Sospetti maestri
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Anteprima del libro
Sospetti maestri - Alessandro Bozzi
Sospetti maestri
Alessandro Bozzi
Alessandro Bozzi
Sospetti maestri
©Musicaos Editore, 2021
Agosto 2021 | Le Citrine, 7
©Musicaos Editore, 2021
Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)
Tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org
I personaggi e i fatti descritti nel romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti e a persone reali è puramente casuale.
Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta su alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore.
Progetto grafico
Bookground
Illustrazione di copertina
Man © Andrea Crisante
Dreamstime.com | 111922267
Foto dell’autore
Veronica Brovedani | www.veronicabrovedani.it
Isbn versione cartacea 979-12-80202-253
Isbn versione digitale 979-12-80202-284
Alessandro Bozzi
Sospetti maestri
Con una postfazione di
Fabio Gabrielli
Ai miei nipotini Olivia ed Edoardo,
piccoli ma fulgidi astri che costellano
il firmamento del mio cuore,
al mio caro zio Ronzo
,
che quel cielo l’ha voluto
raggiungere troppo presto,
e alla mia amata Eleonora,
a papà Mario e mamma Daniela,
i raggi di sole che diradano le nubi della mia vita.
SOSPETTI MAESTRI
1. Il passato ritorna
Salento, giugno 2020
Il rintocco della campana di una chiesa barocca poco distante da Piazza Sant’Oronzo, nel cuore della città di Lecce, mi destò dalla monotonia, ancorché zelante e operosa, dello studio legale.
Si erano ormai fatte le sei di sera e sul capoluogo salentino stava per prendere forma il consueto e meraviglioso caleidoscopio di colori del tramonto.
Gli ultimi raggi di sole si riflettevano sulla pietra rustica e sugli ornamenti barocchi del centro storico, conferendo all’intera città un bagliore che la rendeva ancora più luminosa e affascinante.
Ho sempre adorato le luci del crepuscolo, che ammiravo estasiato sia tra i vigneti del Friuli Venezia Giulia prima che in riva al mare a Sud Est poi.
Da quando mi ero trasferito in terra salentina, però, quella di assaporare ogni singola tonalità di quello strabiliante spettacolo di colori era divenuta quasi un’esigenza irrinunciabile.
Spinto da questa necessità, una volta predisposte le incombenze per la giornata successiva e ultimato il consueto briefing con il titolare dello studio, l’avv. Lizzi, potevo finalmente prendere la macchina, imboccare la litoranea in direzione di Otranto e godere appieno di quello spettacolo mozzafiato.
Il venerdì, poi, quel tragitto risultava ancora più piacevole, perché finalmente le scorie della settimana lavorativa potevano lasciare spazio alla spensieratezza del week end, da trascorrere in compagnia della mia adorata compagna Ginevra e del piccolo Leonardo, il figlio che sognavo di avere da sempre e che, per una straordinaria concatenazione di eventi, era entrato a far parte della mia vita in modo inaspettato e provvidenziale ad un tempo.
Anche Ginevra, che non era la sua madre naturale, l’aveva amato dal primo istante in cui il bambino aveva varcato la soglia di casa nostra, dedicandogli subito le attenzioni di cui aveva bisogno.
Ma non ne fui troppo sorpreso.
Ginevra, infatti, oltre ad avere uno spiccato istinto materno, era dotata di un animo generoso e molto sensibile.
Non fu, pertanto, difficile accogliere quel bimbo piovuto dal cielo e accudirlo come fosse suo, specie per le condizioni di salute di Leonardo, che necessitavano di una costante e minuziosa dedizione.
Il bambino soffriva della sindrome dello spettro autistico e presentava sintomi di aritmia cardiaca, seppur sempre meno frequenti.
A Ginevra era stato riferito che, a seguito delle violenze subite in età adolescenziale, sarebbe stato molto difficile che potesse rimanere incinta, quel bambino piombato nella nostra vita rappresentava un’insperata ed imperdibile occasione per donare a un figlio il suo affetto di madre.
Di fronte ad un simile dono di Dio, persino i trattamenti farmacologici e terapeutici ai quali doveva costantemente essere sottoposto il bambino erano divenuti una preoccupazione effimera, che quasi passava in secondo piano.
D’altronde, non esiste medicina migliore al mondo dell’amore e dell’affetto di una famiglia, e Leonardo ora finalmente ne avrebbe potuto godere appieno.
Il calore di quel venerdì era particolarmente provvidenziale, perché sarebbe stato il confortevole epilogo di una settimana molto estenuante a livello lavorativo.
Pochi giorni prima, infatti, la Corte di Assise di Lecce aveva emesso una sentenza di condanna a carico di Antonio Colaci, uno dei clienti più rinomati dello studio legale con il quale collaboravo.
Una di quelle condanne che ti restano addosso per tutta la vita, come un’onta difficile da lavare e che forse nemmeno il trascorrere del tempo avrebbe potuto lenire fino in fondo.
I reati contestati al Colaci erano stalking e omicidio aggravato.
Il nostro assistito, infatti, era stato processato e ritenuto colpevole della brutale uccisione della ex moglie, rea di avergli sottratto giudizialmente l’affidamento del figlio, il piccolo Christian, di soli cinque anni.
Moglie che – stando alla ricostruzione fatta dal Pubblico Ministero che aveva richiesto la pena dell’ergastolo – sarebbe stata perseguitata e molestata per giorni, sino all’epilogo nefasto, il brutale femminicidio.
La vittima era stata rinvenuta nella sua abitazione, riversa nel suo stesso sangue e con la carotide recisa da un fendente che l’aveva dissanguata e uccisa in pochi istanti.
Un caso, quello di Colaci, che aveva scosso l’opinione pubblica ed era finito su tutte le testate giornalistiche, locali e nazionali.
Persino la troupe di Ultimo Grado
, la trasmissione dove i delitti venivano sviscerati in un salotto televisivo costellato di psicologi forensi e criminologi, era venuta a farci visita in studio per catturare qualche esclusiva sul delitto o, magari, sulla vita privata dell’imputato.
Ma né io né Lizzi – l’avvocato titolare dello studio nonché mio co-difensore in quell’intricato processo – avevamo permesso che la verità processuale potesse diventare materia per uno scoop giornalistico di basso profilo.
Del resto, come diceva sempre il mio maestro ai tempi della pratica forense, l’avvocato Lodi, i processi devono essere celebrati in aula, e non sotto la luce dei riflettori e delle telecamere.
Perché solo gettando il cuore oltre l’ostacolo nell’aula d’udienza si poteva guadagnare la stima e il rispetto dei nostri assistiti, non certo facendo i fenomeni da circo in televisione.
Per istruire quel processo, infatti, ci eravamo prodigati per mesi, anche perché l’impianto accusatorio non si presentava affatto privo di lacune.
Innanzitutto, l’arma del delitto non fu mai trovata.
Il solco lasciato sul collo della vittima, infatti, non era compatibile con nessuno dei coltelli rinvenuti sia in casa della donna che in quella del suo presunto assassino.
E nemmeno le indagini scientifiche svolte sugli schizzi di sangue e le impronte rinvenute sulla scena del crimine e sui vestiti dell’imputato sembravano collocare, al di là di ogni ragionevole dubbio
, Antonio Colaci sul luogo del delitto al momento della commissione dello stesso.
Tutto faceva pensare, piuttosto, che egli fosse intervenuto sulla scena del crimine solo in un secondo momento, con la vittima già esanime.
Fu infatti lui stesso a dare l’allarme, una volta rinvenuto il cadavere.
Per l’accusa, invece, quel comportamento era atto soltanto a sviare le indagini.
Colaci, secondo gli inquirenti, avrebbe agito con l’intenzione, lucida e premeditata, di intralciare le indagini e fugare ogni dubbio circa un suo coinvolgimento nel delitto.
Al contrario, per la Procura lui voleva dare l’immagine dell’ex coniuge che, seppur mosso da un sentimento di rancore verso la moglie, si era prodigato per denunciare il ritrovamento del cadavere e dare subito impulso alla ricerca del vero colpevole.
Ma si sarebbe trattato di un mero escamotage per guadagnarsi l’impunità, inidoneo a nascondere il forte movente omicida del nostro assistito, che per mesi aveva inviato messaggi dal tenore minaccioso e molesto alla ex coniuge.
C’era poco da fare, per il Pubblico Ministero, il disegno omicida dell’imputato era chiaro e ben delineato in ogni più minuzioso dettaglio.
Sia Lizzi che io, tuttavia, eravamo di parere diametralmente opposto.
La nostra difesa, per tutto l’arco del processo, fu imperniata sul tentativo di derubricare il capo d’imputazione al mero reato di stalking, cercando di escludere l’omicidio aggravato.
In fin dei conti, era circostanza provata e suffragata dai tabulati telefonici il numero cospicuo di chiamate ed sms inviati alla vittima dal nostro assistito.
Ma un conto sarebbe stata una condanna per il solo reato ex art. 612 bis c.p., che regolava i cosiddetti atti persecutori
, ben altro, invece, una condanna all’ergastolo per omicidio ai sensi dell’art. 576 c. 1 c.p., ovvero sia con il concorso di circostanze aggravanti
.
Nondimeno, nonostante gli sforzi profusi e un’arringa di quasi due ore tenuta da entrambi i difensori, ad Antonio Colaci fu ascritto il reato più grave, l’omicidio aggravato.
Certo, restavano altri due gradi di giudizio dove avremmo sicuramente dato battaglia, ma intanto il nostro assistito sarebbe rimasto in carcere.
I Giudici infatti, ravvisando la pericolosità sociale dell’imputato e il rischio che potesse darsi alla fuga, avevano confermato la misura cautelare della detenzione in carcere.
Per un sinistro scherzo del destino, la struttura penitenziaria era la stessa in cui stava scontando analoga pena anche Vito, il patrigno di Leonardo.
Vito, mio amico d’infanzia e condannato alla pena dell’ergastolo per omicidio, era infatti detenuto presso la casa circondariale di Taranto.
Quando andavo a fare i colloqui con il mio assistito, spesso le guardie penitenziarie mi fermavano per dirmi che Vito avrebbe voluto incontrarmi.
In cuor mio, conoscevo bene le intenzioni sottese a quel desiderio di incontrarmi.
Verosimilmente, un rimorso di coscienza che lo attanagliava ormai da mesi.
Eppure, io non ero ancora pronto per perdonarlo.
Mi aveva mentito per anni, privandomi di una verità che mi avrebbe permesso di prendermi cura di Leonardo ben prima che la sanguinosa morte della madre lo facesse diventare un orfanello in balìa del proprio destino.
Ma in tutti quei mesi, la sola cosa che mi interessava era restituire giustizia a Colaci, che rischiava di non rivedere il suo di figlio per chissà quanto tempo.
La riconferma della sentenza di condanna anche nei successivi gradi di giudizio, infatti, avrebbe precluso, per sempre, la possibilità di riottenere l’affidamento del piccolo Christian.
Il quale, peraltro, con la madre assassinata e il padre in carcere, sarebbe stato affidato agli assistenti sociali con chissà quale futuro che gli si sarebbe prospettato di lì in avanti.
Purtroppo, però, Antonio Colaci alla giustizia non ci credeva più e dinanzi alla prospettiva di non poter più riabbracciare suo figlio, aveva deciso di farla finita.
Lo ritrovarono, senza vita, la mattina successiva alla lettura della sentenza di condanna, impiccato alle sbarre della finestra della sua cella, con il lenzuolo della brandina stretto intorno alla regione cervicale e parte del corpo che poggiava al suolo.
Quello che i criminologi erano soliti definire un impiccamento incompleto atipico
.
Una morte teatrale e drammatica allo stesso tempo.
Era il suo modo per farci capire che, senza suo figlio, nulla avrebbe avuto più senso.
Inutile dire che quel suicidio gettò nello sconforto l’intero studio legale, cui spettava l’ingrato compito di assistere alle formalità per il recupero della salma, e, compito ben più gravoso, darne notizia ai parenti.
Fui io stesso ad avvisare la madre, nonché nonna del piccolo Christian.
Non scorderò mai le urla strazianti di quella povera donna, che aveva appena perso l’amato figlio e, quel che è peggio, senza avere la certezza che fosse davvero colpevole.
In cuor suo, lei non aveva mai dubitato dell’innocenza del figlio.
Come noi, del resto.
Ma dopo quel gesto estremo, i dubbi su quel delitto