovò spagnoli né il loro governatore Pizarro: c’era solo uno strano tipo con una croce in mano, il domenicano Vicente de Valverde. Gli stava facendo cenno di scendere ed andare da lui.

    L’imperatore, già sdegnoso di suo, si arrabbiò di brutto e mormorii di consenso si levarono dagli affaticati portantini: offeso nella propria dignità divina, reclamò che gli spagnoli si arrendessero all’istante e restituissero tutti i beni razziati. Il frate gli allungò un libro (la Bibbia), ma lui lo gettò per terra con disprezzo.

    Insomma ci fu un battibecco. Per la verità era solo l’imperatore a strillare, Fra Valverde, da buon cristiano, porgeva l’altro orecchio e da buon domenicano cercava di convertirlo a chiacchiere.

    Alla fine il frate ordinò a Pizarro, che se ne era rimasto prudentemente nascosto, di attaccare. Quello sventolò il panno, e partirono le cannonate dagli spalti, verso la piazza. La porta della città si chiuse e arrivò (sorpresa!) lo sparuto drappello di centosessanta feroci cavalieri spagnoli:

    con armatura e cotta di maglia, che caricarono dritti nella massa degli indigeni disarmati che affollavano la piazza³.

    I cavalli avevano pure rumorosi sonagli che terrorizzavano ancor più i portantini, preoccupati di sostituire immediatamente quelli massacrati per impedire che il Sommo cadesse a terra: sarebbe stata un’umiliazione per lui e per l’intero popolo Inca.

    La faccio breve: lo imprigionarono dopo aver massacrato quasi tutti gli uomini del corteo, lasciando vivi solo quelli che avrebbero dovuto uscire per chiedere il riscatto.

    Già, perché dopo aver cercato di convertirlo alla fede cristiana e quello, testardo, a ribattere che era lui il Dio e che non poteva essercene un altro, minacciarono di ucciderlo se non avessero, i suoi sudditi, riempito d’oro un’enorme stanza del palazzo del governatore Pizarro.

    La notizia della trappola si sparse come il vento sopra l’esercito e poi verso tutti i territori intorno, gettando – come si suol dire – grande scompiglio fra la gente.

    L’esercito era indeciso: se avesse attaccato e distrutto in men che dicasi la città, l’imperatore sarebbe stato ucciso pure lui.

    Intanto, mentre i comandanti discutevano sul da farsi, cominciò ad arrivare l’oro, tanto da riempire quello stanzone. Tra una chiacchiera e l’altra delle migliaia di comandanti e sottocomandanti, passarono ben otto mesi.

    Alla fine non bastò neppure quella montagna d’oro a salvarlo, volevano pure che si convertisse . Il frate era irremovibile sul punto, non gliene fregava nulla dell’oro, doveva portare a casa la conversione di quel capo, così tutti gli altri l’avrebbero seguito.

    Athaualpa invece continuò a rifiutare la conversione al suo collega divino, ed una bella mattina del ventisei luglio millecinquecentotrentatrè, benché – dicono gli storici – avesse infine accettato di farsi il segno della croce, lo garrotarono lo stesso direttamente al palo dov’era legato.

    Si favoleggia che esista da qualche parte il residuo tesoro degli Incas, e centinaia di esploratori lo cercano da secoli. Per quel che ho letto e cercato pare sia solo una leggenda, e che i conquistadores avessero saccheggiato tutto l’oro di quel nuovo continente per riempire le successive chiese barocche di Quito e dintorni. E pure quelle di Madrid e di tante altre sparse in Europa, mettendone ancora un bel po’ nelle tasche reali e nobiliari.

    Per non parlare di quello che i capitani di ventura della conquista tennero per sé e per i propri discendenti.

    Quello dei Maya, invece esisteva. E dall’epoca del ritrovamento simboleggia la forza del potere in Honduras: chi ce l’ha lo protegge e lo esibisce per legittimare il potere come diritto sacro riconosciuto dal popolo.

    Dopo anni di dittatura militare, nel 1983, su insistenza degli Stati Uniti venne trasferito dal neoeletto presidente del Partito Liberale (in realtà se ne occupò la CIA con un proprio servizio di sicurezza) nei forzieri della LGT Bank di Vaduz, di proprietà del principe regnante del Liechtenstein.

    E’ lì che, da allora, c’è anche la riserva di settecento quintali di lingotti d’oro, oltre alle gestioni finanziarie alimentate dai proventi delle miniere e relative rendite garantite da compagnie estere, per l’appunto, soprattutto canadesi e svizzere, per un valore complessivo stimato in due miliardi di dollari.

    Quella riserva ed il connesso patrimonio attendono ogni anno la visita del ministro dell’economia o di un diplomatico munito di specifica procura rilasciata dal Presidente in carica, per la verifica dello stato di conservazione del tesoro e della situazione del patrimonio da riportare nel bilancio statale.

    Gli americani, perdurando le crisi economiche del Paese, vogliono ormai a portata di mano questa riserva facendosi essi stessi custodi anche del tesoro dei Maya a garanzia della stabilità dei futuri governi e delle proprie influenze.

    E la vuole a Fort Knox dove ci sono le riserve auree di gran parte dei Paesi che hanno rapporti con gli USA (compresa l’Italia, che è al quarto posto con oltre duemila e quattrocento quintali d’oro, gestiti dalla nostra Banca centrale).

    L’accordo tra i due Stati consentirà una sempre più forte presenza americana non solo per controllare il Paese, collocato in posizione strategica per gli equilibri della zona, ma anche per lo sfruttamento delle risorse naturali (fra cui l’oro), da sempre in mano a grandi gruppi societari canadesi e svizzeri.

    Con la Svizzera, in particolare, vige un rapporto di fratellanza in virtù dell’accordo bilaterale in vigore dal 1998, con eccellenti rapporti diplomatici e scambi commerciali privilegiati. Per di più la confederazione elvetica garantisce accoglienza e sicurezza ai giovani rampolli della buona società per la loro formazione in collegi esclusivi.

    Il Liechtenstein, dal canto suo, offre una notevole protezione bancaria alle famiglie ed ai gruppi di potere reale honduregni, al riparo della sempre più aggressiva svalutazione della lempira⁴ e dalle turbolenze politiche nazionali che ne sono la causa maggiore.

    Rapporti di cooperazione e protezione che saranno ora molto utili per realizzare la svolta democratica ed economica proclamata dal neopresidente del Partito Nazionale, eletto per un quinquennio nel 2001. Progetti che non possono prescindere dagli ulteriori investimenti del Fondo Monetario e dall’osservanza delle garanzie da esso richieste.

    L’operazione Mangusta, favorita dal governo elvetico e voluta dall’amministrazione americana, mira al recupero, in gran segreto, dell’intera riserva di cinquemila e seicento lingotti d’oro, da dodici chili e mezzo ciascuno, e del tesoro dei Maya, per farli trasferire a Fort Knox.

    E l’incarico è stato affidato dal Presidente al fratello, Don Josè Felipe Maduri, uomo di grande potere e ricchezza, e da questi al fidato Romeo Gonzalo per l’organizzazione: dovrà avvalersi di uomini addestrati e pronti a rischiare la vita per difendere soprattutto il tesoro da possibili attacchi di cospiratori sempre in agguato in quel Paese.

    Perché ti racconto tutto questo? Perché gli sviluppi di quell’operazione si incroceranno con il destino di Giovanni Boldrini, finito in galera per scontare l’ergastolo dopo aver ucciso prima il padre, nel 1974, e poi due "cari amici" un paio d’anni dopo.

    Sta per uscirne, dopo ventisei anni, per liberazione condizionale: non sa che di lì a poco entrerà in un altro incubo. Quello che sto per raccontarti.

    Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra

    I

    1

    La notizia

    sabato 21 agosto 2004

    Dario Boldrini non sapeva che quella mattina, calda come sa esserlo Milano di Ferragosto, il fantasma del fratello, che credeva sepolto in galera per sempre, avrebbe ricominciato a vagare libero, in carne ed ossa, per la città alla sua ricerca.

    Sono da poco passate le otto. In giro poche macchine e qualche mattiniero diretto al Taveggia, l’unico bar riaperto in zona.

    Lui e Laura erano tornati il giorno prima dalla Sardegna dove avevano passato le vacanze nella villa avuta in eredità; sempre la stessa meta estiva da quando era nato. E sempre la stessa anche dopo il matrimonio: quarantacinque giorni uguali nel tempo, ogni volta più noiosi di prima.

    Le figlie, Sara e Daniela, sono ancora a Santa Margherita a divertirsi con i propri amici: giovani, non propriamente belle, almeno si danno da fare, pensava il padre.

    Hanno di sicuro preso dalla nonna materna perché sua madre, Lara Giupponi, era un tempo bellissima e furono le due tragedie capitatele nel tempo, quella dell’altro figlio divenuto assassino del padre e, prima ancora, quella del suicidio di Giacomo Turrani, il primo marito, a farla invecchiare anzitempo ed infine morire di dolore.

    Pur non essendosi ancora sposate (e, a dir la verità, neppure fidanzate) hanno scelto di andare a vivere per conto proprio in un appartamento di cento metri quadrati comprato per loro dal padre al ventesimo piano di Torre Velasca, un palazzone degli anni Cinquanta vicino al Duomo che i milanesi avevano battezzato come el grattacièl cont i bretèll, per la sua forma bizzarra di fungo con sostegni alla cima.

    Gliel’avevano chiesto insistentemente appena ventenni, stufe di vivere in quella strada ed in quella casa, teatro dell’omicidio del nonno avvocato e di quello di altre due persone, attribuiti definitivamente allo zio Giovanni.

    Almeno lì non avrebbero avvertito le occhiate ed i pesanti silenzi al loro passaggio, di chi ci abitava e dei portinai che sapevano tutto di quelle storie, più dei giudici che non ci avevano capito molto su come fossero andate le cose: nessuna prova, solo tanti indizi ed alla fine, a furor di popolo come nel medioevo, lo avevano condannato a marcire in galera come meritava.

    Questo era stato il commento unanime di via Britta nel definitivo dopoprocesso. Un verdetto che le ragazze, da allora, trascinavano con sé tutte le volte che uscivano di casa passando tra le forche caudine della permanente giuria popolare.

    Dario aveva volentieri accettato che andassero a vivere lì perché, tutto sommato, era abbastanza vicino e sufficientemente lontano. Anche lui era stufo di quella storia che pure sentiva addosso ("l’è el fradèll… dicevano gli occhi che incrociava), e stufo della propria vita noiosa nella casa e nel palazzo paterno, ma non aveva le palle per andarsene" commentavano alle sue confidenze i pochi amici rimasti.

    E altrettanto Laura, pure lei stanca di dover continuare ad occuparsi delle ragazze da quando erano nate: dopo il liceo sperava che facessero l’università vivendo altrove. Invece non se la passavano bene in nessuna materia e fecero qualche tentativo in Architettura per far contento il padre, finendo presto a disilluderlo andando fuori corso dal primo anno e poi più nulla.

    Preferivano organizzare feste con i compagni in via Britta (e doveva occuparsene la madre con Cora, la donna di servizio sempre a disposizione), oppure andavano in vacanza, per lo più a Santa Margherita, in un appartamento in pieno centro, pure quello ereditato dal padre.

    Per lei era ora che si arrangiassero finalmente a vivere da sole e che cercassero, più libere, un marito che se le portasse via.

    In casa a malapena sopportava il proprio, da cui era ricambiato con pari insofferenza: le aveva posto persino il veto, inappellabile, a tenere un piccolo cane da compagnia, un volpino, con il quale avrebbe potuto uscire più spesso da sola con la scusa di portarlo ai giardini di Porta Venezia.

    All’epoca del processo e dei vari gradi di giudizio loro due ne avevano vissuto con ansia lo sviluppo fino alla Cassazione, e la paura che Giovanni venisse assolto e tornasse in quella casa li aveva uniti ancora di più, favorendo prolifici accoppiamenti che, a processo finito e paura svanita, si sarebbero poi diradati sempre di più, infine cancellati dalla noia. Sempre e solo loro due, a sopportarsi mattina, sera e notte, come reclusi.

    Come Giovanni, pensava Dario.

    Mauro, il giornalaio all’angolo, lo vede arrivare come sempre puntuale alle otto, per comprare il Corriere che quello va poi a leggersi al Taveggia mentre beve il caffè. Comincia come sempre dai necrologi che poi, almeno quelli, saranno oggetto di conversazione con Laura:

    È morto Baldecchi.

    Chi?.

    Ma sì, il proprietario della gioielleria di Porta Nuova.

    Ah, sì! me lo ricordo.

    Mi stava proprio antipatico quando lo incontravo al Rotary con la sua aria di arricchito.

    Erano per lo più commenti velenosi ogni volta che moriva qualcuno di sua conoscenza, tanto quello era morto. Ed il suo epitaffio era sempre l’opposto delle sviolinate post mortem di parenti, soprattutto di quelli lontani che con la scusa si sarebbero risparmiati il funerale, tutti affranti ma che, prima, non vedevano l’ora che lo zio o il nonno o chi altro se ne andasse: serenamente s’intende, come sembra accadere solo per i morti dei salotti buoni o della media borghesia.

    Necrologi così, e con quel serenamente – rifletteva in quei casi Dario intento nella loro lettura, con il gomito appoggiato al bancone – non ne fanno per quelli in giù nella scala sociale e neppure per chi muore fra stenti e dolori (e sono tanti), di certo non serenamente come i ricchi.

    E se capita che uno di quest’ultimi muoia dopo lunga malattia, i parenti ringraziano pure il professore che, per quanto ben pagato, alla fine non l’ha salvato. A volte, forse proprio per questo.

    Durante la settimana fa colazione a casa ed il giornale glielo porta il nuovo custode, Raimondo. Poi scende al primo piano e si rinchiude nel proprio studio per lavorare a qualche progetto dei residui clienti, leggere un po’ in santa pace, vedersi telegiornali e quant’altro. Quindi risale al piano di sopra per la solita routine casalinga: pranzo, pennichella, caffè, ritorno in ufficio, cena, televisione e letto, separato perché ormai Laura dorme in quello delle ragazze andate a vivere per conto proprio.

    La separazione di fatto in definitiva sta benissimo a tutti e due.

    Al sabato e alla domenica, così come nei giorni festivi, il rituale cambia perché Raimondo non lavora, perciò Dario esce alle otto per comprare il giornale con successiva capatina al bar per una prima lettura.

    Alle otto e mezza, dopo il caffè, rientra a casa continuando a leggere il Corriere percorrendo, passo passo e lentamente, i duecento metri fino al portoncino, da cui rientra inghiottito dal palazzo e dalla routine casalinga, che prevede nell’ordine: cesso con parole crociate che rilassano per la bisogna, doccia in abbondanza per passare il tempo, colazione con Laura per lo scambio dei previsti commenti di routine sui defunti, o delle opinioni sul tempo.

    Poi passeggiata di rito in piazza San Babila, con allungamento di cento metri in corso Venezia fino alla famosa rosticceria dove alla domenica ci si incontra tutti, per comprare crocchette e pollo per il pranzo (al fine settimana anche Cora non viene e Laura non ci pensa proprio a cucinare), a volte variando il menù con lasagne o fritture varie. Quindi ritorno a casa in tempo per il telegiornale, mangiando in cucina per non sporcare, previo svestimento dagli abiti con ripescaggio di pigiama, vestaglia e rispettive pantofole.

    Laura a quel punto lascia al marito togliere le tracce dell’indecoroso pranzo in cucina, mettere i pochi piatti nel lavello e preparare il caffè, mentre prende possesso del Corriere in salotto prima che ci torni lui.

    Con il giornalaio di solito si parte col suo "buongiorno architetto" che, di rimando, ottiene un "buongiorno Mauro", il massimo della loro conversazione. Raramente ed a seconda dell’umore del cliente rilevabile dalla sua faccia (li conosce tutti da anni, uno per uno) Mauro aggiunge un "fa caldo oggi, eh?", con risposta limitata al "eh, sì" ed eventuale variabile con freddo, pioggia o nebbia in base alla stagione.

    Poi, sporgendosi dalla finestrella dell’edicola, gli offre già pronto e piegato il Corriere ancora fresco di stampa, ritirando le monete lasciate sul plico delle altre copie.

    Stavolta invece, senza neanche salutarlo, lo guarda con occhi sgranati come se prevedesse l’effetto di quel che sta per dirgli, la notizia che l’altro non avrebbe mai voluto sentire:

    Architetto, ma non ha saputo?.

    Cosa Mauro?.

    Dario è sorpreso non solo dalla mancanza di un preventivo saluto ben tornato architetto che ci sarebbe stato dopo quarantacinque giorni di assenza ("non si è manco accorto che non c’ero in tutto questo tempo?"), ma anche dalla novità del tono, oltre che dalla domanda di genere e non di specie ("forse è morto qualcuno di mia conoscenza? eh no!", ha il tempo di pensare, come si permette, vuol togliermi la sorpresa dei necrologi al sapor di caffè?).

    Non lo dice, ma la reazione è da indispettito:

    Cosa?! cosa?! gli spara in faccia approfittando degli occhi ancora sgranati di quello

    È uscito!.

    Non ha ancora bevuto il caffè, perciò si concede una pausa di malcelata pazienza, allungando appena le mani che si protendono verso il Corriere lasciato in sospeso fra la bocca dell’edicola e le monete già posate.

    Chi? cosa? gli risponde scocciato ("forse un libro? Non gliel’ho chiesto, forse un nuovo film? Vado di rado al cinema").

    Suo fratello, architetto! spara quello.

    E l’uppercut parte direttamente da dentro l’edicola, da quella bocca senza denti formata dall’ammasso dei giornali, sopra, sotto e tutt’intorno. E arriva diretto al suo stomaco appena sotto lo sterno, di quelli che sul ring o in una zuffa bloccano il respiro di chi se lo becca, e gli sembra di morire all’istante.

    L’altro gli sta dicendo:

    È scritto nel giornale!.

    Le mani di Dario si poggiano sulla pila di Repubblica, in prima fila per le evidenti simpatie di sinistra dell’edicolante:

    Giovanni?, ripete più che altro a se stesso mentre fa per raddrizzarsi dal tappeto prima che suoni il gong.

    Dopo qualche secondo di smarrimento e approfittando della pausa di silenzio piombata sul ring, gli strappa di mano il Corriere. E comincia ad indietreggiare come se avesse visto proprio lì davanti il fantasma del fratello, materializzatosi in quell’edicola che già cominciava a cuocere di suo per la calura, diventata ora la bocca dell’inferno che sta per inghiottirlo. Si gira mettendosi la mano libera sulla bocca mentre continua a guardare il diavolo …Giovanni? Oddio!.

    Comincia a correre decidendosi finalmente a guardare dove mettere i piedi; arriva trafelato al portone di casa in meno di un minuto rispetto ai quindici abbondanti del lento avvicinamento, a pagine e gambe dispiegate, delle altre volte.

    Apre tremolante il portoncino, sale il pianerottolo e si infila nell’ascensore che aspetta aperto proprio lui (e chi altro, a quell’ora di un assolato sabato dopo Ferragosto nel vecchio centro di Milano pressoché deserto?). Ne esce con la gola che già brucia per il fuoco della botta allo stomaco, rimasta disseccata al momento dell’uppercut. Spalanca con una manata la porta della camera avvicinandosi minaccioso al letto. Laura fa appena in tempo a notare la sua faccia terrea:

    Che… che succede?, gli chiede balbettando mentre scende verso le pantofole.

    È uscito! cerca di gridarle Dario con il poco fiato che gli rimane dalla corsa appena finita.

    Ma chi? cosa?.

    Si ripete la scena di tre minuti prima all’edicola, fa in tempo a pensare Dario sedendosi sul letto, ma non ha voglia di riderci su.

    È uscito davvero!. Giovanni… Cristo santo!", sibila fra i denti la mezza bestemmia, la usa spesso nei momenti di panico, tanto non ci crede, da buon ebreo qual è, o dovrebbe essere.

    Sì, è uscito ieri, dicono che gli hanno condonato l’ergastolo. E gli hanno riconosciuto la buona condotta!.

    Non è possibile! Che razza di sistema è questo? Ne ha ammazzati tre ed è già fuori?.

    Laura afferra con rabbia il giornale dalle mani del marito e legge pure lei l’articolo, in silenzio, acquattata sul bordo del letto mentre anche il suo viso diventa cereo. Poi lo lascia cadere sul pavimento mentre Dario, dopo aver rimirato il vuoto avanti a sé, sta precipitandosi al telefono.

    Devo chiamare Guatteri… subito.

    "Ma che fai? È sabato!" lo blocca la moglie, ma lui non demorde, in preda al panico cerca il numero del cellulare di emergenza in dotazione alla segretaria. E quella è un’emergenza.

    Si porta con la cornetta verso la finestra sbirciando in strada, come se temesse l’arrivo di Giovanni da un momento all’altro.

    Sì pronto? L’avvocato Guatteri per favore… È ancora in ferie? Dove lo posso trovare? Per favore gli faccia sapere che ho urgenza di vederlo o parlargli.

    Ha saputo vero?.

    Sì, signorina, dal giornale…. ma come è possibile? Va bene, aspetto che mi richiami per un appuntamento. Grazie.

    Ha la fronte imperlata di sudore, guarda la moglie rimasta ammutolita e si risiede in silenzio.

    Sono passati ventisei anni e sette mesi da quando l’hanno rinchiuso, ma la paura in lui non si è mai addormentata da allora, dalla lettura della sentenza: aveva visto il fratello impallidire e guardarsi intorno incredulo nel trambusto generale (l’aula era gremita, mormorii e qualche applauso subito bloccato dal Presidente con una manata sul tavolo della Corte… silenzio!).

    In quel momento i loro sguardi si erano incrociati ed aveva letto l’odio nei suoi occhi, fissi come a dirgli un giorno ti rivedrò!.

    Aveva cercato di dimenticare con il lavoro e con la famiglia, crescendo le due figlie e rifugiandosi nella normalità della vita quotidiana. Non era andata bene perché, a parte i primi tempi con la nascita delle bambine, l’avanzare degli anni e la depressione di Laura, invecchiata ed imbruttita ancor più da un matrimonio nato stanco, lo avevano imprigionato. E l’idea che il fratello fosse rinchiuso in una cella, se almeno lo avesse messo al riparo dalla vendetta immediata, non sarebbe bastato a farlo sentire più libero rispetto a lui. La casa, piano piano, era diventata la sua prigione.

    2

    Studio Ruber

    Via Britta, 1992

    Una mattina, erano passati dieci anni dalla fine del processo e dalla conferma dell’ergastolo in Cassazione, Raimondo stava pulendo l’androne della casa di via Britta.

    Amelia, la mia segretaria, aveva bussato alla porta:

    Avvocato mi scusi, ha citofonato Raimondo, dice che se si affaccia alla finestra vedrà una persona che se ne sta lì impalata a guardare la casa. Gli sembra una faccia conosciuta ma non ricorda bene, e gli fa paura. Chiede se deve chiamare la polizia.

    Ero andato alla finestra e lo avevo subito riconosciuto:

    "Ma certo" avevo pensato allarmato è lui, Giovanni Boldrini! Ma che diavolo ci fa qui davanti? dovrebbe essere in carcere a Opera.

    Non volevo che creasse dei problemi:

    "Amelia avverta Raimondo che scendo io".

    Era ancora lì quando varcai il portone aperto, presieduto da Raimondo a braccia conserte e con la faccia corrucciata. Ora stava fissando con mezzo sorriso le targhe in ottone, quella del fratello e quella dello studio.

    Dopo gli eventi che si verificarono fra l’omicidio del padre ed il processo, ne avevo rilevato lo studio accordandomi con Dario, l’unico erede, che si era trasferito con moglie e figlie al piano di sopra dopo la morte della madre, Lara Giupponi, schiantata da un infarto e dal dolore di un passato atroce.

    Se ne stava immobile con le braccia incrociate dietro la schiena, la sua posizione di sempre, arrogante e strafottente. Mi ero avvicinato e, con aria interrogativa, lo avevo salutato cogliendolo di sorpresa:

    "Buongiorno!", nessun titolo per favore! mi imposi.

    Si era girato di tre quarti, mantenendo la stessa posizione di arroganza:

    "Oh, caro avvocato! Quanti anni sono passati… Come sta?".

    Bene, anche se era una parola di sole quattro lettere la balbettai vistosamente, ricordando i suoi tre ammazzati che non stavano bene da un pezzo.

    Immagino che sarà sorpreso nel vedermi in via Britta….

    Be’, effettivamente non mi aspettavo di vederla da queste parti, gli avevo risposto con un tono quasi normale.

    Le spiego, certo! Deve sapere che a Opera ho iniziato a studiare i codici ed ho voluto iscrivermi all’università alla facoltà di Giurisprudenza, pensi un po’!.

    Davvero? Complimenti vivissimi, gli dissi ancor più sorpreso.

    L’ho fatto perché volevo onorare la memoria del babbo e del bisnonno… mi piacerebbe fare l’avvocato ma non credo che mi iscriverebbero all’albo!, aveva aggiunto con un sorriso beffardo.

    Aveva ancora lo sguardo da volpino, sempre lo stesso; la galera non l’aveva cambiato molto, a parte la statura, più bassa, e l’incipiente calvizie incorniciata dai capelli quasi del tutto bianchi ed ancora tirati all’indietro. Il viso, segnato da rughe, aveva perso in lucentezza, ma i baffi lo rendevano ancora altero.

    Si era avvicinato a mezzo metro da me fissandomi negli occhi. La voce, sussurrata come se stesse confidando un segreto, aveva assunto un tono affabile e professionale:

    Come saprà di certo, in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, dopo dieci anni e buona condotta, il giudice ha potuto assegnarmi ad un lavoro esterno e concedermi permessi periodici per gli esami universitari. Studio in carcere dove, come può immaginare, ho molto tempo libero….

    Sfoderando il solito sorriso malizioso (lo stesso che, ricordai in quell’istante, mi aveva riservato dopo lo scherzo della cena da lui combinata in casa delle due belve assatanate, dalle quali ero scampato per miracolo), mi aveva guardato aspettandosi una mia risatina per la battuta. Invece ero rimasto freddo e lui, per cercare di riguadagnare terreno in confidenza, aveva aggiunto:

    "Sono già stato diverse volte all’Università Statale che dista da qui, l’ho calcolato contando i passi, circa cinquecento metri. Ci ho messo un po’ a decidermi, ma alla fine sono venuto per dirlo al babbo e per commemorarlo simbolicamente.

    Il mio giudice di sorveglianza, aveva aggiunto prima che io potessi fare domande inopportune, anche se mi guardavo bene dal fare commenti, "mi ha concesso di occuparmi dell’archivio della biblioteca universitaria; vado al mattino per tre ore due volte alla settimana dalle dieci alle tredici e devo essere di ritorno a Opera prima delle quattordici. Oggi ho detto al bibliotecario che dovevo venire alla Sormaniqui vicino, per fare una ricerca per il direttore del carcere. E così ho allungato un po’ ed ho fatto due passi in via Britta. È tutto cambiato vedo!".

    Riprendendo la posa altezzosa di un tempo si era ritratto per guardarsi un po’ intorno con gli occhi socchiusi, come per ritrovare quel che una volta era il suo regno.

    Poi s’era girato a guardarmi con la vecchia arroganza, quella che sfoderava dall’alto dei suoi titoli fasulli, come se il tempo si fosse fermato, come se non avesse subito un processo e la condanna all’ergastolo. E, con il consueto sorriso da furbetto, aveva rivelato il motivo di quei duecento metri in più dalla Sormani:

    Ho saputo dall’avvocato Moroni che lei ha rilevato da mio fratello lo studio del babbo. Mi fa molto piacere… Se avesse bisogno di un praticante, una volta laureato potrei chiedere al giudice di farmi fare qualche ora da lei….

    L’ultima frase la disse con occhio da angioletto, gli occhi che avevo sempre paragonato a quelli di Lucifero, che è pur sempre un angelo anche se sta dall’altra parte.

    Mi ero detto per tranquillizzarmi "sta scherzando e provocando, meglio non dargli corda e squagliarmela". Sfoderai il suo stesso sorriso da furbo che non si fa fregare: non sarò un angelo e neppure un diavolo, ma non sopportavo la sua ironia fuori luogo visto quel che aveva fatto proprio in quello studio. E men che meno la sottintesa minaccia. Così avevo tagliato corto:

    Chissà vedremo… Però ora devo tornare in studio: l’ho vista dalla finestra e sono sceso per salutarla. Ho un cliente che mi aspetta di sopra.

    Certo, anch’io devo andare, mi aspettano sempre con ansia a Opera…, e si era fatto una mezza risata.

    Mi aveva porto la mano, non potevo rifiutare, gliela strinsi avvertendo la pressione forte, e la solita sicurezza negli occhi. Se n’era andato senza girarsi, mantenendo le braccia dietro la schiena in posizione eretta e fronte alta.

    Era tornato, m’ero detto, è ancora Lui, sempre lo stesso.

    Anche Dario quella volta l’aveva saputo da Raimondo. Per fortuna non era in casa, di sicuro c’era Laura mentre le figlie erano a scuola. La notizia l’aveva allarmato, e non poco.

    Il suo avvocato gli aveva spiegato che sì, era possibile, la buona condotta in carcere consente al giudice di sorveglianza, dopo dieci anni di detenzione, di concedere permessi di lavoro esterno o per studi universitari. Ovviamente con le dovute cautele e per un periodo complessivo annuo di ore non superiore a quarantacinque giorni.

    E che buona condotta deve avere un assassino per uscire? È sufficiente non avere ammazzato qualcun altro in carcere?! aveva chiesto a Guatteri con piglio furibondo.

    Era uscito dallo studio dell’avvocato incredulo e impaurito. Avvertiva il pericolo mortale. Il giorno dopo assunse una guardia di sicurezza che gli avrebbe fatto da scorta e da autista, armato. Con quello nei paraggi poteva aspettarsi di tutto: per lui, uno più uno meno di morti ammazzati di sicuro non faceva differenza.

    Il perché del primo omicidio lo aveva capito da un pezzo, ancor prima della condanna: Giovanni aveva approfittato per anni del babbo, quando lo credeva ancora il padre adottivo di entrambi, facendogli fuori un sacco di soldi con la storia dell’Honduras, della finta laurea in Astrobiologia, con truffa a danno di chiunque gli capitasse a tiro, con costose conferenze e banchetti annessi.

    Il babbo aveva capito troppo tardi che era un impostore ed aveva deciso di non dargli più soldi: un giorno era andato con la mamma in Svizzera per bloccare il patrimonio permettendo solo dei prelievi per il mantenimento di lei e della famiglia.

    Quella era stata la sua inconsapevole condanna a morte.

    Quando l’avvocato Boldrini venne trovato morto nel bagno dello studio con un proiettile calibro 22 nella nuca, Dario aveva creduto per un po’ alle piste politiche e professionali che lui indicava agli inquirenti ed ai giornali. Poi il dubbio ed il sospetto prevalsero, perché il movente l’aveva: diventare subito erede con il fratello e prendersi i soldi della propria parte del patrimonio. Non c’era riuscito perché il vecchio li aveva vincolati.

    E così s’era trovato in grosse difficoltà per i debiti che aveva in giro, soprattutto per la storia che gli aveva raccontato della Milano Film e della produzione cinematografica con il socio Gianni Martellini: di sicuro ci aveva riprovato con i due ricchi amici dopo averli in qualche modo abbindolati. Quelli ci erano cascati, finendo nella fossa, e non di propria volontà.

    3

    Il finto sequestro

    novembre 1976

    Più di un anno prima Giovanni era sparito insieme ai suoi amici Dimartini, Piercarlo e Ester, per l’appunto. La polizia aveva ricevuto una chiamata trafelata da un radiotelefono:

    Aiuto polizia! Ci stanno sequestrando!.

    La polizia aveva impiegato quasi mezz’ora per capire da dove fosse partita quella strana chiamata, finché individuarono la zona e la setacciarono a tappeto. Così arrivarono all’imboccatura di via Speziale, un vicolo cieco parallelo a via Britta in fondo al quale c’era un cancello telecomandato per l’entrata e uscita di auto dal cortile del palazzo di famiglia.

    Da lì giungevano le luci abbaglianti di una macchina: così trovarono la sua Jaguar abbandonata con le portiere spalancate e le luci accese.

    Nessuno nei pressi. Dentro l’auto il radiotelefono portatile abbandonato sul tappetino lato passeggero, da cui era partito il grido di aiuto ed il segnale radio: era uno dei primi e costosi prototipi del cellulare.

    Per tre settimane non si seppe più nulla né di Giovanni né di chi fosse con lui. E non c’erano state rivendicazioni ufficiali né tantomeno richieste di riscatto.

    Nessuno nel palazzo aveva visto o saputo con chi avesse cenato Giovanni Boldrini quella sera: di sicuro era con altre due persone stando ai piatti. La portinaia e la cameriera Vincenzina, che erano entrambe via per la commemorazione dei morti, non avevano saputo indicare chi fossero i due ospiti presumibilmente sequestrati con lui.

    Fu Dario a fare il nome di Pierluigi e di Ester: sapeva essere amici del fratello, li aveva invano cercati per telefono a casa per sapere se avessero sentito Giovanni nei giorni precedenti. Andò a casa loro, ma il portinaio non li vedeva da diversi giorni e così aveva chiamato i genitori.

    Alla fine fu chiaro a tutti, polizia compresa, chi fossero quei due.

    Finché non riapparve lui, Giovanni, nel cuore di una notte di fine novembre, mezzo nudo e infreddolito:

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