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Io, Aristoteles, il negro svizzero: La mia vita attraverso successi e fallimenti
Io, Aristoteles, il negro svizzero: La mia vita attraverso successi e fallimenti
Io, Aristoteles, il negro svizzero: La mia vita attraverso successi e fallimenti
E-book301 pagine3 ore

Io, Aristoteles, il negro svizzero: La mia vita attraverso successi e fallimenti

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Info su questo ebook

In Italia molti lo conoscono come Aristoteles, il calciatore brasiliano malato di saudade che dà il suo apporto per non far retrocedere in serie B la Longobarda, squadra in disarmo allenata da Lino Banfi ne L'allenatore nel pallone.

Ma la sua interpretazione nel film diretto da Sergio Martino nel lontano 1984 è solo la punta dell’iceberg di una vita complessa e stratificata, dai mille volti e dai mille prismi.

Urs Althaus, infatti, è stato soprattutto una delle figure maggiormente iconiche del mondo della moda (fin dal lontano 1977, quando posò - primo uomo di colore nelle storia - per la copertina di GQ), sfilando per il gotha del fashion e divenendo in breve tempo un habitué delle passerelle.

La sua biografia, lucida e anticonformista, nuda e cruda, senza veli ed ipocrisie, ci regala il ritratto a 360° di un uomo che ha provato sulla sua pelle il razzismo strisciante e sprezzante del jet set, i festini e gli eccessi della New York degli anni ’80, le luci della ribalta di set cinematografici prestigiosi (Il nome della rosa) e quelle pallide di produzioni scalcinate, il turbinio delle droghe sintetiche e la paura di perdere gli affetti più cari a causa di un incubo chiamato Aids.

Una vita caleidoscopica che Urs Althaus ci racconta con venata malinconia, amara ironia e lucido disincanto, partendo dalla sua infanzia e arrivando ai giorni nostri, offrendo al lettore un percorso esistenziale corredato da clamorose discese e altrettante vertiginose salite.

LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2020
ISBN9788869346835
Io, Aristoteles, il negro svizzero: La mia vita attraverso successi e fallimenti
Autore

Urs Althaus

Nato nel Canton Zurigo da madre svizzera e padre nigeriano, dopo aver abbandonato il calcio professionistico per infortunio (ha giocato nel Basilea e nello Zurigo), Urs Althaus è diventato uno dei modelli più richiesti dell'alta moda (Dior, Klein, Valentino, Armani, Kenzo…), nonché il primo uomo di colore a posare sulla copertina del mensile americano GQ. Nel 1978 ha fondato una delle più importanti agenzie di modelli in campo internazionale, la Xtazy Ltd. e successivamente la casa di moda Gary Gatys Ltd. Dopo aver frequentato l’Actor’s Studio di New York, si trasferisce in Italia dove inizia la sua carriera di attore recitando in film thriller (Lo squartatore di New York), bellici (Warbus), post-atomici (I predatori dell’anno omega) e demenziali (Arrapaho). Ma il successo di pubblico arriva solo nel 1984 grazie a L’allenatore nel pallone dove interpreta il calciatore Aristoteles, che gli spianerà la strada anche verso produzioni di serie A (Il nome della rosa dove reciterà al fianco di Sean Connery). Lasciata l’Italia per un lungo periodo, in cui si dedica ad attività extracinematografiche, vi ritorna nel 2001 per recitare nella serie TV Il commissario e Un medico in famiglia. Infine nel 2008 veste nuovamente i panni di Aristoteles nel sequel L’allenatore nel pallone 2.

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    Anteprima del libro

    Io, Aristoteles, il negro svizzero - Urs Althaus

    Alcuni nomi in questo libro sono stati cambiati.

    Nessuna parte di questa pubblicazione o successiva edizione

    può in qualunque modo essere riprodotta in qualunque forma o mezzo,

    senza il permesso scritto dell’editore.

    Tutti i diritti riservati.

    Traduzione

    Alessandra Lorenzoni, Opitrad srl – Milano

    Revisione finale

    Ottaviano de Paciani – Iperga srls

    Foto

    Copertina: Chris Hirschhäuser (© Althaus Medien)

    Tutti gli altri diritti sono indicati singolarmente

    Copertina GQ: John Peden

    Foto Cresima: Heidi Moretti

    Calvin Klein: Arthur Elgort

    Urs you made it: Knut Bry

    Gary Gatys Ltd.: Heidi Moretti

    Givenchy Show: Givenchy Ltd

    Lanvin Show: Lanvin Ltd

    Evento Klosters: Hervé Le Cunff per Schweizer Illustrierte

    Foto su sfondo copertina GQ: Stephan Schacher

    Titolo originale

    Ich, der Neger, mein Leben zwischen Highlife und Pleiten

    Prima edizione 29 ottobre 2009 edito da Wörterseh Verlag

    Lachen Isbn 9783037630068

    Ringraziamenti

    Gabriella Baumann-von Arx e Wörterseh Verlag

    per aver pubblicato il mio primo libro

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: +39 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, agosto 2020

    e-Isbn 9788869346835

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Urs Althaus

    Nato nel Canton Zurigo da madre svizzera e padre nigeriano, dopo aver abbandonato il calcio professionistico per infortunio (ha giocato nel Basilea e nello Zurigo), Urs Althaus è diventato uno dei modelli più richiesti dell’alta moda (Dior, Klein, Valentino, Armani, Kenzo…), nonché il primo uomo di colore a posare sulla copertina del mensile americano GQ.

    Nel 1978 ha fondato una delle più importanti agenzie di modelli in campo internazionale, la Xtazy Ltd. e successivamente la casa di moda Gary Gatys Ltd.

    Dopo aver frequentato l’Actor’s Studio di New York, si trasferisce in Italia dove inizia la sua carriera di attore recitando in film thriller (Lo squartatore di New York), bellici (Warbus), post-atomici (I predatori dell’anno omega) e demenziali (Arrapaho).

    Ma il successo di pubblico arriva solo nel 1984 grazie a L’allenatore nel pallone dove interpreta il calciatore Aristoteles, che gli spianerà la strada anche verso produzioni di serie A (Il nome della rosa dove reciterà al fianco di Sean Connery).

    Lasciata l’Italia per un lungo periodo, in cui si dedica ad attività extracinematografiche, vi ritorna nel 2001 per recitare nelle serie TV Il commissario e Un medico in famiglia. Infine nel 2008 veste nuovamente i panni di Aristoteles nel sequel L’allenatore nel pallone 2.

    A mia madre Irma Althaus di Altdorf e a tutte le mamme di questo mondo.

    Non c’è niente di più bello nella vita del sentirsi uniti.

    Prefazione

    di Francesco Ciccio Graziani

    Ne sono passati di anni.

    Ricordo perfettamente quella stagione, era il lontano 1984.

    In Italia si sognava, ci si divertiva, si lottava per i propri obiettivi.

    Dal calcio giocato alla televisione: fu Lino Banfi, nostro grande tifoso, a contattarci proponendoci un ruolo al cinema. Lui tutte le domeniche veniva allo stadio a vederci, è sempre stato un accanito sostenitore della Roma. Insieme a Sergio Martino, storico regista, decisero di girare L’Allenatore nel pallone, un film che in poco tempo entrò di diritto nella storia del nostro Paese.

    Io partecipai insieme ad altri miei compagni, interpretando delle piccole parti, ma molto divertenti. Fu lì che conobbi Urs Althaus, il famoso Aristoteles della Longobarda. Un ragazzo perbene, gentile ed educato, uno dei protagonisti assoluti della pellicola insieme a Banfi.

    Questo film non invecchierà mai perché racconta il calcio in maniera leggera, simpatica ed estremamente veritiera. Certo, un calcio che forse oggi non esiste più, ma che comunque ha lasciato il segno.

    Il modulo 5-5-5, la tattica, gli scontri con i presidenti dell’epoca, tutto era trattato con ironia e divertimento.

    Aristoteles aveva introdotto la figura del calciatore brasiliano, principalmente quella del classico numero 9, che arrivava in Europa per diventare una stella. Tante aspettative, forse troppe, che alla fine non riusciva nemmeno a soddisfare. Insomma, il giocatore dal grande pedigree ma che faceva fatica a sfondare. Anche se, in realtà, alla fine la squadra riusciva a non retrocedere grazie a lui.

    Il mio ricordo dunque è bellissimo.

    Auguro a Urs le migliori soddisfazioni con la pubblicazione di questo interessante libro.

    Non sono mai stato a New York

    ovvero

    Dov’è la mia faccia a Times Square?

    New York può essere triste.

    Soprattutto a Novembre. Nel 1977, il produttore di arachidi Jimmy Carter è presidente degli Stati Uniti. Il fratello di Carter, Billy, è un ubriacone che si è guadagnato sette pagine nella rivista Playboy. Miss Mondo è svedese. Il presidente egiziano Anwar El Sadat conferma il diritto di esistenza di Israele. Il romanzo di Günter Grass, Il rombo, è al primo posto nella classifica dei bestseller.

    Notizia per me più importante: l’agenzia di modelli Elite di Parigi sta aprendo a New York. Ghiotta occasione per il mio agente Zoltan ‘Zoli’ Rendessy di organizzare una delle sue famose feste costellate di personaggi famosi. Il fondatore di Elite, John Casablancas, è presente, così come Apollonia von Ravenstein e Cheryl Tiegs, famose cover girl dell’edizione Swimsuit di Sports Illustrated. Ci sono anche gli hairstylist del jet-set, Ara Gallant e John Sahag, al seguito di fotografi come Bruce Weber, John Peden, Richard Avedon e Patrick Demarchelier.

    È il set ideale per celebrare l’ultima bambina prodigio della moda di New York: la ventiduenne Principessa Diane de Beauveau-Craon presenta la sua prima collezione con le modelle di Elite. Tessuti di seta drappeggiati mollemente, vertiginosi scolli a ‘V’, tre strati di chiffon sul seno nudo. La moda di una protégée dell’alta società che può permettersi di comprare ragazze, agenti, fotografi, VIP. È la nipote del magnate boliviano delle scatolette Patiño.

    In questo giovedì mattina io non sono alla ricerca di un’agenzia, di una modella, di un parrucchiere, di un fotografo, di un fratello, di una moglie, di una bambina prodigio della moda, di un magnate delle scatolette.

    Sto cercando me stesso.

    Più precisamente, sto cercando la mia faccia, la mia faccia nera in questa mattina lattiginosa di New York.

    Veramente so dove posso trovarmi: in qualunque edicola. Lì vendono la rivista GQ, la Bibbia della moda di maggior prestigio per l’uomo di oggi e di domani. Tra le colonne di vapore della metropolitana di New York, in un’edicola, scopro l’ultimo Vogue con Mademoiselle Beauveau. Il nuovo numero di Rolling Stone con sulla copertina il disegno a caricatura della rockstar Pete Townsend degli Who.

    Non c’è GQ.

    Sto diventando ansioso. Magari la pubblicazione è stata cassata all’ultimo minuto dal redattore capo? È intervenuto l’onnipotente editore? Il distributore si è rifiutato di consegnare questo numero di GQ? Magari a causa della pressione dei razzisti del sud, perché sono riuscito ad avere la copertina di una rivista maschile statunitense come primo modello di colore?

    La situazione non è cambiata di molto oggi, mentre sto scrivendo. Nonostante Barack Obama, il primo presidente nero. Proprio ora, un nero in copertina provoca un dibattito. US Vogue nel 2009 ha rischiato e, per la prima volta nella sua storia, ha messo in copertina un uomo di colore; una star del basket, LeBron James, smorzata dalla modella mezza bianca Giselle Bündchen, fasciata in un casto abito di seta.

    Nel 1977 un nero in copertina è davvero una provocazione. Da quando GQ è stato lanciato come rivista di moda dall’editore lifestyle Condé Nast nel 1957, sulla copertina non c’è mai stato qualcuno con la pelle di un colore diverso dal bianco.

    Svolto di corsa l’angolo tra 53rd Street e Second Avenue, di edicola in edicola. Niente. Questa mattina la mia faccia non si riesce a trovare da nessuna parte. Ci sono tutte le altre riviste di moda, in ogni edicola davanti alla quale passo. E ora mi danno fastidio, tutte: Vogue, Vanity Fair, Glamour, New York Magazine. Perché non c’è traccia di me come ragazzo copertina negli espositori dei giornalai lungo la strada?

    «Mi dispiace, amico, non è la tua giornata», dice un indiano che sta mettendo in ordine pile di riviste. Tutto qui! Gli altri giornali escono al martedì, GQ viene consegnato al giovedì. Ma a quest’ora non è ancora arrivato, sicuramente a causa del traffico.

    Quando finalmente mi vedo, sembro un po’ spiegazzato. Un uomo con il cappello, che osserva questa mattinata newyorchese attraverso il sottile strato di plastica che avvolge le riviste, come prima pagina della fornitura di GQ fresco di stampa.

    Così è come mi sono trovato quella mattina di giovedì, 17 novembre 1977, ma non voglio comperarmi in questo angolo di New York pieno di spifferi, scelgo invece l’indirizzo più prestigioso, l’elegante edicola internazionale accanto al lussuoso Plaza di Fifth Avenue, a Central Park South.

    Quanto costa GQ? Due dollari. Non mi interessa. In questa giornata la mia faccia li vale. Voglio ammirarmi, chi non vorrebbe? Io, io, io. Il primo modello nero sulla copertina di GQ con distribuzione mondiale. Ritratto e portato alla ribalta dal famoso fotografo di New York, John Peden, che eterna in celluloide gli americani più ricchi e famosi.

    Che grande momento. Se non altro, posseggo 260 pagine della carta più raffinata. Rotocalco, stampa perfetta. Tengo la rivista con le mani sudaticce e riesco a malapena a crederci. Ci sono io sulla copertina, con un cappello. Alla mia sinistra il titolo in grassetto Come mettere insieme il vostro guardaroba.

    Un voluminoso catalogo di moda che continuo a sfogliare instancabile, soprattutto dopo che ho scoperto la mia faccia anche all’interno della rivista, per introdurre la serie di immagini dove presento le tendenze autunnali: 40 pagine e quasi tutte le pagine doppie. Incredibile.

    Certo, sono orgoglioso.

    Sicuro, volo a un metro da terra; naturale, questa mattina sono l’uomo più importante di New York. Voluto dai papaveri del settore, prenotato fino a non poterne più.

    Non ho raggiunto questo successo come modello dormendo con i baroni della moda o con gli editori. Ho avuto ottime referenze dalle migliori case di moda europee... e sono anche stato fortunato. Di tutti i giorni, proprio in quello del famoso blackout di New York, quando ci fu una mancanza di corrente generale, il mio agente mi disse, alla luce di una candela: «Urs, GQ (Gentelmen’s Quarterly) vuole te. Ce l’hai fatta, hai sfondato! Alla grandissima!»

    Per essere onesti, devo aggiungere che non volevano solo me, c’era anche il modello bianco Roland Wadenpul.

    Nonostante questo, allora ero rimasto senza parole e lo sono ancora. Anche il mio agente Zoli Rendessy, figura leggendaria sulla scena fashion internazionale, era stupito. Avevo davvero conquistato il mondo della moda proprio a New York? Non riuscivo a smettere di sognare allora, al Plaza. Avevo 21 anni, ero giovane, attraente e fotogenico. Non pensavo al domani, solo all’oggi. Mi dicevo «Urs, dopo questo lavoro, il mondo della moda sarà ai tuoi piedi. Le agenzie lotteranno per averti, lo stesso i fotografi.» Avrei fatto cataloghi ai Caraibi, campagne pubblicitarie alle Hawaii o negli atolli del Pacifico, quando in Svizzera è tristemente freddo. Le case di moda falliranno senza di me! Ero la persona più felice di New York; ero convinto che l’America bianca mi avesse accettato all’interno del suo circolo di personaggi illustri.

    Mi saltano in mente due episodi, in cui poco tempo dopo questa America bianca mi avrebbe dimostrato il contrario. Avevo letto l’avviso di un casting nell’ufficio della mia booker. Cercavano modelli per "All American Look". Io chiesi se potevo partecipare a quel casting. La mia booker esitò, mi guardò per un po’ e poi spiegò: «Urs, beata innocenza, questo casting non è adatto a te. All American Look è solo per i bianchi.»

    Era uno scherzo? Ero decisamente stupefatto. L’America, il Paese dell’immigrazione, il melting pot delle nazioni, il Nuovo Mondo... e proprio lì solo i bianchi erano All American?

    Poco tempo dopo scoprii come si distinguevano i diversi ingredienti di questo melting pot. Ero stato mandato da Helen Weepman, il top degli avvocati per i modelli stranieri: era sempre riuscita a ottenere i visti per noi, che provenivamo da ogni parte del mondo.

    All’inizio Helen non voleva vedermi perché, come sottolineò in modo brusco, si era aspettata uno svizzero. Dopo che la mia agenzia l’ebbe rassicurata sul fatto che ero proprio io lo svizzero in questione, mi fu concesso di compilare il modulo di domanda. Quando glielo restituii, lei trovò subito un errore. «Qui!» Mi guardò di traverso, si aggiustò gli occhiali e indirizzò l’indice pitturato di smalto rosso brillante sul foglio proprio sotto la scritta Nazionalità, dove avevo scritto Svizzera. Avevo anche completato correttamente indicando: Protestante. Una riga più in basso c’era l’unghia dell’avvocato. Era la riga dove si poteva indicare un colore di pelle. Bianco, nero, marrone, rosso, giallo... non lo avevo compilato perché, per quanto mi riguardava, ero semplicemente svizzero. «Non ci sono svizzeri neri, asiatici o bianchi in Svizzera e nemmeno svizzeri ispanici», dissi con indignazione. Helen Weepman mi strappò il foglio di mano con impazienza e disse: «Il mio onorario è piuttosto alto e se vuoi lavorare in America sarà meglio che impari in fretta che sei uno svizzero nero, non semplicemente svizzero. Ora metti la croce qui, altrimenti non otterrai il visto.»

    Alcuni giorni dopo la domanda per il visto avevo una sessione fotografica per Brides Magazine con il fotografo europeo Alberto Rizzo. A quell’epoca tutti i fotografi che avevano raggiunto fama e gloria in Europa volevano fare i soldi in America. Per quella sessione erano stati prenotati quattro modelli, due neri e due bianchi. Io non ci stavo pensando quando, arrivato sul set, mi unii al gruppetto.

    «Urs, questa è New York e dobbiamo fare le fotografie separatamente. Per favore spostati a destra, vicino alla tua ragazza.» Il fotografo aveva parlato con espressione amichevole e io feci finta di niente. Alla fine del lavoro la mia, naturalmente nera, sposa disse: «Sai, se lavori a lungo qui in America poi impari come gestire queste situazioni.»

    Ecco com’era a quei tempi. Tutti i modelli si riferivano a queste situazioni, nessuno parlava mai di razzismo.

    Fu Harry Coulianos, il direttore artistico di GQ, che per primo rese possibile il mio successo. Aveva conquistato il regno dei giornali di moda, tradizionalmente conservatore. Harry scoprì non solo me, ma anche Bruce Weber, che diventò famoso con le sue foto di ragazzi muscolosi.

    Fu proprio Harry a mandarmi da John Peden, un silenzioso astro nascente, inizialmente solo per le pagine interne. Le Polaroid che erano state scattate prima di tutte le sequenze erano già molto buone agli occhi di Harry e John. Anche se Harry, quando ci incontrammo, era rimasto per un po’ a fissarmi completamente sconvolto perché non riusciva a credere che in Svizzera esistesse qualcosa come un ragazzo nero. Lui, figlio di immigrati greci, capiva perfettamente che cosa significava per me questo servizio. Nel layout finale scelse me per quasi tutte le pagine doppie.

    Giorni dopo il servizio con Peden, ero seduto con Harry nell’ufficio dell’editore di GQ, nel grattacielo del gigante dell’editoria Condé Nast. Harry, che più tardi sarebbe morto di Aids, voleva mostrarmi i provini delle foto in diapositiva. Essendo uno dei grandi del settore, aveva una competenza maggiore della mia nello scegliere gli scatti migliori una volta pubblicati.

    Mi chiese della mia infanzia, della famiglia, di mia madre, della mia vita, mi fece tirare fuori tutto. Poi andammo al display luminoso nel suo grande ufficio, che era quasi sommerso da cataloghi, fotografie, poster di modelli, e dove le foto che mi ritraevano erano come soldatini di latta incorniciati sul vetro luminoso.

    «Urs, queste foto ti faranno diventare una star!» Deglutì, guardando fuori dalla finestra del grattacielo verso quella follia chiamata New York. «Ti faranno diventare una star...», ripeté e aggiunse: «...e io probabilmente perderò il lavoro.»

    «Com’è possibile?» Ero sconcertato. «Il servizio è venuto così male?»

    «Le foto sono fantastiche.»

    «E allora? Non sono ancora state approvate?»

    Harry rise. «Urs, io le approvo, ma potrebbero scatenare un terremoto.»

    «È una moda così rivoluzionaria?»

    «Non la moda. Io spero solo che i tempi siano maturi perché un nero compaia sulle pagine di GQ

    Per due settimane non sentii niente. Poi Harry chiamò il mio agente, Zoltan, e disse: «Urs deve essere fotografato ancora.»

    «Perché? Qualcosa non è andato bene nella prima sessione?»

    «No. Per niente. Urs deve essere fotografato per la copertina di GQ

    Zoltan si stava probabilmente chiedendo se mi fossi comportato male durante il servizio. Zoli sceglieva i suoi modelli non solo per l’aspetto ma teneva anche al loro comportamento, cosa che io stesso pretesi senza compromessi quando, decenni più tardi, divenni co-proprietario di una delle più conosciute agenzie di modelli in Svizzera.

    Ma non era quello il pensiero di Harry, lo sapevo, e sapevo anche che le foto per le pagine interne erano perfette perché le avevo viste nel suo ufficio.

    Volevano veramente stampare la mia faccia sulla copertina, la prima faccia di modello nero sulla copertina dalla nascita della rivista.

    «È giunto il momento che l’America abbia il tuo colore di pelle ad abbellire la copertina di questo giornale», gongolava Harry Coulianos. Dopo che avemmo guardato di nuovo le diapositive nel suo ufficio aggiunse: «Urs, con questo numero di GQ stiamo scrivendo una pagina nella storia della moda.»

    Una calda estate

    ovvero

    Ospite fisso allo Studio 54

    In quei tempi non prendevo droghe.

    Nei primi giorni quando mi vedevo, io, un uomo di colore su una rivista di bianchi pensavo: Urs, ce l’hai fatta!.

    In quel momento, di fronte al Plaza, ero sicuro che la notizia si sarebbe diffusa come un incendio sulla scena fashion del mondo occidentale: un Negro in copertina! Chiunque nella Grande Mela avesse in qualche modo a che fare con la moda riusciva a intuire che era lui che bisognava avere: il ragazzo nero venuto dalla Svizzera.

    Specialmente gli amici dello Studio 54 che orbitavano all’interno di una grande famiglia, quella del guru della pop art Andy Warhol, che, nella sottocultura della sua Factory, con i suoi 57 collaboratori produceva arte, film, serigrafie in catena di montaggio, se la spassava con rockstar come Mick Jagger o David Bowie e un ampio entourage. Warhol è stato probabilmente il più influente direttore non-artistico di tutti i tempi… per la moda.

    D’altra parte, prima non si era mai verificato nulla di simile allo Studio 54: un inferno (o un paradiso) di droga, soldi, potere, politica e lussuria allo stato puro. Un club dove chiunque era una star, ricco o povero che fosse, giovane, vecchio, etero o gay o entrambi per una notte, ammesso che riuscisse a superare il buttafuori. La stessa Lillian Carter, madre del presidente ad interim, si lasciò scappare: «Non sapevo se ero in paradiso o all’inferno.» In realtà per me, e per tutti quelli che sono sopravvissuti, oggi l’esperienza dello Studio 54 appare confusa in un unico imperituro ricordo. O, come ha ricordato la rivista Der Spiegel, un fantasma di tempi andati, prima del terrore, prima della guerra, prima dell’Aids, quando un night club sulla 54 Street di Manhattan trasformò una discoteca in un modo di vivere.

    Non era stata Hollywood a reinventare il culto delle celebrità, ma lo Studio 54. C’era l’hairdresser John Gerrard con la sua scimmia ragno Max, che aveva l’ingresso garantito, anche se Max una volta aveva quasi staccato con un morso il naso dell’erede di una dinastia di champagne. Doris Duke, già oltre i settanta, ballava con giamaicani mezzi nudi: non era un problema per la seconda donna più ricca d’America. L’autore di culto Truman Capote si ubriacò al punto da non riuscire a stare in piedi. Anche l’ex-first lady Jackie Kennedy-Onassis si

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