La primavera e i nontiscordardime
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Questo è un romanzo sui valori della famiglia e della persona, che guarda con affetto e riconoscenza alla generazione dei nonni, oggi troppo spesso cinicamente considerati inutili e rinchiusi nelle case di riposo.
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Anteprima del libro
La primavera e i nontiscordardime - Gerardo Saponara
Prefazione
Aver deciso di scrivere un libro, anzi, aver solo pensato di scriverlo per lasciare un messaggio alle future generazioni può giustamente apparire un atto di presunzione.
Ma chi scrive è mosso semplicemente dal sentimento profondo di riconoscenza, e di rispetto, verso gli anziani e verso il ruolo che la loro generazione ha rivestito all’interno della famiglia, sino a quando ciò le è stato consentito.
Non mi scorderò mai dei miei nonni e suggerisco a chi ha la fortuna di poter accarezzare le gote scarne dei propri vecchi di non trascurare in ogni occasione di farlo.
Io che li ho persi, dedico a loro, complici e artefici delle mie acerbe emozioni, i ricordi della mia fanciullezza.
Cap. 1 - Settembre 1970
Erano le nove del mattino di una calda giornata di fine settembre ed ero già da tempo affacciato alla finestra ad attendere l’arrivo dei miei amici e andare al campetto di calcio.
Con i gomiti puntati sul davanzale guardavo fuori e d’un tratto notai un uomo in fondo al viale procedere a passo spedito sul marciapiede dell’altro lato della strada e una volta giunto in corrispondenza della mia abitazione lo vidi attraversare e fermarsi proprio davanti al cancelletto di casa.
Lo riconobbi, era il Ferroni, un signore che abitava non molto lontano da casa mia: È venuto proprio da noi, pensai.
Pochi attimi e suonò il campanello.
«Gabriele, vai a vedere chi è!» gridò mia madre dalla cucina.
Corsi direttamente da mamma e a bassa voce le dissi: «È il signor Ferroni».
Quel tizio era il padre di Maurizio, il bambino con cui mio fratello Nicola aveva preso da tempo a litigare quasi ogni giorno.
«Ancora lui, chissà cosa vorrà adesso?» esclamò mia madre aprendo la porta dell’appartamento per recarsi verso il cancelletto; io le andai appresso e mi piantai sull’uscio a osservare i due sul marciapiede che discutevano e gesticolavano vivacemente.
Mio fratello osservò la scena dalla finestra del soggiorno e vedendo nostra madre ascoltare in silenzio il padre di Maurizio che gesticolava in maniera alquanto scalmanata, fece un gesto di stizza ed esclamò: «Chi la vuole sentire adesso mamma!» e senza indugiare si diresse in tutta fretta in camera sua, chiudendo la porta a chiave.
Io restai sull’uscio ad aspettare mia madre per farmi dire il motivo di quella visita o meglio per avere la conferma di quello che sospettai appena ebbi udito il campanello suonare.
Mia madre rientrò e senza nemmeno guardarmi, visibilmente adirata, percorse il corridoio, si fermò davanti alla camera di mio fratello e non riuscendo a entrare urlò appoggiando letteralmente la bocca sulla porta: «La prossima volta ti spedisco di filato in collegio! Hai superato ogni limite!»
A ogni malefatta di mio fratello spuntava sempre la stessa prospettiva come punizione, il collegio, e quella prospettiva ha sempre turbato più me che Nicola, al punto che io, per scongiurare il pericolo di finire in quel luogo, ho sempre cercato di rigare dritto, convinto com’ero che, se mi fossi comportato sempre bene, non avrei mai rischiato di andarci.
Ben presto, però, imparai a mie spese che non sarebbe bastato essere bravi e costumati figlioli per evitarlo, perché in collegio ci si poteva finire anche per colpa di altri.
Nella mia famiglia, per l’appunto, il bambino irrequieto era mio fratello, che oramai non perdeva occasione di maltrattare e fare dispetti a Maurizio per ogni cosa da questi detta o fatta.
Così i miei genitori, dopo quella ennesima sfuriata dei signori Ferroni contro Nicola, che aveva scaraventate le scarpe di Maurizio sul tetto di una casa costringendo il loro figlio a ritirarsi scalzo a casa nel bel mezzo di un furioso temporale, decisero di porre fine una volta per tutte alle intemperanze di mio fratello e convennero che spedirlo in collegio sarebbe stata l’unica soluzione praticabile.
E così fecero.
Poi, però, venendo a sapere dai vicini che era spesso Maurizio a provocare Nicola prendendolo in giro davanti agli altri compagni per via della sua stazza grassottella, i miei genitori considerarono quella loro punizione troppo frettolosa e un po’ troppo severa e per questo, da bravi genitori, decisero che Nicola non avrebbe dovuto stare da solo in quell’istituto e che io avrei dovuto stare con lui.
Fu dunque per l’irrequietezza di mio fratello e la frettolosità dei miei genitori che di lì a poco toccò anche a un bambino di appena nove anni andare in collegio.
Lo ricordo bene quel fatidico giorno, accadde pochi giorni dopo l’episodio delle scarpe sul tetto.
Di buon mattino venne a chiamarmi il mio amico Severino: «Andiamo a fare una partita» mi gridò dalla finestra.
«Aspettami, vado a cambiarmi!» gli risposi con entusiasmo.
Mi recai immediatamente nella mia stanza per infilarmi le scarpette da calcio e, aperta la porta, vidi mia madre intenta a piegare con cura i miei indumenti e riporli in una valigia marrone adagiata sul mio letto.
Quella vista mi tolse per un attimo il respiro. Siamo nuovamente sul punto di trasferirci per lavoro, pensai.
Superato quell’attimo di perplessità, rivolgendomi a mia madre domandai: «Perché metti la mia roba in valigia? Dobbiamo di nuovo trasferirci?»
Mia madre mi guardò per un solo istante e, come se non avesse udito la mia domanda, continuò a piegare una maglietta e dopo averla riposta mi fece segno con la mano di avvicinarmi a lei e quando le fui vicino, mostrandomi l’interno della valigia, mi disse: «Dunque, Gabriele, guarda bene: qui ci sono le tue mutandine e qui, sotto le canottiere, i calzini. Qui di lato alle canottiere ti ho messo le magliette per quando esci e qui sotto tutti i tuoi pantaloni. Tutte le volte che ti cambi, devi portare la biancheria sporca alla lavanderia; lì ti diranno dove e quando».
«Lì, dove?» domandai alzando il tono della voce.
Mia madre anche questa volta non rispose.
La incalzai: «E poi perché tutti i miei pantaloni?»
Mia madre si fermò, si pose a braccia conserte e rizzando la schiena per accompagnare un lungo respiro, rispose: «Andrai anche tu in collegio».
Fu un tuffo al cuore, ero preparato a molte risposte, ma non a quella.
Con voce rotta dallo sgomento dissi: «Perché, che cosa ho fatto?»
Mia madre si accasciò come un sacco vuoto sul bordo del letto e con tono leggermente incupito rispose: «La decisione l’abbiamo concordata con tuo padre; lì c’è tuo fratello che ti aspetta e non vede l’ora di vederti».
«Sì, figuriamoci! Mio fratello, che non mi porta mai a giocare con lui, adesso sta male senza di me» replicai stizzito.
Non mi lasciai rabbonire da questa scusa e con le lacrime che già premevano per uscire, urlai furente: «Non ci credo. Voi volete solo riparare allo sbaglio di averlo rinchiuso in collegio. È per farvi perdonare da lui che ci mandate anche me!»
A queste mie parole mia madre non replicò.
Si alzò dal letto e, avvicinando a sé la valigia, mi chiese di aiutarla a riporvi i miei ultimi indumenti.
Mi rifiutai, lei senza insistere continuò da sola.
Riempita la valigia con tutto quello che poteva entrarci, mia madre la compresse più volte per riuscire a chiuderla e la ripose ai piedi del mio letto, poi andò in cucina a prepararsi un caffè.
Io rimasi nella stanza seduto sul bordo del letto di spalle alla porta, sul punto di scoppiare a piangere, quando il mio amico, stanco di aspettare, mi urlò dal marciapiede: «Io vado. Ti aspetto là».
Un pensiero istantaneamente mi scosse: «Chissà quando giocherò ancora con loro?» e correndo alla finestra gli urlai: «Aspetta che scendo!»
Afferrai le scarpette da calcio e i pantaloncini e, tenendo tutto in mano, mi avviai verso il campetto, contento di andare a giocare, ma allo stesso tempo angosciato per la consapevolezza che da quel giorno sarebbero mutate molte cose intorno a me.
Lungo la strada confidai a Severino che sarei andato in collegio.
«Ma come, proprio adesso che inizia la scuola? E dove andrai?»
«Allo Zandonai.»
«Allo Zandonai? Ma è qui dietro, che senso ha?»
«Non lo dire a me» risposi.
«Perché ci vai, che hai combinato?» mi chiese accompagnando quella domanda con una smorfia di sorriso.
«Niente! Purtroppo a casa mia finisci in collegio anche per colpa di altri.»
«Tuo fratello, scommetto!»
«Già, proprio lui.»
«Cosa ha fatto?»
«Litigava sempre con Maurizio e suo padre aveva minacciato di denunciare i miei genitori se Nicola l’avesse fatto ancora.»
«Non sarebbe bastato punire tuo fratello?»
«Ci hanno provato, ma lui ogni volta finiva per litigare con quello lì, così mio padre, che non ne poteva più di doversi scusare con i genitori di lui, lo ha mandato in collegio.»
«Chi aveva ragione?»
«Mia madre dava la colpa a Maurizio, che portava sempre il proprio pallone e impediva a mio fratello di giocare perché diceva che, siccome il pallone era il suo, lui faceva giocare chi gli pareva e a mio fratello lo escludeva per dispetto. E litigavano di brutto.»
«Però non aveva torto, tuo fratello.»
«Certo, ma siccome oramai mio fratello non lo sopportava più, andava dove c’era Maurizio apposta per litigare.»
«Beh, allora se l’è cercata.»
«Già. Io glielo dicevo che babbo lo avrebbe punito prima o poi, ma lui non vedeva l’ora di uscire per andare a litigare con quello.»
«Che tipo, tuo fratello!»
«Un testardo, non c’è stato verso.»
Facemmo qualche passo in silenzio, poi Severino si fermò di scatto e, perplesso, domandò: «Ma perché anche tu? Tu che c’entri?»
«Oramai, hanno deciso così» risposi con rassegnazione.
«Comunque se c’è già lui, tu non sarai da solo in collegio. E in fondo, a pensarci bene, Gabriele, non è neppure giusto che tuo fratello sia da solo, almeno con te lì in collegio vi farete forza.»
«Lui è già forte di suo! È sempre stato lui a dare forza a me.»
«Ma in due è meglio, Gabriele.»
«A me fa paura il collegio.»
«Anche a me. Però ho sentito dire da un conoscente di mio padre, che mandò il figlio proprio allo Zandonai, che in quel collegio c’è un grande campo di calcio in erba, mica come il nostro! Ha detto anche che c’è il cinema e, se non sbaglio, lì hanno anche il biliardino. Figurati che anche mio padre aveva pensato di farmi andare in quel collegio, ma mia madre disse che ero troppo piccolo. Vedrai che non sentirai la mancanza di casa e forse neppure la nostra» concluse Severino dandomi una pacca sulla schiena.
Giunti al campo, vidi i miei amici che ci stavano aspettando e urlai: «Oggi ne faccio dieci».
A ben vedere, la conversazione con Severino mi aveva rasserenato e giocai quella partita in assoluta spensieratezza.
Corsi molto e, terminata la partita, abbracciai i miei compagni e mi avviai verso a casa: «Noi ti aspettiamo per la rivincita» mi urlarono mentre mi allontanavo.
«Non vedo l’ora» risposi girandomi per salutarli di nuovo.
Varcata la porta di casa, vidi in un angolo dell’ingresso, pronta e ingombrante, la valigia marrone.
Volli per curiosità provare a sollevarla, era troppo pesante per me.
Andai in cucina da mia madre e con un pizzico di perfidia le dissi: «Sei stata molto attenta a non dimenticare proprio niente nella valigia! Cos’è, avevi paura che con qualcosa in meno mi avrebbero rispedito a casa?»
Pronunciate quelle parole, mi ritirai nella mia cameretta senza mangiare nulla.
Mi sedetti sul ciglio del letto e mille pensieri iniziarono ad attraversarmi la mente.
Provavo angoscia e tristezza dentro di me, ma non tentai di dissuadere i miei da quella decisione; ripensai alle parole del mio amico e lentamente mi convinsi che, in fondo, se mio fratello era lì da solo, non volerci andare sarebbe stata una manifestazione di egoismo.
Mi rassegnai e sdraiandomi sul letto presi a immaginare come sarebbero state le mie giornate tra quelle nuove mura, cercando disperatamente un lato positivo della mia futura destinazione.
Cap. 2 - Il collegio
La mattina seguente, l’ultima di settembre, salutai mio padre che, prima di recarsi a una riunione scolastica lontano da Pesaro, volle farmi delle raccomandazioni, che non ascoltai.
Lui uscì di casa e io andai a sedermi in cucina, dove mia madre aveva preparato la zuppa di latte per colazione che, anche se non avevo per nulla fame, dovetti mangiare.
Appena l’ebbi terminata, ero ancora seduto, mia madre mi pettinò con calma, poi mi prese la mano, afferrò con l’altra la valigia e disse: «Ora dobbiamo proprio andare».
Io non proferii parola, ma feci una leggera resistenza e mia madre dovette trascinarmi fin fuori la porta di casa.
L’aria era già afosa e la strada più silenziosa di altre mattine, neppure il cane dei nostri vicini, che immancabilmente abbaiava quando mi vedeva passare, fece sentire la sua voce.
Si udiva di lontano solo il rumore di qualche peschereccio e avrei tanto voluto essere in una di quelle barche per prendere il largo e non farmi più raggiungere dai miei genitori.
«Vedrai, Gabriele, per te diventerà come una nuova casa con tanti amici e soprattutto con tuo fratello, al quale sarai sicuramente mancato in questi mesi.»
«Mancato? E perché? Lui avrà chissà quanti amici, lì in collegio.»
«Che significa? Avrà tanti amici come li avrai tu, ma tu resti pur sempre suo fratello.»
«Sarei restato suo fratello anche se fossi rimasto a casa ad aspettarlo» replicai risentito.
«Gabriele, parli come se non avessi a cuore tuo fratello.»
«Io ho paura del collegio e a te e a babbo non importa. A voi importa solo che Nicola non sia solo.»
«Non essere cattivo. A me e a tuo padre importa solo che nessuno dei due resti solo, lontano