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Entropia
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E-book392 pagine4 ore

Entropia

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Info su questo ebook

Virginia, di professione ostetrica, è sposata da oltre vent’anni con Ruggero, affascinante pilota di linea. La loro relazione si trascina da sempre in un placido limbo emotivo, costellato da sporadiche notti di passione.
Allo scoppio della pandemia, le abitudini di entrambi vengono sovvertite. Virginia si trova catapultata nel settore Covid delle gestanti, alle dipendenze del suo ex, Corrado Valli. Ruggero, al contrario, rimane a terra, a causa della riduzione nei voli della compagnia per cui lavora.
Con il mondo che va a fuoco, rendendo imperativo vivere un minuto alla volta, Virginia si troverà a combattere in prima linea, mentre nella vita privata sarà divisa tra il riaffiorare di un passato mai sopito e la novità inedita della costante e premurosa presenza del marito.
Il mondo muta in un baleno e, si sa, ogni trasformazione porta con sé rischi e anche un... aumento dell’entropia.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2021
ISBN9791220833363
Entropia

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    Anteprima del libro

    Entropia - Rebecca Quasi

    CAPITOLO 1

    Luglio 2017

    La donna al volante della Cinquecento turchese, Diomira Eller, parcheggiò al sole, nonostante fosse il sette di luglio, ci fossero quasi trentacinque gradi e lei avesse ottant'anni appena compiuti.

    «Diomira, è al sole» le fece notare Virginia, sua nuora.

    «Mi piace trovarla bella caldina» replicò l'altra.

    Con l'agilità di una sessantenne, Diomira scese dall'auto, sbatté la portiera, fece scattare la chiusura centralizzata, quindi puntò lo sguardo verso il centro commerciale.

    «Ci sarà dell'aria fredda là dentro?» domandò dubbiosa.

    «Speriamo di sì» rispose la nuora.

    «Mh. Meglio attrezzarsi.» Frugò nella borsetta ed estrasse un foulard di seta a grandi rose blu e se lo posò sulle spalle, pronta ad annodarlo intorno al collo in caso di spifferi. «Caffè?»

    Virginia, guardò l'orologio.

    «Se bevo un caffè a quest'ora non dormo per tre giorni.»

    «Io non dormo comunque.»

    Si fermarono nel bar all'ingresso del centro commerciale.

    Diomira ordinò un caffè e Virginia prese un cannellino alla crema e un bicchiere di tè freddo deteinato.

    «Poi ti lamenti che ingrassi» commentò Diomira.

    Virginia si limitò a sospirare.

    «Dov'è Ruggero in questi giorni?»

    «Canada.»

    «Va be', tanto sì e no esce dall'aeroporto, potrebbe essere anche alla stazione di Modena che per lui non cambierebbe nulla.»

    Virginia non analizzò il commento.

    Un buon modo per interagire con Diomira era evitare l'analisi, le piste che seguiva non sempre avevano la logica dalla loro.

    «Pensavo a qualcosa di blu, manica lunga.» A proposito di logica… «Pizzo?»

    Virginia alzò le sopracciglia.

    «Hai ragione, per un funerale è troppo. Anche se si tratterà del mio.»

    L'anziana signora sorseggiò il caffè. Delle due Diomira sembrava la più in forma, del resto Virginia, che aveva compiuto da poco quarantacinque anni, non era affatto sicura di arrivare agli ottanta guidando.

    Diomira, in effetti, era abbastanza sui generis come donna anziana, viveva da sola, guidava, usciva di sera tre volte alla settimana – cinema, teatro, tornei di pinnacolo – andava ancora in bicicletta e, se si escludeva la nuvoletta di capelli azzurrini che aveva in testa, risultava assai più giovanile della nuora.

    Non che Virginia fosse invecchiata male. Era solo un po' spenta. Vestiva con sobrietà, ma senza eleganza, si truccava pochissimo e tendeva a scomparire confondendo l'incarnato pallido con le tinte neutre che indossava.

    Sempre calma, pacata, silenziosa, viveva senza eccessi più o meno da quando era venuta al mondo.

    «È una seccatura non sapere il periodo in cui si terrà la funzione» proseguì Diomira raschiando bene il fondo della tazzina.

    «Io non la considererei una seccatura.»

    «In un certo senso hai ragione ma, volendo essere previdenti, non saperlo rende difficile scegliere il capo giusto.»

    «Non conosco nessuno che abbia acquistato l'abito per il proprio funerale prima di morire.»

    «Pensi che potrei sceglierlo dopo morta?»

    «No, però...»

    «Sono una donna soft autumn, sai cosa vuol dire?»

    «No.»

    «Mi stanno bene i colori caldi dell'autunno e a nessuno verrebbe in mente di vestire un cadavere di arancione.»

    Virginia fu sul punto di replicare che il rigor mortis avrebbe potuto alterare il tono della pelle, ma preferì non dare nessuno spunto per approfondire.

    «Voglio uscire di scena con il mio stile e non mi fido di voi.»

    Voi erano i due figli e le due nuore.

    «I miei figli lasciamoli perdere, tu ti vesti da vecchia e Daria...» Diomira non completò la frase.

    Con Virginia non parlava mai di Daria.

    In quello era di una correttezza esemplare.

    E in ogni caso era alquanto difficile parlare di Daria che era troppo bella per..., troppo in gamba per..., troppo impegnata... L'elenco poteva protrarsi all'infinito.

    «E comunque voglio sapere come sarò vestita, per cui l'abito lo compro prima.»

    «Con largo anticipo, forse solo i faraoni si portavano così avanti. Non hai nemmeno il colesterolo alto.»

    «Ho ottant'anni, Virginia, quanto pensi che possa campare? Mi piace essere organizzata.»

    Per averne conferma bastava visitare il suo solaio: all'ingresso c'era un cavalletto con la legenda numerata del contenuto di tutte le sessantatré scatole che ingombravano il sottotetto.

    «Pensi sia meglio che prenda una taglia in meno?»

    Virginia non osava chiedere il motivo, ma le venne fornito ugualmente.

    «Potrei spegnermi dopo una lunga malattia debilitante.»

    Commentare certe affermazioni era impossibile.

    «Be', non hai niente da dire? Sei un'ostetrica, lavori in ospedale, quanti vecchi moribondi sovrappeso hai visto?»

    «Pochi. E comunque io per lo più vedo gestanti.»

    «Mi sa che ho ragione. Potrei optare per un modello a trapezio. Quelli vanno sempre bene. Nella bara come starebbe, secondo te?»

    Virginia pensò che a quel punto si poteva solo assecondarla: «I becchini sono strepitosi, sistemano gli abiti meglio di una sarta.»

    «Grande notizia. Vedi che te ne intendi! E poi la prossima settimana dovrò andare a una delle insulse mostre di Daria, potrei ammortizzare la spesa e usarlo anche in quell'occasione.»

    «Allora occorrerà prendere la taglia giusta.»

    «Ha invitato anche te?»

    «Sì, ma sono di turno.»

    «Tre giorni di fila?»

    «Nel weekend tornano Luca e Ruggero.»

    «Beata te, io non ho scuse. Nessuno è disposto a credere che un'ottantenne abbia una vita impegnata. Questa volta le grafiche dei bambini interpretano la luce» concluse Diomira con strazio.

    «Grafiche

    «Disegni. Scarabocchi. Adesso le chiamano grafiche. Capirai, i bambini vanno dai tre ai cinque anni, cosa vuoi che abbiano prodotto?»

    Virginia sorrise.

    Daria era l'altra nuora di Diomira, moglie di Rodolfo, il fratello di Ruggero. Era atelierista presso alcune delle più prestigiose scuole dell'infanzia della provincia, ma a sentir lei sembrava facesse la curatrice ai Musei Vaticani, del resto atelierista in Emilia equivale a CEO della Apple in California.

    Con Diomira aveva un educatissimo rapporto distaccato. Che Virginia sapesse, non avevano mai discusso su nulla, ma era evidente che non si sopportavano.

    «C'è tutta una letteratura sul disegno infantile» azzardò Virginia.

    «Non ne dubito. Il punto è che non me ne importa un fico secco.»

    «E allora non ci andare.»

    «Mh... si trattasse di te, Virginia, te lo direi in faccia. Con Daria non si può. Sarebbe lesa maestà.»

    Diomira si alzò e pagò entrambe le consumazioni, quindi uscì dal bar dirigendosi a colpo sicuro verso la boutique Très chic che si trovava al centro della galleria.

    «Sono anni che faccio qui i miei acquisti più importanti» disse fermandosi davanti alla vetrina. «Che ne dici di quello lì rosa corallo?»

    Era un modello un po' fasciante con un bordo di pizzo sull'orlo.

    Virginia era ancora impegnata a elaborare l'azzeccatissimo concetto di lesa maestà.

    «Corallo?» chiese scettica.

    «Troppo frivolo? Però sono io la protagonista, sarebbe peggio se ti presentassi tu al mio funerale con una mise del genere, non trovi?»

    «Ah sì, nessuno oserà criticarti.»

    Con un largo sorriso Diomira varcò la soglia del negozio.

    Una commessa, una donna elegante sulla quarantina, le venne subito incontro.

    «Bentrovata, signora Eller, come sta?»

    «Non c'è male, si tira avanti. Sono qui per un abito un po' elegantino...»

    «Un'occasione importante? Una cerimonia?»

    «Una cerimonia, sì» confermò Diomira.

    «Ha visto qualcosa che le piace in vetrina?»

    «L'abito corallo, ma mia nuora dice che è troppo frivolo.»

    «Con la sua personalità direi che può osare...»

    «I modelli a trapezio però non mi valorizzano il seno.»

    «Non si preoccupi, basterà allungare le pence... vuole provarlo?»

    Mezz'ora dopo erano di nuovo nel parcheggio, l'abito rosa era rimasto sul manichino e Diomira aveva scelto un capo color ottanio di un tessuto che, a suo parere, sarebbe caduto bene anche da sdraiata.

    Era molto soddisfatta della scelta.

    Virginia era stata abbastanza collaborativa.

    Le ci voleva sempre un po' prima di sciogliersi, ma poi era la migliore su cui contare.

    Diomira guidò fino a casa di Virginia commentando tutti gli abiti che aveva provato e rammaricandosi di avere un solo funerale a disposizione. Ma c'era la mostra di Daria.

    Parcheggiò davanti al cancello della villetta e salutò la nuora.

    «Grazie, sei stata di grande aiuto.»

    Virginia le sorrise e la invitò a cena.

    «No, ho una serata al circolo stasera. E tu che fai?»

    «Niente. Ho un bel libro da finire.»

    Diomira sospirò. «Perché non esci? Al cinema ci sono dei bei film...»

    «Domattina devo alzarmi presto» tagliò corto Virginia, poi le sorrise e infine scese dall'auto.

    Diomira non commentò, si limitò a sorriderle con un ventaglio di opinioni inespresse che Virginia colse, suo malgrado.

    Entrando, Virginia trovò la casa fresca e in penombra.

    Non le piaceva uscire.

    Non le piaceva frequentare persone, le sembrava che dicessero tutti le stesse sciocchezze.

    Preferiva stare da sola, anche se non era felice.

    Appoggiò la borsa nell'armadio dell'ingresso, si levò i vestiti di lino, fece una doccia e si infilò un paio di shorts e una t-shirt, quindi uscì in giardino per innaffiare i fiori. Faticò a far venire l'ora in cui non sarebbe stato ridicolo cenare con uno yogurt, lo mangiò appoggiata al lavello senza nemmeno apparecchiare, quindi si concesse finalmente di riprendere il libro che aspettava di essere finito.

    Verso le dieci tubò il cellulare sul comodino.

    Era Ruggero.

    La chiamava sempre quando era in viaggio.

    Virginia non rispose subito. Non che fosse indecisa, ma non c'era bisogno di precipitarsi. Lasciò andare una mezza dozzina di vibrazioni, il piccolo smartphone scodinzolò lievemente sul ripiano fino a che lei non lo prese in mano per rispondere.

    «Ciao.»

    «Ciao. Dormivi?»

    «No, è presto.»

    «Ah bene, non sono riuscito a chiamarti prima, mi spiace.»

    «Non è tardi» insistette Virginia, «non sono neanche le dieci. Il tuo volo?»

    «Tutto okay. Ho tardato a chiamare perché hanno perquisito alcuni passeggeri.»

    Raccontava sempre tutto con una leggerezza che faceva pensare che le cose non fossero successe a lui.

    Negli anni c'erano stati atterraggi d'emergenza, ritardi pazzeschi, situazioni da film d'azione e Ruggero aveva sempre chiamato subito dopo con il tono di uno che era stato là a prendere appunti, o come quei vecchi che guardano i cantieri.

    Virginia aveva smesso di fare domande, si sentiva stupida a dare rilevanza a situazioni che nel marito non destavano, all'apparenza, nessuna emozione.

    «E tu? Che hai fatto oggi?»

    «Sono uscita con tua madre.»

    «Che voleva?»

    «Un abito.»

    Un breve silenzio. Dall'altro capo uno sbuffo di fiato che poteva essere una risatina.

    «Per cosa?»

    «Un funerale.»

    «Di chi?» Ora Ruggero stava proprio ridendo.

    «Il suo.»

    «Bene. Non ha preso qualcosa anche per il nostro? Penso sempre che camperà in eterno.»

    «Sai che ha un certo tatto, ha detto che lo metterà anche per andare alla prossima mostra di Daria.»

    «Mia madre è diabolica. Hai sentito Luca? Dice che viene a casa nel weekend.»

    «Sì, me lo ha detto.»

    Calò il silenzio.

    Capitava spesso.

    Esaurivano le cose da dirsi molto in fretta.

    Due continenti e una linea telefonica di mezzo possono fare questo effetto.

    O, più semplicemente, ventun anni di matrimonio.

    In ventun anni ci si dicono miliardi di cose, è plausibile finire gli argomenti. Dopo quattro lustri si finisce per non commentare, l'interlocutore sa già tutto, non ha senso la speculazione dialettica con qualcuno che sa quel che pensi prima ancora che tu lo pensi.

    Oltretutto Luca non dava problemi, mai dati. Alcuni genitori dovevano parlare dei figli che non volevano studiare, che non avevano amici, o che avevano gli amici sbagliati, che non rispondevano al telefono, che spendevano troppi soldi. Luca non dava loro nemmeno la soddisfazione di farli preoccupare.

    «Sarai stanco» disse Virginia. Non lo era mai, in verità. Ruggero volava da un continente all'altro come se guidasse l'auto per andare in centro.

    «Devo trovare qualcosa da mangiare.»

    Ecco un buon gancio.

    «Ti lascio, allora.»

    «Ci vediamo venerdì.»

    «Sì, a venerdì.»

    «Buonanotte, Virginia.»

    «Buonanotte.»

    CAPITOLO 2

    Settembre 2019

    Diomira non campò in eterno.

    Morì all'improvviso due anni dopo aver acquistato l'abito per il proprio funerale che, in effetti, indossò solo un paio di volte.

    Se ne andò di punto in bianco, in piena salute, colta da un ictus mentre guardava a letto le repliche di Ballando con le stelle.

    A trovarla fu una vicina, la signora Lidia Baiocchi.

    Si erano date appuntamento per un caffè e Diomira era in ritardo. Lidia l'aveva chiamata al telefono e, non avendo ricevuto risposta, era entrata in casa con il mazzo di chiavi che l'amica le aveva dato. L'aveva trovata a letto, la TV ancora accesa, il telecomando sul pavimento e un'espressione indecifrabile sul viso, una via di mezzo tra il sorriso e lo stupore.

    Lidia non aveva nemmeno tentato di chiamarla, non aveva urlato, era stata solo indecisa se chiuderle gli occhi, poi aveva pensato a tutti i gialli che avevano visto insieme e aveva deciso di non farlo. Con il cellulare di Diomira, uno smartphone piuttosto sofisticato che lei usava con notevole disinvoltura, aveva cercato il numero di Virginia sperando che non fosse in ospedale. Per fortuna, le aveva risposto al terzo squillo.

    «Diomira...» aveva sentito.

    «Sono la Lidia.» Era bastato quello.

    Era come se Diomira avesse sempre saputo che, in quel frangente, di tutto si sarebbe occupata Virginia. Non che ci volesse un indovino, Ruggero era spesso in un altro continente, Rodolfo su un altro pianeta e Daria fuori dal Sistema Solare. L'unica con i piedi per terra, in tutti i sensi, era Virginia.

    Naturalmente Rodolfo, che era un seminoto regista cinematografico, si era prodigato nell'intralciare, con l'intento fallimentare di pianificare, mentre Ruggero aveva fatto appena in tempo a rientrare da Bombay per il funerale. Daria non pervenuta.

    Al funerale c'erano tutti, però.

    Daria, Rodolfo, Ruggero, Virginia e i relativi figli, Luca, Lapo e Leone. Virginia rimarcava spesso che la elle di Luca, suo figlio, era casuale e che comunque come età stava in mezzo ai cugini Lapo e Leone.

    Erano belli tutti, in fila nei banchi della chiesa parrocchiale.

    Virginia si era seduta dietro di loro perché era entrata per ultima visto che aveva dovuto spiegare all’addetto delle pompe funebri, per l'ennesima volta, che dovevano lasciare i fiori in chiesa e non portarli al cimitero.

    Ruggero l'aveva raggiunta, si era seduto accanto a lei e le aveva preso la mano.

    L'ultima volta che l'aveva fatto non erano ancora sposati, non stavano nemmeno del tutto insieme, a voler essere precisi. Virginia ricordava distintamente che si trovavano al cinema ed erano in quella fase che Ruggero aveva poi definito di trattativa. Forse si erano baciati poco dopo, ma non ne era sicura e comunque non era una cosa da pensare durante un funerale, anche se Diomira l'avrebbe trovato divertente. Pure appropriato. A modo suo, era stata una donna romantica.

    Virginia non aveva ascoltato molto, aveva preferito pensare ai fatti suoi. Agli anni passati e ai giorni appena trascorsi che, sembrava incredibile, rappresentavano un distillato di quel che avevano vissuto e di come erano. Fragili e precari.

    Ogni mese ha una luce tutta sua, ma settembre è il più particolare di tutti, forse perché culla l'ambizione di essere estivo senza averne la forza. La luce è chiara, fulgida, il cielo è terso e fa caldo, ma è settembre, non c'è niente da fare: porta con sé una malinconia nostalgica e gentile. Perfetta per un funerale, pensò Virginia guardando le persone uscire dalla chiesa e radunarsi a capannelli vicino a Ruggero e a Rodolfo.

    Sarebbe piaciuta anche a Diomira una giornata così. Lei, che amava i colori caldi, le cose allegre, la leggerezza come antidoto per le tribolazioni, sicuramente avrebbe apprezzato, o stava apprezzando, ovunque fosse e in qualsiasi forma, che nel giorno del suo funerale splendesse il sole e il cielo fosse turchese.

    Il tepore della giornata e la luce cristallina fecero indugiare di più le persone sul sagrato della chiesa. Tutti a complimentarsi con Rodolfo per l'organizzazione perfetta, l'annuncio sul giornale locale, i fiori, le parole... E mentre il seminoto regista Eller accoglieva con modestia e riconoscenza le buone parole che gli venivano rivolte, suo fratello cercò la moglie con lo sguardo, trovandola, come sempre, ai margini del gruppo; le sorrise alzando gli occhi al cielo, Virginia gli rispose con un cenno impercettibile che solo loro due coglievano, ça va sans dire.

    Poi la gente si diradò, il carro funebre partì lento con dietro l'auto di Ruggero e Rodolfo. Diomira sarebbe stata cremata nei giorni successivi per cui, al momento, non c'era nient'altro da fare.

    Erano le undici passate e Virginia si avviò verso casa. Alla spicciolata erano andati via tutti, anche Daria che aveva un impegno improrogabile.

    «Noi andiamo a casa della nonna» annunciò Luca cogliendola di sorpresa.

    Non si era accorta che suo figlio e i due cugini erano ancora lì. Si erano allontanati per salutare alcuni amici e lei li aveva persi di vista.

    «Chi? Dove?» rispose.

    «Io, Lapo e Leone andiamo a farci una carbonara a casa della nonna. Lei lo avrebbe apprezzato. La sua carbonara, nella sua cucina. Sistemo tutto dopo, non preoccuparti.»

    Non era preoccupata, come non lo sarebbe stata Diomira.

    «Mi sembra una buona idea» sorrise Virginia.

    Nonostante avesse ventidue anni, Luca andava a mangiare dalla nonna ogni volta che era a casa e spesso cucinavano insieme come quando lui era bambino e diceva che da grande avrebbe fatto il cuoco sulle navi da crociera.

    «Ci vediamo dopo, d'accordo?»

    «D'accordo.»

    Sempre grande, sempre equilibrato, con un intuito che metteva i brividi.

    Virginia guardò suo figlio allontanarsi insieme ai cugini. Apparivano identici, tre ventenni gagliardi con la vita in mano, solo che il suo Luca, anziché perseverare nel voler fare il cuoco sulle navi da crociera, aveva finito per scegliere di diventare pilota di aerei militari.

    Ruggero rientrò dopo un'ora.

    Silenzioso come un gatto, Virginia se lo ritrovò in cucina.

    Si muoveva da sempre con la leggerezza di un ladro, per non svegliarli, interromperli, disturbarli, lui che abitava la casa come un ospite di passaggio.

    «Mangi o dormi?» gli chiese Virginia, abituata ai suoi agguati.

    «Dormo. E tu?»

    Erano le due del pomeriggio.

    Facevano entrambi un mestiere per il quale bisognava dormire a comando, quando si poteva.

    «Vengo con te.»

    Quando non andava al lavoro, Virginia si sforzava di tenere ritmi di sonno e veglia normali, era convinta che alla lunga dormire di giorno e star svegli di notte, in modo casuale e caotico oltretutto, sballasse il cervello, ma era un'idea sua, non c'era letteratura di settore che confermasse quella teoria.

    Il letto era rifatto, con le coperte tirate sul punto di strapparsi, quindi si levarono pantaloni e camicia e si misero sotto il plaid che Virginia teneva piegato in fondo.

    Si erano visti direttamente al funerale, Ruggero era arrivato dall'aeroporto e si era fatto portare in chiesa. Nei giorni precedenti si erano parlati al telefono, ma di fatto non c'era stato modo di dire per bene com'erano andate le cose, di raccontare, elaborare. Un silenzio saturo e quieto si posava spesso su di loro scoraggiando le parole che finivano per uscire una alla volta e ben distanziate tra loro.

    «Grazie, Virginia.»

    «Di che?»

    «Ti sei occupata di tutto.»

    «Te lo ha detto Rodolfo?»

    Ruggero sogghignò sommessamente. «No, no. Lui è sempre convinto di aver gestito tutto da solo.»

    «Ah ecco.»

    La stanza era in penombra, a Virginia sembrava di dormire in un acquario. C'erano ombre sui muri, disegni che conosceva a menadito e che continuava a guardare con ottuso interesse.

    «Non ho fatto in tempo a vedere il vestito verde petrolio» aggiunse Ruggero avvicinandosi. Dormivano in fila indiana, tutti e due sul fianco sinistro, lei davanti e lui dietro.

    «Ottanio.»

    «Giusto.»

    «Le stava molto bene. Luca le ha cotonato i capelli.» Il pilota, futuro maresciallo dell'aeronautica militare, era uno che cotonava i capelli alla nonna.

    Poi sentì la mano di Ruggero posarsi sul suo fianco, sull'osso sporgente della cresta iliaca. Quando dormivano insieme, lui le posava la mano lì, tra la pelle e l'elastico delle mutande, dicendo che senza quel gesto non si sarebbe addormentato. Virginia si chiedeva, senza dirlo, come facesse a dormire quando era solo negli alberghi di mezzo mondo. Il suo pensiero, però, si fermava lì, in genere vinto dal sonno di entrambi.

    CAPITOLO 3

    Novembre 2019

    Virginia non aveva capito fino a che punto Diomira fosse una presenza significativa, ma se ne rese conto tra settembre e novembre trovandosi del tutto sola.

    Luca era rientrato a Vicenza e Ruggero era stato ovunque con brevi scali in Italia e sporadici giorni a casa. Niente di insolito, la loro vita era così da più di vent'anni, la novità era la riflessione in merito.

    Gli orari disordinati di entrambi erano stati tenuti insieme da Diomira che si era occupata di Luca garantendogli, fin da piccolo, un ritmo regolare, nei momenti in cui la mamma era in ospedale e il papà chissà dove. Ovvero quasi sempre.

    Adesso che quel fil di ferro con cui Diomira li aveva legati non c'era più, a Virginia sembrava che stessero andando tutti alla deriva come satelliti sganciati dall'orbita.

    Con una risolutezza che non era la sua cifra, in ottobre aveva fatto domanda per passare dal reparto di ostetricia all'organizzazione dei corsi pre-parto e allattamento. Con la sua anzianità l'avevano accontentata e così, nel giro di poche settimane, aveva impacchettato una mezza vita lavorativa a favore di un nuovo assetto professionale con un ritmo sonno-veglia nella norma.

    Ci aveva messo niente ad abituarsi.

    Sveglia alle sette, ritirata non oltre le dieci.

    Una noia mortale, ma una noia normale.

    Con Luca si sentivano una volta alla settimana intorno alle otto, con Ruggero quasi tutti i giorni negli orari più strani, ma ora non per colpa sua.

    A rendersi conto di essere sola ci aveva messo ancor meno che ad abituarsi a dormire di notte.

    Era sola di una solitudine per sottrazione che il chiasso di Diomira aveva coperto come un buon make up copre le discromie della pelle.

    I rumori in casa, per esempio, si erano amplificati, un'immaginaria cassa di risonanza li spandeva nel silenzio ininterrotto della giornata.

    Le chiavi rimbombavano nella toppa, gli avvolgibili scrosciavano come cascate, gli interruttori della luce parevano gong e la sacca da lavoro posata sul pavimento aveva lo stesso effetto di un macigno caduto dalla cima di una montagna.

    Il pomeriggio nebbioso e buio in cui era rientrata più tardi del solito non aveva costituito un'eccezione.

    Era rincasata dopo le sei perché, durante una di quelle sedute di allattamento forzato, un neonato aveva vomitato e la madre era andata nel panico. Non era nulla di grave, ma la poveretta non se l'era sentita di guidare, così Virginia si era offerta di accompagnarla a casa. Poco male, era sola e non doveva preparare la cena per nessuno.

    Aveva posato la sacca sul pavimento, acceso la luce dell'ingresso e poi alzato gli avvolgibili del tinello. Era stato in quel momento che si era accorta che la casa era diversa senza sapere esattamente come. Nulla era fuori posto, tuttavia c'era qualcosa di spostato.

    Poi udì un ronzio provenire dalla cucina, si affrettò e vide che il forno era acceso.

    Non poteva averlo lasciato acceso, era uscita di casa poco dopo le sette e non usava mai il forno per preparare la colazione.

    Si stava già guardando intorno in modo febbrile, con una sorta di paura in corpo e un tremore nelle mani che le impedivano di pensare lucidamente e individuare l'azione più sensata da compiere. Poi si accorse che, alle sue spalle, il vano della porta si era oscurato. Non aveva udito nessun rumore, ma c'era qualcuno in casa.

    «Nessuna stupida sorpresa, hai dimenticato il cellulare a casa.» La voce di Ruggero la fece voltare di scatto.

    Era lui, in accappatoio e piantato in mezzo alla porta.

    Di confessare lo spavento non ce ne fu bisogno.

    «Che ci fai... dovevi rientrare sabato. È successo qualcosa? Luca?»

    «Non è successo nulla e Luca non c'entra. Mi ha chiamato mio fratello.»

    Quindi Ruggero si avvicinò al forno, lo aprì e ci mise dentro la casseruola con l'arrosto che vi stazionava sopra e che Virginia non aveva nemmeno visto. Quello avrebbe dovuto tranquillizzarla, perché difficilmente un aggressore ti cucina la cena prima di saccheggiarti la casa o prenderti a botte.

    «Come investigatrice non sei migliorata» la canzonò Ruggero.

    «Tu come topo da appartamento invece sì.»

    Il marito le sorrise.

    Aveva mantenuto intatto lo sguardo dei vent'anni, come ci fosse riuscito era un bel mistero.

    Virginia sospettava che avesse fatto un patto con il diavolo, del resto non si spiegava in altra maniera il modo in cui gli stavano la divisa da pilota, il cappello, e quell'andatura in bilico tra il marziale e il red carpet.

    Anche in accappatoio faceva una gran figura.

    Era una bella fortuna che passasse metà della sua vita a dormire in quelle catene d'alberghi che forniscono accappatoi bianco ottico.

    «Torno subito. Mi vesto e arrivo. Tu intanto apparecchia... o volevi uscire a cena?»

    «No. Domani devo andare al lavoro.»

    Non le piaceva uscire a cena con Ruggero.

    Lui, che mangiava più spesso nei ristoranti che a casa, si muoveva nei locali pubblici con la stessa disinvoltura di casa, mentre lei aveva sempre la sensazione di sentirsi fuori parte. Non sapeva mai con che tono di voce parlare, spesso non parlava proprio: le cose frivole non le venivano e quelle serie non le avrebbe discusse in

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