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Scacco matto, Vostra Grazia
Scacco matto, Vostra Grazia
Scacco matto, Vostra Grazia
E-book452 pagine5 ore

Scacco matto, Vostra Grazia

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Info su questo ebook

Bath 1830.
Percival Webster, duca di Clarendon, è convinto che le rigide norme che regolano la vita sociale del Ton siano eccellenti e giuste e che vadano applicate con rigore, senza eccezioni. In ottemperanza a questo stile di vita, ha deciso di contrarre un matrimonio di convenienza scegliendo, come futura duchessa, una lady adeguata sotto tutti i punti di vista: non troppo bella, non troppo intelligente, non troppo appariscente. A tal proposito, ha individuato in Lady Albertina Cadwell l’esemplare perfetto. La gentildonna è certamente la scelta migliore, eppure il duca rimanda più e più volte la proposta di matrimonio, fino ad accantonarla in via definitiva quando Miss Emma Thomas, figlia illegittima del cognato, il duca di Rothsay, diventa l’obiettivo delle mire di caccia di un pericoloso libertino. Purtroppo in una manciata di mesi Emma è cambiata e non è più la ragazzina che amava sfidarlo a scacchi, ma un’affascinante giovane donna. Questa nuova realtà costringerà il duca a fare i conti con i propri principi più radicati, un sentimento stordente e un’attrazione tanto potente quanto inaspettata. Le regole su cui ha improntato la propria esistenza rischiano, così, di saltare una a una, in favore di un’unica preziosissima eccezione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2022
ISBN9791222041377
Scacco matto, Vostra Grazia

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    Anteprima del libro

    Scacco matto, Vostra Grazia - Rebecca Quasi

    Capitolo 1

    Percival Webster, settimo duca di Clarendon

    1830 – Torquay, Devon.

    Percival Webster, settimo duca di Clarendon, era accerchiato dai briganti.

    Tre contro uno.

    L’abilità del duca con la spada era leggendaria, se la sarebbe cavata anche in quell’occasione. Con un paio di affondi disarmò il delinquente alla sua destra. Restavano i più pericolosi, che erano comunque solo due. Poco dopo anche il tizio che attaccava da sinistra perse la spada e Clarendon poté concentrarsi sull’unico avversario degno di nota.

    «Avanti, Lizzie!» gridò il duca. «Quei vigliacchi dei tuoi fratelli sono finiti. Resti solo tu!»

    La bambina si fece avanti con un sorriso sdentato e minaccioso.

    Era identica a suo padre, il duca di Rothsay e cognato di Clarendon, il che rendeva assai piacevole batterla. Nonostante avesse solo sette anni.

    Il duello finì poco dopo con il collo della piccola sotto la lama della spada di legno di suo zio Percival.

    «Brava, Lizzie» si complimentò il duca, abbassando l’arma. «Peccato che tu sia una ragazza.»

    La bambina aveva il fiato troppo corto per rispondergli per le rime, ma era chiaro dal suo sguardo che la rispostaccia era solo rimandata.

    Seguendo il duca come tre anatroccoli, i bambini si sedettero sull’erba folta del prato dove avevano disputato l’assalto.

    Era fine agosto, le giornate si stavano accorciando e i pomeriggi caldi e assolati come quello erano sempre più rari.

    «Voi due siete la vergogna della famiglia» sentenziò Clarendon, rivolto ai due maschi di undici e nove anni che lo guardavano con aria inespressiva. «Vi fate battere da vostra sorella. Che è femmina e ha sette anni!»

    «Lizzie non sa contare» provò a dire Albert, quello che di anni ne aveva nove.

    «Saper contare sarà di grande aiuto se verrai attaccato dai briganti» gli ricordò lo zio.

    «Perché dovremmo essere attaccati dai briganti?»

    «Perché siete ricchi, ecco perché. E dovreste essere voi a difendere vostra sorella e non il contrario.»

    Clarendon non aveva mai approvato il modo in cui la sorella e il cognato allevavano i loro figli, cioè assecondandone talenti e inclinazioni. Questa bizzarra novità aveva portato ad avere un futuro duca, William, appassionato di poesia, un secondogenito, Albert, abilissimo nei ritratti ad acquerello e una terzogenita, Elizabeth, che sarebbe stata un ottimo generale di fanteria.

    «Nostra madre dice che non è indispensabile eccellere in tutto» disse William con tutta la dignità ducale che un ragazzino di undici anni poteva avere.

    «Sono sempre più incredulo di essere imparentato con vostra madre» rispose piccato Percival.

    «La mamma ha detto che se voglio imparare a tirare di scherma, posso» saltò su Lizzie.

    «Su questo ha ragione, probabilmente dovrai imparare a cavartela da sola con due fratelli del genere.»

    Albert sospirò pensieroso. «Vieni, Lizzie, andiamo ad avvertire che lo zio è arrivato. Poi se vuoi ti faccio un ritratto» propose, offrendo alla sorella una mano per alzarsi.

    «Grazie, Bertie, sei molto gentile. Posso allenarmi con voi anche domani?» domandò la bambina allo zio, prima di allontanarsi.

    «Certo, Lizzie» rispose lui accarezzandole i riccioli rossi.

    Fratello e sorella si allontanarono mano nella mano e poi sparirono in casa.

    Percival e William rimasero soli.

    «Siete molto diverso dai nostri genitori» disse William.

    Era un ragazzino riflessivo, posato. Non era veloce con la spada, ma lo era il suo pensiero, acuto e sottile.

    «Quello normale sono io, William, i nobili in genere si comportano come me, non come tuo padre e tua madre.»

    Era probabile che zio Percival avesse ragione.

    I duchi di Rothsay non frequentavano molto la società, vivevano a Londra lo stretto indispensabile e per la maggior parte del tempo risiedevano nel Devon, dove conducevano un’esistenza piuttosto libera e poco convenzionale. Anche William se ne rendeva conto.

    «Quest’autunno io andrò a Eton. Ed Emma a Londra» proseguì il ragazzino. Era evidente, dal tono, che entrambe le cose lo preoccupavano.

    «Che tu vada a scuola è un’ottima cosa. Non capisco che cosa debba andare a fare Emma a Londra.»

    «Deve trovare un marito, temo.»

    Un marito? Emma?

    Percival fece un rapido conto.

    Emma doveva avere all’incirca diciotto anni. No, non all’incirca, ne aveva proprio diciotto. E a quell’età le ragazze debuttavano e venivano battute all’asta matrimoniale. Un brivido gli corse lungo la schiena.

    Emma non era una ragazza come le altre, anche se sua sorella Caroline e il marito si ostinavano a ignorarlo. Tanto per cominciare, Emma era figlia illegittima. Rothsay l’aveva avuta da una relazione precedente al matrimonio e, quando la madre della bambina era morta, Caroline, divenuta nel frattempo duchessa, l’aveva presa in casa crescendola insieme ai propri figli.

    C’era stato uno scandalo con i fiocchi che solo l’abilità di zia Augusta era riuscita ad arginare e stemperare.

    In ogni caso, Emma era e sarebbe rimasta la bastarda di Rothsay, per cui presentarla in società era un azzardo.

    «Non mi va che Emma si sposi» proseguì William. Forse aveva parlato a lungo, ma Percival non l’aveva ascoltato. «Non capisco perché non possa restare qui con noi. Io voglio bene a Emma.»

    Che in famiglia il più dotato di buon senso fosse un ragazzino di undici anni, era davvero preoccupante.

    «Non è detto che trovi marito» lo tranquillizzò suo zio.

    «Non ci conterei. È bellissima.»

    Ah, davvero?

    Lui aveva in mente l’Emma diciassettenne: una ragazzetta tutta gambe e braccia, piatta come un’asse da lavare, con una gran massa di riccioli scuri, una lingua tagliente e uno spiccato talento per gli scacchi.

    «Cosa intendi William?»

    Clarendon non vedeva Emma da più di un anno. Per Natale non era riuscito a trascorrere nemmeno un giorno con la famiglia di sua sorella, possibile che in quella manciata di mesi la ragazza fosse cambiata così tanto?

    «Intendo che è bella. Molto bella. Avete presente?»

    No, il duca non aveva presente Emma, ma si fidava ciecamente del giudizio di William che era un ragazzo sveglio.

    Percival non ricordava Emma come una bella donna, quella ragazzina non era nemmeno una donna per i suoi canoni. Dopo un’attenta analisi, però, convenne che sarebbe potuta diventare bellissima. E probabilmente era successo.

    «Cerca di essere più preciso, Will.»

    «Emma è diventata molto graziosa, davvero molto graziosa e Lukas Halifax ha chiesto la sua mano.»

    Percival spalancò gli occhi.

    Solo l’estate precedente era tutto nella norma, Emma era una ragazzina con più ossa che carne, buffi capelli ricci e due occhi sproporzionati, ma era bastato distrarsi una manciata di mesi perché venisse chiesta in sposa.

    «Se sposasse Lukas sarebbe molto meglio, almeno rimarrebbe qui» convenne William.

    «Lukas Halifax è un imbecille» sentenziò Percival.

    «A parte il fatto che vive per la pesca, non è male...» lo difese l’altro.

    Percival non ritenne opportuno replicare.

    Lukas Halifax era figlio di Sir Robert Halifax, amico d’infanzia di Caroline e vicino dei Cavendish lì nel Devon; i suoi figli, Lukas e Alice, erano cresciuti con Emma e, in effetti, un matrimonio tra i due avrebbe risolto il problema della delicata sistemazione della ragazza.

    «Perché la mandano a Londra se deve sposare Halifax?» domandò Percival.

    «Perché Emma lo ha rifiutato.»

    «Davvero?» Clarendon non registrò la sensazione di leggerezza che gli si posò sul petto.

    «Sì. Ha detto che non lo ama.» Il ragazzino riportò la cosa con un tono tra lo scettico e il disgustato che lo zio apprezzò moltissimo.

    «Mh, capisco.»

    «Siete d’accordo?»

    «Affatto. I matrimoni d’amore sono una sciocchezza clamorosa, un’assurdità inaudita.»

    «La penso come voi.»

    «Bravo. Non è produttivo essere innamorati della propria moglie, se così fosse si finirebbe per vivere in modo barbaro e incivile.»

    William sembrava combattuto, dopotutto i suoi genitori si amavano molto.

    Si erano sposati per convenienza, ma avevano finito per innamorarsi perdutamente e William non aveva mai scorto tracce di barbarie e inciviltà in casa sua. Tuttavia gli sembrava da sempre che il parere di Percival fosse il più autorevole, per cui ora si sentiva molto confuso.

    «Fatto sta che io dovrò andarmene a Eton e Emma a trovarsi un marito con il rischio che quando tornerò a casa per Natale, lei sia chissà dove con un marito sconosciuto.»

    «Le sorelle si sposano, Will.»

    «Non le mie. Vorrei che non lo facessero.»

    «Lizzie non corre questo rischio, per ora.»

    «Emma sì.»

    Emma sì.

    Considerata la natura romantica e ingenua delle Loro Grazie i duchi di Rothsay, c’era pure da temere che la fanciulla sposasse un libertino cacciatore di dote, perché Miss Emma era sì illegittima, ma con una dote da far invidia a una principessa.

    «Vedrò di ficcare un po’ il naso, Will» promise Percival. I due si alzarono e si diressero verso la casa.

    «Farò una passeggiata, prima di entrare» decise all’ultimo momento il duca, quindi si avviò solitario lungo il sentiero che conduceva al laghetto.

    Gli piaceva molto camminare da solo, soprattutto per i sentieri verdeggianti della tenuta di suo cognato.

    Nelle giornate estive le colline erano così rigogliose e splendenti che colmavano lo spirito di una letizia quasi perfetta.

    A Sua Grazia il duca di Clarendon piaceva trovarsi lì, amava la solitudine provvisoria di una passeggiata intorno alla tenuta, adorava quei luoghi silenziosi e la compagnia che di lì a poco avrebbe incontrato. Non lo avrebbe ammesso nemmeno con una lama puntata alla gola, ma i figli di Caroline gli erano molto cari. Non li vedeva spesso quanto avrebbe voluto perché, a differenza di suo cognato e sua sorella, lui aveva preso sul serio la faccenda di essere duca e si recava spesso in società allo scopo di mantenere relazioni sociali. Per non parlare degli obblighi presso la Camera dei Lord, che lo impegnavano per mesi e che si sarebbero fatti pressanti visto che era appena spirato il re e si attendeva l’incoronazione del nuovo sovrano. Ogni anno, però, cercava di passare qualche settimana estiva con loro nel Devon.

    Quell’anno era arrivato alla tenuta di Rothsay solo a fine agosto perché aveva trascorso gran parte dell’estate nel Sussex presso la famiglia di Lady Albertina Spencer, figlia del visconte di Cadwell, una giovane che aveva intenzione di chiedere in sposa.

    Al compimento dei trent’anni, Percival aveva ritenuto suo dovere individuare una fanciulla adatta a diventare duchessa e dopo attenta ricerca e acuta osservazione era giunto alla conclusione che Lady Albertina fosse la candidata perfetta.

    Non era bella, non era particolarmente intelligente, non era brillante e nemmeno appariscente, sarebbe passata del tutto inosservata per il cinquantennio che prevedeva potesse durare il loro matrimonio.

    Eppure, nonostante Lady Albertina avesse solo pregi e nessun difetto, nell’arco del mese che aveva trascorso nel Sussex, non aveva trovato il modo di farle la proposta. Non erano mancate le occasioni, ma ogni volta che si era trovato solo con lei, la mente gli aveva suggerito di rimandare. Le avrebbe fatto la proposta appena tornato a Londra, decise.

    Anche Lady Albertina doveva rientrare in città in settembre e in quell’occasione lui si sarebbe dichiarato, dopo di che sarebbe andato a parlare con il padre, il visconte di Cadwell. Si sarebbero sposati intorno a Natale.

    Com’era facile deciderlo lì nel Devon.

    Soddisfatto della propria risolutezza, Percival fece ritorno a casa.

    Dopo aver riorganizzato i propri progetti, sentì impellente il bisogno di parlare con sua sorella per cercare di metterle un po’ di sale in zucca: come poteva pensare di portare Emma a Londra per la stagione?

    Già averla cresciuta in casa insieme ai figli legittimi era stata una scelta poco assennata, ma farla debuttare sarebbe stato un suicidio.

    Gli ronzavano in testa le parole di William: se se n’era accorto un ragazzino di undici anni che Emma era bella, chissà che accoglienza avrebbe avuto dai libertini!

    Per Clarendon, Emma era rimasta ferma tra i sei e gli otto anni, ossia il momento in cui l’aveva conosciuta e le aveva insegnato a giocare a scacchi, rendendola col tempo l’unica avversaria degna di nota. Doveva essersi evoluta anche fisicamente in quel decennio, eppure lui non aveva memoria di nulla che facesse presupporre che la bambinetta mora fosse cambiata in modo significativo.

    La conferma delle parole di William la ebbe pochi minuti dopo, entrando nel salotto giallo, quello in cui la famiglia trascorreva gran parte della giornata.

    Accovacciata in uno dei bovindi delle quattro finestre che davano sul giardino c’era proprio lei, Emma.

    Indossava un abito di mussola azzurro pallido molto semplice che le segnava senza equivoci fianchi e seno. Percival era certo che quei due particolari (fianchi e seno) fossero sopraggiunti solo molto di recente e a sua insaputa, come se avessero atteso che lui si voltasse dall’altra parte per manifestarsi. Emma era alta, flessuosa, bella. Splendente, anzi.

    I riccioli neri erano trattenuti in modo un po’ arruffato sulla nuca, lasciando scoperto il collo lungo e sottile. Il viso era assorto nell’osservare il contenuto di un piccolo cesto di vimini che teneva in grembo, ciglia lunghissime le ombreggiavano gli zigomi rosei.

    «Ah, siete voi» disse la ragazza senza nemmeno sollevare lo sguardo. «Lizzie era tutta eccitata dai vostri complimenti.»

    «Buongiorno, Miss Emma» la salutò lui, ricordandole le buone maniere. Non si vedevano dall’estate precedente e lei lo aveva accolto come se venisse dalla stanza accanto.

    «Buongiorno, Vostra Grazia» si corresse la fanciulla con tono condiscendente. A quel punto si degnò anche di guardarlo, trafiggendolo con quegli occhi del colore di un oceano in tempesta. Percival ricordava quella tonalità di verde, ma non il taglio da gatta. Una donna perbene non poteva avere occhi simili.

    «Vi presento Percival II, il mio nuovo cagnolino» aggiunse la ragazza, interrompendo le sue elucubrazioni.

    Il duca si accigliò.

    Fin da piccola, Emma aveva avuto un orribile cane chiamato Percival, una faccenda alquanto fastidiosa, ma il quadrupede era stato adottato prima che il duca conoscesse la bambina, per cui si era rassegnato a condividere l’omonimia con quella deprecabile bestia. Tra sé si era sempre chiesto perché sua sorella non avesse impedito a Emma di chiamare il cane in quel modo, anche se di fatto non aveva mai desiderato conoscere la risposta.

    «Molto originale» commentò, piccato.

    «Adoravo il primo Percival.»

    «È forse morto? Era l’animale più brutto che avessi mai visto.»

    «È mancato alcuni mesi fa. Lui vi adorava.»

    «Uno dei tanti amori non corrisposti» convenne il duca.

    Ecco, ora Emma sorrideva.

    Il suo sorriso, la dentatura candida e perfetta, erano qualcosa che non avrebbe dovuto esistere in natura, questo per preservare l’equilibrio fisico del genere maschile.

    Si poteva impedirle di sorridere? Se sì, come?

    «Questo qui è piuttosto malconcio» osservò Emma, cambiando discorso.

    «Lo vedo. A occhio direi che è addirittura più brutto del suo predecessore.»

    «Solo perché è l’ottavo della cucciolata.»

    In effetti, l’informe ammasso di peli grigi era di una bruttezza fenomenale: il canide aveva occhi gonfi, asimmetrici e chiusi, orecchie schiacciate, muso poco promettente.

    «C’era proprio bisogno di chiamarlo Percival di nuovo?»

    «Ridotto com’è gli occorre un nome altisonante, il nome di un eroe.»

    «Sono lusingato che pensiate a me in questi termini, ma...»

    «Non pensavo a voi, ma all’altro Percival, il mio defunto cane...»

    Emma si fermò un istante.

    «Da quando mi date del voi?» chiese, un sorriso coraggioso stampato sulle labbra.

    «Da ora» rispose Clarendon senza sorridere.

    Emma si accigliò.

    Sì, le cose erano cambiate e lei non aveva voluto capirlo.

    Avevano passato un confine, nessuno aveva chiesto loro i passaporti, ma erano dall’altra parte dell’infanzia, oltre il cameratismo di cui avevano goduto a lungo e in modo inconsapevole.

    Forse lui avrebbe potuto essere più lungimirante.

    Ed eccoli, atterrati insieme e in quel preciso istante sulla consapevolezza, scomoda e insidiosa, che Emma non era più una bambina.

    «Oh, eccovi, finalmente!»

    La voce di Caroline infranse l’attimo.

    Clarendon non vedeva la sorella da un anno e, osservandola in piedi nel vano della porta, non poté fare a meno di notare che era incinta. Di nuovo.

    I duchi di Rothsay non avevano perso la bizzarra abitudine di figliare come contadini.

    Secondo Percival Webster duca di Clarendon, un Pari del Regno avrebbe dovuto limitarsi a produrre un erede e, per prudenza, un altro maschio di scorta. Rothsay e Caroline avevano avuto William e Albert in rapida successione; già Lizzie era superflua, quest’altro, poi, era uno spreco. C’era da sospettare che provassero gusto ad accoppiarsi. Che volgarità!

    «Ciao, Caroline» la salutò Clarendon, senza riuscire a celare il proprio disappunto.

    «Finalmente sei qui, non riuscivamo più a trattenere i bambini» rispose la sorella, andandogli incontro e baciandolo sulla guancia.

    «Vi lascio soli» si congedò Emma, alzandosi e stringendo a sé il cestino con il nuovo Percival. «Come state oggi?» aggiunse, rivolta a Caroline.

    «Molto bene. Niente nausea. Sto proprio bene.»

    La ragazza si sporse a baciare la matrigna. «Riguardatevi» disse e poi uscì dalla stanza.

    Capitolo 2

    Emma

    Percival tenne d’occhio la porta fino a che Emma non fu scomparsa.

    «Oh Percy, ci sei mancato moltissimo. L’idea che non passassi l’estate con noi è stata devastante per i bambini. Lizzie era inconsolabile!» Sua sorella lo richiamò alla realtà.

    «Ho passato l’estate nel Sussex, ospite del visconte di Cadwell. Ho intenzione di chiedere la mano di Lady Albertina.»

    Il duca tendeva ad andare dritto al punto, soprattutto quando la questione era delicata e di cruciale importanza.

    «Una scelta imprevedibile» commentò la sorella, accomodandosi su uno dei sofà e invitando il fratello a fare altrettanto. «Ho chiesto di portare il tè per noi due soli, James rientrerà molto tardi ed Emma è tutta presa dal suo cucciolo...»

    «Perché imprevedibile?» domandò il duca, leggermente contrariato.

    «Non mi pare che Lady Albertina spicchi in modo particolare.»

    «Una duchessa non deve spiccare da nessuna parte.»

    «Non è una bellezza, se non ricordo male.»

    «No, infatti.» La futura duchessa era decisamente bruttina, non come il cane di Emma, ma non possedeva alcuna forma di avvenenza. «Non credevo che ritenessi la bellezza una caratteristica indispensabile.»

    «Io no, Percy, ma non ti ho mai visto guardare una donna meno che affascinante.»

    «Non sposo Lady Albertina per guardarla.»

    «E cosa pensi di farci?»

    «Non discuterò con te della cosa! Anche se sei… ehm… in una situazione particolare, questo non è un argomento adatto alle orecchie di una signora.»

    Caroline non mollò la presa, deviò solo leggermente l’argomento. «Credo di averle parlato due volte al massimo, ricordo una ragazza saccente e banale. Non molto intelligente, sospetto.»

    Nel frattempo, una domestica silenziosa aveva introdotto un vassoio con il tè e la duchessa ora stava porgendone una tazza al fratello.

    «Sono abbastanza intelligente io per entrambi» puntualizzò Percival.

    Caroline sbatté le palpebre perplessa. «Non vedo come si possa essere intelligenti per conto di qualcun altro.»

    «Intendo dire che non avremo figli idioti. Sono intellettualmente dotato per cui posso permettermi di sposare una donna non esattamente brillante.»

    Caroline trattenne una risata. Il fatto di avere tre anni in più l’aveva sempre fatta sentire superiore e questo dava ancora sui nervi a Percival.

    «Credo che sarà alquanto noioso essere sposato con una donna poco comunicativa che non condivide nessuno dei tuoi interessi» provò a dire la duchessa in tono diplomatico.

    «Non ho mai ambito a tirare di scherma con mia moglie.»

    «Per uno che si vanta di essere brillante, Percy, sei piuttosto ottuso.»

    Il duca sorbì il tè senza replicare. Gli avevano inculcato di non mancare di rispetto alle signore e inoltre voleva troppo bene a Caroline per dirle tutto quello che pensava, ovvero che non c’era bisogno di provare per la propria duchessa tutto l’interesse che Rothsay provava per lei, costringendola a sfornare figli come se fosse la moglie di un bracciante.

    «Ho cambiato idea riguardo al matrimonio, Percy.»

    «Ho visto» commentò lui.

    «So che non mi crederesti mai, ma ti assicuro che un’intesa intellettuale è molto corroborante tra marito e moglie.»

    «Caroline, ci tengo a informarti che non intendo darti man forte nel ripopolare le campagne inglesi.»

    La duchessa scoppiò a ridere così forte che dovette posare la tazza sul vassoio per non rovesciare il tè.

    «Sono ottimista, Percy. Ho ben presente che razza di scavezzacollo eri da bambino, quella parte di te non può essere scomparsa. Verrà fuori a tempo debito, ne sono sicura.»

    «Ho un programma a lungo termine abbastanza semplice: farò ad Albertina la mia proposta, che lei accetterà sicuramente; quindi ci fidanzeremo, ci sposeremo verso Natale e poi farò in modo di procurarmi un erede o due. Fine.» Nel dire ciò spostò dalla stoffa della manica della giacca un invisibile granello di polvere.

    «Mio caro, le cose non vanno mai come ce le aspettiamo.»

    Percival alzò le sopracciglia, seccato.

    Le cose si rovesciavano per quelli che non erano abbastanza furbi e attenti da attenersi scrupolosamente all’etichetta e ai piani prestabiliti. Caroline ne era la prova vivente: fino a che si era comportata secondo le regole, la sua vita non aveva avuto né sorprese né scossoni; era stato quando aveva cominciato a piegare le norme sociali, che la sua famiglia era stata investita da una bufera che ancora non si era placata. Percival non prese in considerazione quanto fosse stata depressa prima e straordinariamente felice dopo. Lui stesso godeva, di riflesso, dell’euforia e dell’eccentrica soavità con cui si conducevano i duchi di Rothsay, tuttavia si dichiarava fermamente convinto a non imitarli.

    Il matrimonio di James e Caroline era iniziato come la maggior parte dei matrimoni del Ton, ovvero come un accordo di convenienza, salvo poi precipitare irrimediabilmente quando Caroline aveva scoperto che James aveva una figlia illegittima e che la madre della piccola era morta dando alla luce un secondo bambino. Sconvolta all’idea che la bambina crescesse da sola, l’aveva presa in casa con loro e l’aveva allevata come una figlia in tutto e per tutto uguale agli altri bambini che poi erano nati. E continuavano a nascere.

    «Questa liberalità, Caroline, è alquanto pericolosa» osservò Percival, con l’intento di cambiare argomento. «Mi ha detto Will che vorresti portare Emma a Londra per la stagione.»

    «Sì, è vero. Ma più che portarla, sarò costretta a mandarcela... James non mi permette di viaggiare in queste condizioni.»

    «E con chi la manderesti, scusa!?»

    «Ho scritto a zia Augusta. Verrà a prenderla, l’aspettiamo a giorni.»

    «E tu affideresti Emma a zia Augusta?»

    «Zia Augusta è la persona più indicata per gestire il suo debutto.»

    «Zia Augusta ha quasi sessant’anni, ha un senso del pudore poco convenzionale e sarebbe capace di permetterle di... no! Zia Augusta non va bene!»

    «Percy sei peggio di una governante!» ridacchiò Caroline.

    «Quello che non capisco è perché non possa restarsene qui con i suoi orribili cani.»

    «Perché ha diciotto anni.»

    «E allora? C’è una legge che vieta alle persone di vivere nel Devon dopo i diciotto anni?»

    Che Caroline fosse sconsiderata cominciava ad accettarlo, si disse Percival, ma doversi abituare al fatto che fosse anche ottusa, be’, quello era troppo!

    «Oh, Percy, tu non puoi capire! Ha ricevuto una proposta di matrimonio da Lukas Halifax e l’ha rifiutato.»

    «So anche questo.»

    «Sono amici fin dall’infanzia... restare qui è troppo penoso per lei, senza contare che Lukas è abbastanza distrutto.»

    «Perché non se ne va lui, allora?»

    Halifax poteva anche impiccarsi!

    Rifiutarlo era stata una buona idea, uno che pensava solo a pescare non poteva essere un buon marito.

    E poi Emma era brillante, era la sola persona con cui lui provasse un po’ di divertimento a giocare a scacchi, pertanto non si poteva farla sposare con uno che si esaltava disquisendo di esche.

    Non si poteva dimenticare il particolare che era illegittima e che pertanto sarebbe stato assai difficile farla sposare in modo adeguato: quelli al suo livello, i nobili, non l’avrebbero voluta e gli altri erano del tutto inadatti. Inadeguati. Gente troppo rozza per una fanciulla come lei. Questo almeno era ciò che pensava Sua Grazia il duca di Clarendon.

    «Perdonami, Caroline» disse, alzandosi. In genere non era mai così villano, ma i progetti che sua sorella aveva per Emma erano a dir poco allarmanti. «A Londra sarà sbranata. Sai bene come vanno le cose.»

    «Oh Percy, lo so. Ma tu non conosci Emma, lei è così al di sopra di...»

    «È la bastarda di Rothsay!» esplose il duca. «Questo non lo cambierete né tu né la tua anarchia, Caro!»

    Non la chiamava Caro da quando aveva dieci anni, quel nome era emerso da un passato lontanissimo che faceva capolino come una crepa in un vaso Ming. «La faranno a pezzi, i libertini le daranno la caccia come cani... È ciò che vuoi per lei?»

    «Certo che no!»

    «Di certo alcune famiglie non la riceveranno, già questo la renderà agli occhi di molti poco meglio di una sgualdrina.»

    Nel parlare in modo così concitato, Clarendon non si era accorto che sulla soglia era comparso suo cognato, il duca di Rothsay.

    «Salve, Clarendon» lo salutò con voce gelida quest’ultimo. Forse essere entrato quando l’altro stava paragonando sua figlia a una sgualdrina non avrebbe giovato ai loro rapporti... che non erano tesi, ma nemmeno idilliaci.

    «Rothsay» rispose l’altro.

    «Percy mi stava dicendo come vede il debutto di Emma...» cercò di spiegare Caroline.

    «Non capisco cosa abbia a che fare tuo fratello con il debutto di mia figlia.»

    «Sta dicendo che secondo lui Emma non sarà accolta con...»

    «Soprattutto se non ci sarete voi» insisté Percival. Aveva smesso da un pezzo di avere soggezione di Rothsay e riguardo alla questione di Emma era deciso a far aprire gli occhi a quei due romantici sprovveduti.

    «Caroline non si muoverà da qui» sentenziò Rothsay. Tanto liberale poi non lo era. «E non affronterà viaggi in carrozza lunghi e stancanti.»

    «Se volete introdurre Emma in società, se proprio è inevitabile» provò di nuovo Clarendon, «potreste mandarla a Bath. La città è piccola e frequentata in modo più cordiale

    «Emma è stata allevata da vostra sorella come una vera signora.»

    «Ma è figlia della vostra amante.»

    Era evidente che Rothsay si stava innervosendo, ma a Percival non importava granché, stava scoprendo in quel momento che evitare umiliazioni a Emma sbaragliava tutto e tutti, diventando una priorità assoluta.

    Capitolo 3

    Giocando a scacchi.

    Si avvertiva una strana tensione anche dopo cena, nonostante la presenza dei bambini.

    Un’altra stravaganza della sorella, si disse Clarendon. I figli avrebbero dovuto cenare con la governante e andare a dormire prima del pasto dei genitori. Che anarchia!

    Caroline stava leggendo seduta accanto al marito, il quale fingeva di essere immerso nel Morning Post con le ultime notizie da Parigi sull’incoronazione di Luigi Filippo. Lizzie cercava di nutrire Percival II introducendo piccoli sorsi di latte nella sua bocca con un contagocce, mentre i suoi due fratelli maggiori studiavano una mappa che nascondeva un presunto tesoro sepolto nella baia di Babbacombe.

    Emma e Percival erano immersi in una partita di scacchi.

    L’avevano cominciata l’estate precedente, ma non erano riusciti a finirla (erano entrambi troppo abili perché la partita si esaurisse in poche ore). Si erano scambiati qualche mossa attraverso le sporadiche lettere che Clarendon inviava alla sorella, ma giocare testa a testa era un’altra cosa. Quando Percival era partito, Emma aveva riposto la scacchiera in un armadio, aggiornando le mosse ogni volta che lui ne inviava una e accludendo la propria nelle lettere in partenza. Il fatto che da qualche parte nella casa londinese di Clarendon ci fosse una scacchiera con la stessa partita a Emma dava le vertigini.

    E ora erano seduti uno di fronte all’altra, assorti come duellanti.

    Emma studiava la tavola di legno come un generale il campo di battaglia, valutava mosse e contromosse, immaginava i pezzi cambiare posizione, l’avanzamento dei suoi, lo scacco matto finale.

    E mentre si lambiccava il cervello nel tentativo di sconfiggere l’imbattibile duca di Clarendon, una serie di riccioli neri le accarezzavano il collo... e lei ci giochicchiava con le dita affusolate, che poi vagabondavano sulla scacchiera.

    Negli ultimi tre anni, lo aveva battuto solo due volte. Prima di allora, mai. Lui le aveva insegnato con pazienza fin da piccina, le aveva svelato i trucchi, le strategie, le aveva spiegato quando sacrificare i pezzi e come prevedere le mosse dell’avversario, le aveva permesso di entrare nella sua mente ordinata, aprirne i cassetti e sbirciare dove nessuno mai aveva avuto accesso. E poi l’aveva sfidata da pari a pari, assicurandole che se avesse vinto sarebbe stata una vittoria vera e non una concessione.

    «Smettetela di toccarvi i capelli» la rimproverò sottovoce.

    In genere non parlavano mai.

    Se la partita era una vera partita, e non una lezione, non erano ammessi commenti di nessun genere.

    Emma abbassò di scatto la mano e sollevò gli occhi su di lui.

    Oddio se lo

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