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Cortocircuito: per Alfredo "Fred" Sonetto, Agenzia Investigativa Sabato
Cortocircuito: per Alfredo "Fred" Sonetto, Agenzia Investigativa Sabato
Cortocircuito: per Alfredo "Fred" Sonetto, Agenzia Investigativa Sabato
E-book382 pagine4 ore

Cortocircuito: per Alfredo "Fred" Sonetto, Agenzia Investigativa Sabato

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Info su questo ebook

Alfredo ‘Fred’ Sonetto lo sa bene, essere un investigatore privato in Italia non è poi questa gran cosa. Interminabili serate a spiare mogli e mariti infedeli, appostamenti in squallidi motel e pedinamenti per i peggiori locali della città. Un lavoro ancora meno divertente se alle dipendenze di Guglielmo Sabato, burbero titolare dell’omonima agenzia investigativa e se per colleghi si hanno un taciturno sociopatico, grosso come un armadio e una bellissima ex escort pronta a flirtare con chiunque, tranne che con lui.
E poi diciamola tutta, Fred non è neppure un granché come detective!Per questa sua consapevolezza è certo di non avere nessuna possibilità di rintracciare la  figlia sciroccata di una ricca famiglia borghese, ultimo cliente dell’Agenzia Sabato. Così ha una grande idea: farsi aiutare nelle ricerche da una giovane ladra calva, che  non disdegna lo spaccio di metanfetamine e che ha pure truffato due violenti spacciatori, che si aggirano armati tra i vicoli di Genova in cerca di vendetta.
Un’intuizione geniale! Cosa potrà mai succedere di tremendo?
Sarà solo uno dei tanti errori che condurranno il povero Sonetto a ritrovarsi suo malgrado alle prese con un efferato omicidio, un paio di cadaveri, fratture multiple, vecchi film pornografici amatoriali, auto sfasciate, registi letteralmente a pezzi, spacciatori, mariti infedeli, vicini impiccioni, insopportabili coinquiline  e molti altri orrori!Insieme a Fred tornano tutti i protagonisti di cRimini con la stessa voglia e determinazione di vivere la vita come se fosse un film d’azione. Una sarabanda continua senza un attimo di tregua … ma con un protagonista decisamente fuori ruolo!
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2022
ISBN9788868104894
Cortocircuito: per Alfredo "Fred" Sonetto, Agenzia Investigativa Sabato

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    Anteprima del libro

    Cortocircuito - Davide Bressanin

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    Davide Bressanin

    CORTOCIRCUITO

    per Alfredo Fred Sonetto

    Agenzia Investigativa Sabato

    Prima Edizione Ebook 2022 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104894

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    catalogo su

    www.librisumisura.com

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    Davide Bressanin

    CORTOCIRCUITO

    per Alfredo Fred Sonetto

    Agenzia Investigativa Sabato

    Romanzo

    img2.png

    INDICE

    0. Intro

     PRIMO TEMPO

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7.

    8.

    9.

    10.

     SECONDO TEMPO

    11.

    12.

    13.

    14.

    15.

    16.

    17.

    18.

    19.

    20.

    21.

    22.

    23.

    24.

    25.

    26.

    27.

    28.

    TITOLI DI CODA

    POST CREDITI

    RINGRAZIAMENTI

    NOTA

    L’AUTORE

    CATALOGO

    A nonno Germano

    "Come il cielo impassibile"

    (Marlene Kuntz)

    "Il cinema è la vita.

    Con le parti noiose tagliate"

    (Alfred Hitchcok)

    "Voglio che ricordi, Clark,

    negli anni che verranno

    nei tuoi momenti più intimi

    l’unico uomo che ti ha battuto!"

    (Batman)

    0. Intro

    "Il crimine è una cosa comune.

    La logica è rara.

    Tuttavia è sulla logica che si dovrebbe insistere."

    Tranquilli, non l’ho detta io questa cosa qui.

    Non sono diventato intelligente così, all’improvviso.

    No, tranquilli.

    E neppure Guglielmo l’ha detta.

    L’ha rubata.

    C’è una bella differenza tra ideare una frase e citarla a caso nel bel mezzo di una discussione.

    Il sottoscritto e anche Guglielmo, Jody, Cinzia e perfino Lorenzo, le poche volte che apre bocca, apparteniamo a quelli che rubano le frasi.

    Il mondo si divide in due, quelli che citano e quelli che non citano.

    Appunto.

    La prima volta che l’ho incontrato.

    Ecco quando l’ha detta, Guglielmo.

    Il giorno in cui mi ha assunto all’Agenzia Investigativa Guglielmo Sabato mi ha detto questa cosa, tutto tronfio come se declamasse un verso della Divina Commedia.

    Anni dopo ho scoperto che è una frase del padre di Sherlock Holmes, scritta da Sir Arthur Conan Doyle in persona.

    Ora, diciamo pure la verità, non è che tutto nella vita ha una logica. E comunque a cosa poteva servirmi per il lavoro per cui sono stato assunto?

    Devo fotografare mogli e mariti infedeli, tutto qui.

    La logica? Bah!

    Non siamo sopra un treno che segue due binari paralleli e ci porta semplicemente da una stazione all’altra.

    No, è tutto dannatamente più complicato nella vita.

    Ci sono fatti, avvenimenti che una logica non ce l’hanno.

    Si può avere un’intuizione, quello sì, ma seguirne la logica è tutta un’altra faccenda.

    Pensare che nella vita tutti i tasselli siano al posto giusto, che alla fine come in un enorme puzzle ogni pezzo combaci perfettamente è pura follia.

    Rassegnamoci, qualcosa che non torna ci sarà sempre.

    A volte ostinarci a trovare una logica porta solo danni.

    Lo so, vi ho confuso le idee.

    Scusate ma è così anche per me.

    Probabilmente non dovrei neppure essere io a raccontare questa storia, non so da che parte iniziare e dove e quando farla finire.

    Be’, ha poca importanza ormai, intanto tra poco sarò morto, quindi...

    Ma proprio come nei film quando i titoli di coda incombono sul groppone dell’eroe, davanti agli occhi del protagonista corre tutta la sua esistenza e lui ha l’intuizione finale, la morale dell’intera pellicola.

    Eppure, nonostante ciò, non ho nessuna frase illuminante, nessuna verità da lasciare alle future generazioni.

    L’unica cosa che sento è la paura di morire, perché a me nonostante a volte sia faticosa piace la mia vita, e sento le lacrime che stanno per riempirmi gli occhi, perché non rivedrò più mia figlia. L’importante, l’unica consolazione di questa faccenda, è che lei non soffrirà più per colpa mia, lei è al sicuro.

    Le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli.

    Ecco, l’ultimo pensiero che attraverserà la mia mente. Accidenti, alla fine devo dare ragione alla mia ex, alla madre di mia figlia.

    Se potessi tornare indietro o almeno se ci fosse un finale a sorpresa come nei film, anche quelli brutti, forse potrei rimediare a tutti i miei sbagli.

    Dubito che funzioni così nella vita vera.

    Questa è una storia complicata, triste, che nasce come una farsa e si trasforma in una tragedia.

    Il fatto terribile è che con ogni probabilità si è trasformata in una tragedia per colpa mia.

    Per tutti i miei sbagli, è proprio così.

    Solo per quelli.

    Vorrei capire almeno come sia stato possibile finire qui, quale sia stato lo snodo cruciale che mi ha portato a tutto questo.

    Legato sopra un divano con un braccio rotto, un taglio sulla fronte, che mi fa colare il sangue davanti agli occhi impedendomi di vedere nitidamente, oltre a questo insopportabile dolore alla schiena.

    E poi questa maledetta musica trap sparata a tutto volume dentro le orecchie, il sangue, le urla e soprattutto il cadavere di spalle adagiato per terra in una posizione innaturale di Guglielmo Sabato, sdraiato, inerme, senza più vita davanti a me.

    Ed è tutta colpa mia.

    E continuo a non capirci niente.

    PRIMO TEMPO

    1.

    Tubthumping (I get knocked down) - Chumbawamba (1997)

    Come lo detesto.

    Non, non, non… non mi vengono neppure le parole per insultarlo come si merita.

    Lo odio.

    Per colpa sua devo passare la notte seduto sopra questa stupida e scomodissima sedia, al buio, dentro la stanza di uno squallido albergo a due stelle nell’attesa che la signora Francia consumi il suo ennesimo rapporto extraconiugale alle spalle del marito.

    — Ma certo che accettiamo il caso.

    Il caso? Ma quale caso? Avrei voluto dirgli. Non siamo in un telefilm degli Ottanta, non sei Tom Selleck, non sei Hannibal Smith e sicuramente io non sono Sberla, che cavolo stai dicendo?

    Qui si tratta di pedinare una moglie infedele e passare la notte a fare "guardianaggio" come i peggiori maniaci sessuali.

    — Abbiamo l’uomo giusto! — aveva aggiunto trionfante Guglielmo, titolare della dannatissima Agenzia Investigativa Sabato, al poveraccio che sedeva affranto di fronte alla scrivania.

    L’uomo giusto ero io.

    Il che avrebbe dovuto insospettire, e non poco, il cliente con gli occhi arrossati da un pianto improvviso, affossato nella poltrona di similpelle nera piazzata davanti alla scrivania in mogano scuro ricoperta di inutili scartoffie.

     —Alfredo Fred Sonetto — come al solito aveva calcato la voce su Fred, il soprannome secondo lui faceva più fico.

    Come se fosse bastato quel Fred per trasformarmi in un duro da letteratura Pulp.

    Ovviamente è una scemenza, una delle tante che escono dalla bocca del mio capo. E di solito non perdo occasione per farglielo notare, ma in quella particolare occasione decisi che era meglio tacere.

    Non tanto per l’occhiataccia che mi aveva scagliato Guglielmo, ma soprattutto per la disastrosa situazione economica in cui ci trovavamo sia io che l’agenzia.

    Non che l’Agenzia Investigativa Sabato avesse mai navigato in floride acque finanziarie, ma alla fine i soldi per l’affitto in un modo o nell’altro erano sempre saltati fuori; ora però eravamo messi proprio male.

    — Quel pezzo di merda di un fottuto nerd con le ciabatte infradito ci ha mandato a puttane gli affari. Lo menano tanto con la piaga del bullismo ma se a scuola gli avessero dato quello che si meritava a quello, quello… sfigato, ora il mondo sarebbe un posto migliore, altroché. Te lo dico io! Se continuiamo così dovremo chiudere — aveva dichiarato solennemente e in barba al politicamente corretto la settimana precedente.

    — Di chi stai parlando Guglielmo? — chiese Jody, il premuroso fidanzato olandese temendo che il suo partner si soffocasse con il boccone di panino al salame che aveva appena azzannato con famelica determinazione.

    — Di quel maledetto Mark Zuckerberg! Da quando ha inventato questa diavoleria nessuno sente più il bisogno di assumere gente come noi! Si trovano tutti con una manciata di click. Si organizzano le maledette rimpatriate di ex compagni di scuola! Solo per questo lo si dovrebbe arrestare.

    — Non è vero, la gente non scrive tutti gli affari suoi su un PC, ti stai sbagliando Guglielmo. Se uno non vuole far sapere una cosa non la scrive certo su Facebook. Non è scemo. — In realtà pensavo avesse ragione lui, e pensavo anche che la percentuale di stupidi che si diverte a condividere pensieri, affari, considerazioni e soprattutto segreti, anche quelli più intimi, con il signor Zuckerberg, fosse incredibilmente alta a questo mondo. Però tutte le volte che Guglielmo dichiarava qualcosa, su qualsiasi argomento, mi sentivo in dovere di affermare l’opposto.

    Ovviamente divenne rosso paonazzo, prima di sbattere il pugno sulla scrivania, mandare all’aria il panino, che non aveva ancora finito di divorare, e sbraitarmi addosso una serie di insulti, alcuni dei quali devo ammettere assai divertenti.

    Per questo motivo l’arrivo del Signor Giovanni Francia fu accolto come una benedizione.

    Per l’occasione srotolammo un bel tappeto rosso e Guglielmo lo accolse come un capo di stato in visita al suo piccolo regno.

    — Mia moglie mi tradisce.

    — Benissimo… — fu l’entusiasta reazione di Guglielmo. Mi bastò alzare un sopracciglio e abbozzare un irritante sorriso per osservare il viso di Guglielmo diventare completamente rosso in meno di 5 secondi. — Mi scusi — si affrettò a dire — mi sono espresso male. Volevo dire che è nel posto giusto. Noi trattiamo quotidianamente questo genere di faccende. Se le cose stanno come lei sospetta lo scopriremo.

    Giovanni Francia mosse la testa impercettibilmente avanti e indietro, in un gesto buffo, che lo faceva assomigliare a una gallina. Ogni singolo gesto doveva costargli fatica, era molto magro e sembrava perdersi dentro quel completo grigio elegante che indossava. I suoi occhi neri sopra un naso pronunciato puntavano un punto ignoto oltre le spalle di Guglielmo.

    — Ehmmm... signor Francia — dissi timidamente per riportarlo alla realtà. Funzionò perché estrasse immediatamente una foto dalla tasca della giacca, posandola sul tavolo.

    — Questa è mia moglie, Valeria.

    Mi bastò guardare la foto per un secondo per capire che sì, il signor Giovanni Francia, ahimè, portava le corna.

    La consorte non c’entrava nulla con lui. Era, come dire, tanta. Era troppa, per lui.

    La donna della foto fissava davanti a sé con l’aria sicura di chi sa il fatto suo.

    Valeria Francia era abituata da sempre a essere al centro dell’attenzione, indossava un vestito rosso aderente con dei tacchi che la facevano arrivare fin quasi a toccare le nuvole, il seno era prosperoso e una spallina del vestito era maliziosamente scivolata giù. Aveva capelli castani lisci e ordinati e la faccia era truccata perfettamente, come se fosse appena uscita da un salone di bellezza, e probabilmente era così.

    Insomma, era più alta del marito, più giovane del marito, più bella del marito e certo, lo so cosa state pensando, che il sottoscritto vive la sua vita seguendo solo sorpassati stereotipi maschilisti ormai datati, ma ciò non toglie che quella donna metteva in testa al marito tante corna quante sono le palline colorate che mia figlia mette sull’albero di Natale.

    Il pover’uomo era entrato per la prima volta dentro l’Agenzia il martedì pomeriggio e la stessa sera ero già operativo alle calcagna della dolce metà.

    — Il martedì si vede sempre con le amiche: Samanta, Mara e Pamela; di solito si prendono un aperitivo in centro, poi magari un cinema, niente di più.

    Come no? Credici Giovanni.

    Queste sono quattro amiche che si vedono il martedì sera e una si chiama pure Samanta come la protagonista ninfomane di Sex and the City, sicuramente vanno al cinema a vedere la retrospettiva di Polansky.

    Credici, Giovanni. Credici.

    Ma non dissi nulla, limitandomi ad annuire interessato.

    E infatti di retrospettive su Polansky nemmeno l’ombra, ma neppure di aperitivi.

    Valeria Francia quella sera indossava un completo blu molto elegante e appena uscita di casa si era infilata nella sua Polo nera. Non era stato difficile seguirla fino al parcheggio di Genova centro, dove aveva mollato l’auto al secondo piano per poi proseguire a piedi fino al piano terra ed entrare in una nuova auto, questa volta una Ford Fiesta bianca, già in attesa con il motore acceso.

    Dentro l’abitacolo si distingueva una figura al volante, un uomo, niente di più. Le due sagome si avvicinarono quel tanto che bastava per baciarsi affettuosamente come una vecchia coppia di amanti prima di sgommare via.

    Cavolo pensai se non mi sbrigo questi mi scappano, quindi girai i tacchi per precipitarmi su per le scale del silos alla ricerca della mia auto. Stranamente la vecchia carcassa della Clio era esattamente lì, nel punto dove mi ricordavo di averla lasciata. Bene, la fortuna è dalla mia parte. Salii a cavalcioni del destriero di metallo come se fossi stato un cowboy nella sterminata prateria del vecchio West e inserita la prima sgommai verso l’uscita.

    Non avevo perso molto tempo, li avrei raggiunti facilmente. Bene, lo dicevo, la fortuna è dalla mia parte.

    Prima curva, seconda curva, piano terra e sbarra d’uscita. Merda! il biglietto.

    Lasciai il motore accesso e mi tuffai fuori dall’abitacolo, questa volta più come un vecchio indiano inseguito dai fottuti cowboy, alla ricerca del chiosco per pagare il ticket.

    — Che diavolo fai, deficiente! Spostala — non mi degnai nemmeno di rispondere alla voce stridula proveniente dalla 105 rossa in fila dietro di me. — Ma guarda questo idiota! — Si trattava sicuramente di una zitella acida, che aveva fatto tardi in ufficio e ora doveva correre a casa per vedere la puntata quotidiana di Un posto al sole.

    Non valeva la pena di farsi distrarre e perdere tempo.

    Per fortuna non c’era coda al chiosco automatico. La fortuna stava nuovamente girando.

    Dove avevo messo il biglietto, però? Mi tastai le tasche della giacca blu. Quante maledette tasche ha questa giacca?

    — Merda! — Era dentro il cruscotto, così corsi all’indietro alla ricerca del biglietto dentro l’auto.

    — Ma sei scemo! Ti diverti? Ho fretta. Ho un appuntamento. Razza di cretino.

    Avrei avuto tanta voglia di urlarle che per chi l’aspettava sarebbe stata una fortuna se non fosse arrivata. Vecchia zitella rompicoglioni. Mi trattenni. L’urgenza non era litigare con quella voce petulante.

    Finalmente infilai il biglietto dentro la cassa automatica.

    2.50.

    — Due euro e cinquanta! Che razza di ladri.

    Infilai tre monete da un euro e senza aspettare il resto schizzai nuovamente alla macchina con il biglietto stretto in mano.

    — Bravo fenomeno! — La zitella era uscita dall’abitacolo e ora era davanti a me.

    — Senti z... — non era affatto una zitella.

    Davanti a me apparve una ragazza in tailleur blu, alta, con i capelli neri che ricadevano perfetti sulle spalle e un viso che ricordava Claudia Cardinale nel Gattopardo e un fisico tipo Kim Basinger in Nove settimane e mezzo. Mi puntò il dito indice contro e dalla sua bocca la cosa più carina che stava uscendo era: — Deficiente! Sbrigati!

    — S... Scusa, scusa, scusa — abbassai il capo e se ne avessi avuto un po’ a portata di mano mi sarei tirato una bella manciata di cenere in testa.

    — Sfigato! — Non replicai.

    Presto, ora dovevo solo fare presto.

    Diedi un’ultima fugace occhiata nello specchietto retrovisore, per dare un’ulteriore sbirciatina all’ex zitella, diventata improvvisamente la donna più bella del mondo, per poi gettarmi all’inseguimento della fedifraga.

    La sbarra si alzò e... e ora dove cavolo erano andati?

    Il senso unico a destra mi dava solo quell’opzione, ma una volta arrivato alla piazza potevo scegliere di proseguire dritto oppure svoltare a destra. Il sedere di una macchina stava andando proprio in quella direzione.

    Aveva senso.

    Le alture della città.

    Quale posto migliore per avere un po’ di intimità?

    Da ragazzo pure io ci andavo, quanti ricordi. Gli anni Novanta, il mangiacassette in auto, la musica punk rock, la camicia larga, i capelli lunghi e Genova illuminata ai tuoi piedi mentre stai baciando la donna della vita in una piazzola isolata dal resto del mondo.

    Questo significava avere vent’anni.

    Non era il momento per perdersi nei ricordi.

    Eccola.

    La Ford bianca era in cima alla ripida salita e sembrava intenzionata a proseguire. Schiacciai sull’acceleratore per avvicinarmi ma non troppo. Ben presto anche le ultime auto sparirono. La strada si trasformò lentamente in una sottile lingua d’asfalto, che tagliava la collina. Rallentai ulteriormente per lasciare alla coppia la sensazione di essere sola.

    Non volevo spaventarli.

    Dovevo lasciarli tranquilli, farli divertire e fotografarli mentre facevano un po’ di ginnastica.

    Facile.

    Guidai ancora per qualche chilometro incrociando solo due vetture occupate da altrettante coppie che se ne ritornavano a casa, ognuno dal rispettivo partner.

    Arrivato in cima alla collina la strada si allargava nuovamente all’improvviso, e gli alberi lasciavano un po’ di posto ad alcune piazzole di servizio, occupate da macchine che oscillavano ritmicamente.

    La terza piazzola era quella giusta. La Ford bianca era parcheggiata sotto un abete e davanti c’era una fitta vegetazione.

    Avanzai di qualche metro, la piazzola successiva era libera. Fermai la vecchia Clio e scesi con la macchina fotografica a tracolla. L’aria era fredda e mi dava fastidio. È vero che per me sotto i venti gradi è pieno inverno, però il vento lassù soffiava un po’ troppo prepotente. Il buio mi avvolse.

    Ero a disagio e sentivo anche un brivido di paura percorrermi la schiena dall’alto al basso. Mi passarono davanti agli occhi tutti i film dell’orrore che avevo visto negli ultimi vent’anni, molti dei quali ambientati in boschi simili: in tutti il protagonista faceva una fine terribile.

    Feci un bel sospiro. Mi tirai su la zip della giacca blu e mi infilai nella vegetazione.

    Che lavoro di merda.

    E infatti la prima cosa che il mio piede incontrò fu proprio una merda di qualche animale.

    Avanzai ancora tenendo in pugno la macchina fotografica. Solo un cespuglio mi separava dalla Ford. Come ero caduto in basso.

    Con la mano sinistra scostai un ramo che pendeva da chissà dove e scattai una foto all’auto.

    Si vedevano nitidamente delle natiche apparire dal finestrino già abbastanza appannato. Se mi fossi avvicinato ancora un poco, avrei immortalato la signora Valeria Francia mentre consumava il suo rapporto extraconiugale dentro un’auto bianca in una piazzola di servizio sulle alture della città.

    Ma sì, mi dissi.

    Avviciniamoci.

    Così domani sera me ne sto comodamente sul divano a guardare la TV invece che seguire questa zoccola nelle sue peripezie sessuali.

    Un passo dopo l’altro.

    Prima uno e poi l’altro.

    Semplice.

    Ancora uno.

    Macchina fotografica.

    Inquadrare e foto.

    Perfetto.

    Avevo inquadrato il volto della donna meravigliosamente.

    Era molto bella.

    Ero soddisfatto del mio scatto, perché ero riuscito a catturare sul viso della donna il brivido lussurioso di chi sta arrivando al culmine del piacere.

    Non c’era dubbio che quello che stava facendo le piacesse anche molto.

    Stava mordendo le sue labbra molto carnose con i denti superiori. Molto carnose.

    Ed era anche molto bionda.

    Molto bionda.

    Con le labbra carnose.

    E bionda.

    Bionda?

    Sarei dovuto andare via in tutti in casi, non era saggio restare piantati in piena notte davanti a una macchina dove si stava consumando un rapporto sessuale. E invece restai lì con la macchina fotografica in mano a fissare quella donna intenta a copulare con chissà chi, chiedendomi chi diavolo fosse.

    Perché evidentemente non era la signora Francia.

    Fu a questo punto che la ragazza bionda mi vide e iniziò comprensibilmente a urlare.

    E fu anche così che feci la conoscenza con Ivan il Vichingo, ex giocatore di Rugby di origini norvegesi, alto quasi due metri e con le braccia della stessa circonferenza del mio torace.

    Decisi di non allungare la mano per presentarmi ma di girare i tacchi per darmela a gambe.

    Fortunatamente Ivan il Vichingo era ancora mezzo nudo, quindi dopo avermi assestato un pugno in pieno volto tentò un accenno di inseguimento poco convinto.

    Per non incentivarlo, però, ritenni più opportuno tuffarmi oltre la siepe che delimitava la piazzola e farmi inghiottire dall’oscurità del bosco.

    — Merda!

    Letteralmente merda.

    Ci scivolai sopra, rotolando per terra per alcuni metri nel buio totale. Restai immobile quasi senza respirare per paura che Ivan il Vichingo si fosse rimesso i pantaloni e l’elmetto con le corna per venirmi a cercare.

    Quando ritornai alla posizione verticale, la prima cosa che notai era che ero ricoperto dalle feci di qualche fottuto animale.

    La puzza era così insopportabile che mi salivano conati di vomito difficili da rimandare indietro.

    Oltretutto ero nel bel mezzo di un bosco nel buio più totale con inquietanti rumori di bestie tutto intorno.

    Queste cose a Philip Marlowe non sono mai capitate, ne sono sicuro.

    Impiegai mezz’ora per ritrovare la Clio.

    Nonostante il freddo fui costretto a togliermi la giacca e la felpa irrimediabilmente cosparsi di, va be’ non c’è bisogno di ripeterlo, per infilare tutto nel bagagliaio.

    — Merda! — Anche i jeans erano irrimediabilmente compromessi, così restai in mutande.

    — Porcooooooo — urlò una voce femminile da una Fiat 500 che era sbucata all’improvviso dall’oscurità.

    Mi infilai in macchina, misi in moto e tornai a casa.

    Poteva andare peggio come primo giorno di lavoro.

    2.

    Sonnet The Verve (1998)

    — Tu sei veramente un supereroe. Il super imbecille, sei. Ma come diavolo puoi sbagliare auto! Va bene ti è scappata, si fa per dire va bene, ma santo cielo, seguire quella sbagliata!

    Guglielmo il giorno dopo era esattamente a metà strada tra la rabbia per il casino che avevo combinato e la gioia per avere tra le mani materiale per potermi prendere per i fondelli per i successivi centomila anni.

    — Erano uguali le macchine.

    — Scusa è vero — quando impostava la fastidiosa voce in falsetto significava che stava per riversare su di me una serie di interminabili e offensivi insulti — sai però, che da poco tempo hanno inventato un rettangolo di latta di colore bianco con su stampati dei numeri e delle lettere. È una novità, credo che si chiami... targa.

    — Fai veramente ridere.

    — Hai fotografato la coppia sbagliata, hai un occhio nero, sei rotolato nella merda e hai dovuto guidare in mutande nel cuore della notte fino a casa. Tra i due sei tu quello che fa più ridere, fidati.

    Purtroppo non trovai nulla da replicare.

    Così, per colpa di quello spiacevole episodio, ora mi trovo qui, nella stanza numero 27 dello squallido Teresa Hotel, seduto su questa scomoda sedia, nell’attesa che nell’albergo di fronte la signora Francia e Piero Meloni si diano da fare.

    Questa volta avevo pianificato tutto, avevo fatto le cose per benino, non potevo fallire, lo speravo.

    L’avevo seguita per tutta la settimana: palestra, scuola dai figli, shopping con le amiche, partita di tennis, di nuovo shopping, estetista e molto altro ancora.

    Valeria Francia aveva una vita mondana, esattamente come Carrie di Sex and the City, giusto per restare in tema.

    Grazie alle mie accurate indagini ero riuscito anche a dare un nome al conducente della Ford Fiesta bianca del parcheggio: Piero Meloni, padre di Simone Meloni, compagno di scuola del piccolo Giorgio Francia.

    Avevo scoperto che i due amanti preferivano concedersi alla reciproca intimità all’interno delle mura dell’Hotel City anziché scegliere una più adolescenziale piazzola di servizio.

    La buona notizia era che se andava male non mi sarei comunque dovuto rotolare nuovamente nella merda di cinghiale per scappare alla furia di qualche Ivan il Vichingo.

    Come tutti i grandi investigatori avevo messo in atto un piano a prova di bomba, composto da tre fasi: pedinamento, trappola e conclusione.

    La seconda fase era quella fondamentale per la buona riuscita del piano. Quel pomeriggio ero passato all’Hotel City a pochi passi dalla stazione di Genova Brignole e dietro una lauta mancia avevo convinto il gestore ad assegnare alla signora Francia e al signor Meloni la stanza numero 7.

    Quella era l’unica stanza con le finestre rivolte a sud, perfettamente di fronte al residence Teresa.

    Il padrone del City era un ometto calvo con due ridicoli baffetti neri sotto un naso a patata.

    Non fece troppe domande, si limitò ad alzare le spalle e far sparire velocemente le banconote che avevo posato sul bancone della reception. — Per me, una stanza vale l’altra. E immagino che pure per quei due sia così. L’importante è che ci sia un letto su cui fare un po’ di ginnastica — poi strizzò l’occhio e fece una strana smorfia d’intesa, che mi sentii in dovere di ricambiare. Questa finta complicità sembrò galvanizzare l’uomo, che decise di offrirmi da bere.

    Ne seguì un noiosissimo monologo che spaziava dalla politica al calcio, passando per le sue conquiste sessuali di cui si vantava molto.

    Non entrò nessun cliente, nessun essere umano mi era venuto a salvare, così dovetti starmene composto sullo sgabello della hall annuendo a ogni battuta.

    Come odiavo Guglielmo!

    Ora finalmente ero seduto al mio posto

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