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Il codice della vita: Una storia della genetica tra scienza e bioetica
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E-book182 pagine2 ore

Il codice della vita: Una storia della genetica tra scienza e bioetica

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«L’informazione genetica e il linguaggio umano sono gli unici sistemi capaci di conservare e trasmettere un numero illimitato di messaggi: con un insieme di poche lettere (21 per l’italiano, 4 per il linguaggio genetico) e di segni di punteggiatura si può scrivere qualsiasi testo e codificare il programma di un numero infinito di esseri viventi».

Centocinquant’anni fa Gregor Mendel pubblicava per la prima volta le sue ricerche sulle leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari da una generazione all’altra. Passato per lo più inosservato, l’articolo venne scovato solo nel 1900, ad opera di alcuni botanici che studiavano gli ibridi vegetali, i quali ne diffusero immediatamente i risultati: fu un evento rivoluzionario, che diede il via a un’eccezionale serie di scoperte e alla nascita di nuove discipline come la genetica e la biologia molecolare. Lo sviluppo di queste scienze ha consentito di acquisire conoscenze basilari sulle strutture e sulle funzioni biologiche degli esseri viventi; in particolare, la possibilità di manipolare il patrimonio ereditario, i singoli geni e il genoma nel suo insieme costituisce uno degli avanzamenti più straordinari della ricerca degli ultimi decenni. La capacità di agire al livello dei meccanismi biologici fondamentali segna infatti l’inizio di una nuova e delicata fase della conoscenza, destinata ad apportare radicali mutamenti di ordine concettuale e culturale e a sollecitare cruciali interrogativi di ordine morale e politico. Il volume offre una breve e agile storia del percorso compiuto dalle scienze della vita, una sintesi del processo di elaborazione teorica e filosofica che ha portato a considerare il patrimonio ereditario come un testo scritto nel dna e successivamente interpretato dalla cellula grazie a un codice universale, il «codice genetico»: un testo – modificato dall’evoluzione per selezione naturale – che guida la costruzione e il comportamento di tutti i sistemi viventi. Lungo questo rapido viaggio attraverso i progressi delle bioscienze gli autori mettono in luce le grandi questioni etiche che ne sono scaturite; questioni che non possono essere relegate alla sfera soggettiva del singolo ricercatore, né al sistema di norme comportamentali di un gruppo ristretto o di una specifica professione. È necessario valutare in maniera più approfondita i temi delle responsabilità e dei compiti degli scienziati, accanto a quelli della trasparenza, della comunicazione e dell’utilizzo dei risultati della ricerca. Tutto ciò implica una trasformazione ancora più generale e profonda, che coinvolge il ripensamento dei rapporti tra scienza e governo della sfera pubblica, in ultima analisi tra il sapere e il potere.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2017
ISBN9788868436704
Il codice della vita: Una storia della genetica tra scienza e bioetica
Autore

Bernardino Fantini

Bernardino Fantini è professore emerito di Storia delle scienze biomediche presso l’Università di Ginevra.

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    Anteprima del libro

    Il codice della vita - Bernardino Fantini

    I. Il percorso storico.

    Da Mendel alla doppia elica

    1. La riscoperta di Mendel.

    Nella primavera del 1900, il botanico William Bateson è in viaggio sul treno fra Cambridge e Londra, dove si reca per partecipare alla riunione annuale della Royal Horticultural Society, un’associazione formata da scienziati e coltivatori, che dedica gran parte della sua attività alla ricerca sugli ibridi, sia per il loro interesse scientifico che per le possibilità che essi offrono di ottenere migliori risultati nella produzione agricola. Bateson è il più importante scienziato inglese a occuparsi di questi argomenti, e nel 1894 aveva pubblicato un volume dedicato allo studio degli ibridi e degli incroci, soprattutto come mezzo per comprendere l’origine della variabilità biologica. L’interesse per quest’ultimo aspetto era cresciuto dal momento in cui Charles Darwin nel 1859 aveva mostrato che l’evoluzione è il risultato della selezione naturale sulla grande variabilità dei caratteri presenti negli individui di una popolazione. Già il titolo di questo libro indicava chiaramente gli scopi della ricerca: Materiali per lo studio della variazione. Trattata con particolare riguardo alla discontinuità nell’origine delle specie¹.

    Bateson aveva partecipato al congresso annuale della Royal Horticultural Society anche l’anno precedente, con un discorso sull’ibridazione come metodo di ricerca scientifica. L’intervento, forse proprio per la chiarezza con cui faceva luce sulle questioni irrisolte delle teorie dell’ereditarietà e sui conseguenti indirizzi di ricerca che proponeva, era stato molto apprezzato, tanto che l’invito venne rinnovato. Bateson avrebbe voluto riprendere il medesimo argomento, ma durante il viaggio in treno, approfittando del tempo libero a disposizione, consultando le ultime riviste scientifiche pubblicate, si imbatte in un articolo in cui il botanico olandese Hugo De Vries² riprende le ricerche realizzate alcuni decenni prima dal monaco Gregor Mendel, i cui risultati erano stati presentati in una conferenza alla Società dei naturalisti di Brno nel 1865 e pubblicati nella rivista della Società nel 1866³. Come era stato per lo stesso De Vries, la presa di conoscenza dei lavori di Mendel cambia totalmente la prospettiva teorica e metodologica di Bateson e indica una soluzione possibile ai problemi individuati nella conferenza del 1899: il metodo di Mendel permetteva finalmente di studiare e di spiegare, attraverso pochi e semplici principi, la distribuzione dei caratteri. Di conseguenza, Bateson cambia totalmente l’argomento del suo intervento alla conferenza a Londra dell’8 maggio 1900, dedicandolo integralmente all’illustrazione delle leggi di Mendel. All’inizio del suo contributo, riprendendo le argomentazioni sviluppate nella relazione dell’anno precedente, Bateson fa il quadro della situazione, sottolineando che delle leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari non si sa «ancora assolutamente nulla. Non abbiamo nemmeno la più pallida idea di cosa costituisca il processo essenziale attraverso il quale la somiglianza ai genitori è trasmessa alla progenie». E ciò che è più importante – conclude – è che non solo l’ignoranza è totale, ma «nessuno ha la minima idea di come cominciare a lavorare su questo aspetto della questione»⁴.

    Tuttavia, già nella relazione del 1899, Bateson aveva proposto un metodo di ricerca che avrebbe potuto permettere di uscire dall’ignoranza e conoscere le leggi dell’eredità, prefigurando in modo chiaro quanto avrebbe poi trovato nei lavori di Mendel.

    Ciò che è in primo luogo necessario sapere è cosa avviene quando una varietà è incrociata con i suoi simili. Se il risultato deve avere un valore scientifico, è assolutamente necessario che la discendenza di questo incrocio sia esaminata statisticamente. Si devono registrare quanti discendenti somigliano a ogni genitore e quanti mostrano caratteri intermedi fra quelli dei genitori. Se i genitori differiscono per diversi caratteri, la discendenza deve essere esaminata statisticamente, e inquadrata, per così dire, riguardo a ognuno di questi caratteri separatamente⁵.

    È in relazione a questa necessità – di esaminare statisticamente i risultati di un incrocio – che Bateson riconosce immediatamente la portata delle leggi proposte da Mendel e si interroga sulle ragioni che hanno indotto a trascurare così a lungo un lavoro di tale importanza. Riferendosi all’articolo di De Vries che aveva letto sul treno fra Cambridge e Londra, egli scrive:

    Il Professor De Vries inizia con un riferimento a un’importante pubblicazione di Gregor Mendel, che fornisce i risultati dei suoi esperimenti sugli incroci di varietà di Pisum sativum. Gli esperimenti di Mendel erano stati organizzati su larga scala, la sua spiegazione dei risultati è eccellente e completa, e i principi che egli ne ha dedotto certamente svolgeranno una parte cospicua in tutte le discussioni future sui fenomeni dell’evoluzione. E non è una questione irrilevante il fatto che al lavoro di Mendel sia stata data così scarsa attenzione e che esso sia stato dimenticato così a lungo⁶.

    Prima dell’articolo che aveva suscitato l’interesse di Bateson, De Vries aveva pubblicato una breve nota in francese⁷ in cui descriveva il comportamento dei caratteri individuali nella trasmissione ereditaria con semplici formule riprese dai lavori di Mendel, formule che gli permettevano di reinterpretare in modo chiaro i risultati dei suoi esperimenti sugli ibridi⁸. In questa nota il nome di Mendel non era citato e un altro botanico che studiava gli ibridi, il tedesco Carl Correns, che a sua volta in maniera autonoma aveva scoperto l’articolo di Mendel, alla lettura della nota di De Vries reagisce rapidamente, proponendo di chiamare i principi esplicativi proposti da Mendel «G. Mendels Regel» (la regola di Mendel, al singolare)⁹. Infine, un altro botanico, l’austriaco Erich von Tschermak-Seysenegg, aveva pubblicato a sua volta un articolo nel quale reinterpretava i suoi lavori precedenti sugli ibridi sulla base delle leggi di Mendel¹⁰. L’insieme di questi lavori costituisce l’atto di nascita ufficiale del mendelismo, disciplina scientifica che nel 1906 sarà chiamata «genetica», proprio da William Bateson¹¹.

    Bateson diviene il sostenitore più entusiasta del mendelismo e della sua importanza per la comprensione delle regole della trasmissione ereditaria e dell’evoluzione. Nel 1902 redige un lungo rapporto per il Comitato sull’evoluzione della Royal Society di Londra, nel quale mostra con chiarezza come i fenomeni della trasmissione ereditaria, apparentemente misteriosi, possano essere chiariti grazie alle leggi di Mendel, e difende con forza la validità della spiegazione mendeliana¹², soprattutto di fronte alle critiche avanzate dalla scuola biometrica, che proponeva una spiegazione alternativa dell’eredità, basata sulle teorie e le ricerche statistiche di Francis Galton¹³. Obiettivo di questo rapporto era vincere le resistenze provenienti dagli ambienti evoluzionisti. La teoria darwiniana, infatti, assumeva come principio fondatore l’accumulazione nel tempo di piccole e continue variazioni, di natura quantitativa, mentre il mendelismo proponeva variazioni discrete di tipo qualitativo, che in alcuni casi, soprattutto nella versione di De Vries, sembravano produrre nuove varietà o specie attraverso veri e propri «salti» o «mutazioni».

    La spiegazione mendeliana dei fenomeni ereditari costituiva una rottura rispetto alle impostazioni precedenti e un rovesciamento teorico fondamentale. Se in passato gli studi sull’eredità e sullo sviluppo cercavano di comprendere il modo in cui i caratteri si conservano attraverso le generazioni, individuando i fattori che rimangono costanti, Mendel opera una scelta metodologica opposta, studiando i fattori che cambiano nelle diverse linee ereditarie. Inoltre, le variazioni non sono dovute alla graduale differenziazione di un carattere sotto la pressione della selezione naturale, ma al contrario tutti i caratteri distinti rimangono stabili e la loro variazione è dovuta esclusivamente a modificazioni dei fattori ereditari (mutazioni), che si configurano come vere e proprie eccezioni alle leggi della trasmissione.

    Partendo dal principio, fortemente innovativo, secondo cui i caratteri ereditari non si mescolano negli ibridi, ma mantengono la propria identità, Mendel aveva isolato sette varietà di pisello, differenti per caratteri ben visibili (forma e colore del seme, forma e colore del baccello, posizione e colore dei fiori lungo il fusto, altezza delle piante), e aveva identificato due forme alternative per ognuno dei caratteri (ad esempio colore giallo o verde del seme), studiando con un metodo statistico come queste forme alternative si presentano nelle diverse generazioni. L’assunzione teorica più importante fatta da Mendel è che ogni singolo carattere visibile è discreto e legato a un «fattore» o «determinante», una struttura microscopica contenuta nel materiale riproduttivo. Inoltre, per spiegare i suoi risultati, in particolare l’apparente «scomparsa» di una delle due forme alternative nella prima generazione (detta F1), Mendel assume che per ogni carattere esistono due determinanti alternativi, di cui uno (dominante) «nasconde» l’altro (recessivo), ogni volta che i due si presentano insieme. Solo nella seconda generazione (F2), in cui i due determinanti potranno combinarsi in quattro modi distinti (AA, Aa, aA, aa), la forma recessiva potrà di nuovo manifestarsi¹⁴.

    Mendel in sostanza opera una serie di scelte epistemologiche molto innovative, che saranno riprese e sviluppate dai genetisti. In primo luogo, l’eredità è intesa non come conseguenza della crescita ontogenetica, che produce parti dell’organismo adulto («gemmule») trasmesse poi al momento della riproduzione, come assumeva ad esempio la teoria della pangenesi, proposta sin dall’antichità e poi ripresa, pur con molta prudenza, anche da Charles Darwin nel volume La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico¹⁵. In secondo luogo, la trasmissione ereditaria non riguarda l’insieme dell’organismo, ma le sue singole componenti, che vengono trasmesse indipendentemente l’una dall’altra. In terzo luogo, i caratteri visibili corrispondono a fattori contenuti nel «plasma germinale»; infine, oltre a essere ereditati indipendentemente, i fattori ereditari restano puri, non sono cioè modificati dall’interazione con l’ambiente cellulare.

    Un altro elemento innovativo della concettualizzazione mendeliana, poco notato dagli storici e filosofi della biologia, è la disposizione dei simboli che indicano i fattori in un ordine lineare. Così nel lavoro originale di Mendel si può leggere, per le combinazioni di tre fattori ereditari, la sequenza AaBbCc + AaBbc + AabCc + aBbCc + Aabc + aBbc + abCc + abc, in cui ogni «parola» indica una particolare combinazione di fattori ereditari. L’utilizzazione di un ordine lineare per rappresentare simbolicamente i fattori ereditari non era una scelta scontata, tanto che un altro grande biologo di fine Ottocento, August Weismann, noto per aver operato una distinzione netta fra linee somatiche e linee germinali, per rappresentare i determinanti dello sviluppo embrionale li disporrà in uno schema tridimensionale, all’interno di forme biologiche¹⁶. Mendel, invece, separa i fattori ereditari dalle forme delle cellule e li dispone in un ordine astratto, puramente lineare.

    La portata innovativa del pensiero e del metodo mendeliano dopo decenni di oblio viene quindi finalmente compresa e divulgata. Parlando agli studenti di Cambridge in una lezione inaugurale del suo corso di biologia, Bateson nel 1908 sottolinea ancora una volta l’importanza enorme del contributo di Mendel: «Non uso un’iperbole se affermo che la scoperta di Mendel ci sta portando in un nuovo mondo, la cui esistenza era prima insospettata»¹⁷. In un libro pubblicato nel 1909, che diventerà uno dei testi base della nascente disciplina, Bateson riassume l’insieme delle conoscenze prodotte dalla nuova metodologia e illustra con estrema chiarezza la natura della spiegazione mendeliana dei fenomeni dell’eredità, fondata sull’esistenza di «principi» o regole che determinano i fenomeni dell’ereditarietà¹⁸.

    2. La genetica cromosomica.

    L’innovazione teorica più rilevante degli anni che hanno seguito la riscoperta delle leggi di Mendel è prodotta dalla teoria cromosomica dell’eredità proposta da Thomas Hunt Morgan e dal suo «gruppo della Drosophila» (così chiamato dal nome del moscerino della frutta utilizzato come «organismo modello» per le ricerche), composto principalmente da Calvin Bridge, Hermann Muller e Alfred Sturtevant¹⁹. Per spiegare il «meccanismo dell’ereditarietà», questa scuola, il primo gruppo di ricerca nel senso moderno del termine, introduce un concetto nuovo: l’associazione tra fattori genetici presenti sullo stesso cromosoma (linkage), e riprende l’idea, puramente formale e già presente in Mendel, secondo cui i fattori genetici sono disposti sul cromosoma in un ordine perfettamente lineare.

    Embriologo di formazione, Morgan applica il metodo sperimentale allo studio dei fattori responsabili dello sviluppo embrionale, riconducendo quest’ultimo a forze presenti nel citoplasma. Su questa base egli adotta una posizione epigenetica e rifiuta il mendelismo, considerandolo troppo preformista²⁰ e puramente morfologico.

    La critica è rivolta soprattutto alla struttura formale del mendelismo, in cui

    i fatti vengono trasformati con grande velocità in fattori. Se un fattore non spiega i fatti, se ne invocano due; se due si dimostrano insufficienti, tre in qualche modo funzioneranno […]. Andiamo dai fatti ai fattori e poi, presto!, spieghiamo i fatti proprio con questi fattori che abbiamo inventato per spiegarli […] la concezione epigenetica, sebbene laboriosa e incerta, ha, io credo, il grande vantaggio di mantenere aperta la porta per ulteriori esami e riesami²¹.

    Alla base dell’atteggiamento critico di Morgan verso

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