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Buon Governo
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E-book310 pagine4 ore

Buon Governo

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Il Parnaso è una moderna dittatura, dove il controllo della popolazione è esercitato attraverso un’accattivante Televisione e, in modo più nascosto, da una polizia che non esita a far ricorso alla violenza e alla tortura, come sperimenta il protagonista, Caronte, cresciuto sotto il regime. Buon governo è un romanzo duro, a tratti crudo, la rappresentazione di come uno stato possa diventare se tutti i sistemi di controllo vengono a cadere, la proiezione di una situazione potenzialmente pericolosa e degli effetti che essa può avere sulla società civile e sulle persone; un romanzo di denuncia dell’impoverimento delle coscienze e del sonno della ragione del nostro tempo, che ci spinge a interrogarci su noi stessi e sul mondo in cui vogliamo vivere e far crescere i nostri figli. Scritto da un giovane cresciuto proprio negli anni del moderno Parnaso.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2012
ISBN9788866900696
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    Anteprima del libro

    Buon Governo - Giancarlo Cobino

    stesso.

    Prologo

    20 Marzo 2036

    Una lunga processione attraversava la piazza del Governo. Giovani e anziani, uomini e donne, marciavano a testa alta e con il cuore gonfio di rabbia. La polizia attendeva, immobile dietro le transenne, a pochi metri dal Palazzo del Governo. Nell'aria echeggiavano gli scoppi dei petardi, qualche isolato colpo di pistola, le urla di protesta della gente. Lenzuola bianche, esposte alle finestre di molte case, sventolavano con un certo fragore, come le vele di una barca strapazzate dal vento. Un rumore assordante e placido al tempo stesso. Un rumore talmente penetrante da distruggere ogni timore.

    La città viveva uno stato d'assedio permanente da molti giorni: la popolazione da un lato e la Polizia dall'altro. Al centro, nel comodo ricovero del Palazzo, il Governo Reale aveva ricevuto precise istruzioni di non uscire, di non mostrarsi, come ostaggio tra la folla, ostaggio costretto nella propria dimora.

    Durante i primi giorni della protesta, il segnale orario sostituì le trasmissioni televisive; in seguito furono mandati in onda film di guerra e dramma, di commedia e macchietta. I telegiornali avevano chiuso i battenti e così le notizie erano tenute segrete, in modo che dalla periferia del Paese non arrivassero altri venti di contestazione, a gonfiare ulteriormente l’uragano della protesta.

    Alcuni palazzi bruciavano e le fiamme si alzavano alte in cielo, dove sfogavano nel fumo che ammorbava l’aria, segnando la fine di un’illusione. Erano palazzi del centro città, dove il sogno si era fatto corpo e l’illusione materia. Tuttavia la gente in piazza, preda di uno stato di esaltazione, non se ne curava; tutti guardavano le fiamme di sfuggita, per poi proseguire oltre.

    Lo scontro tra manifestanti e polizia registrava fasi alterne: una volta avanzava la folla, una volta il cordone della sicurezza teneva e respingeva l’orda compatta dei contestatori. La battaglia – violenta e dolorosa – continuava incessante, mentre l’odore acre dei lacrimogeni aveva già da tempo riempito l’aria, rendendola irrespirabile. Per qualche minuto i contestatori si dissolvevano: poi, mentre gli anziani trattenevano il respiro e si fermavano, i più giovani avanzavano, tenendo un fazzoletto bagnato sulla bocca e cercando di riparare gli occhi, che – rossi dall’irritazione – lacrimavano in abbondanza.

    Le serrande dei negozi, abbassate da giorni, erano percosse dai bastoni e l’acciaio mal sopportava la fitta sassaiola dei manifestanti. Di tanto in tanto si sentiva un sasso infrangersi contro il vetro di una casa o di un’automobile, quindi il silenzio, i passi rumorosi e le urla quando la carica della polizia, ritmicamente, avanzava per proteggere un ipotetico cerchio in cui il Governo Reale potesse respirare. Ipotetico e sempre più stretto. Così, nel disordine della piazza, assalitori e pubblica sicurezza sovrapponevano la propria personale agonia. Nulla che fosse pubblico, nulla che fosse di tutti, ma un corpo per ogni persona, una mente per ogni testa. Pur nel tumulto collettivo, nessuno si sentiva davvero unito agli altri. Marciavano congiunti, protestavano con una sola voce, eppure provavano forte il desiderio di distruggere il proprio compagno. Una guerra nella guerra.

    Laddove un tempo era sopravvissuta l’illusione di una vita ricca e senza pensieri, ora scoppiavano le bombe di una battaglia che avrebbe lasciato sul campo morti e feriti. Ribelli e poliziotti, due facce della stessa medaglia, lottavano con violenza per distruggere o difendere il potere che li aveva resi ciechi e insensibili al dolore altrui. E così, i cadaveri degli uni e degli altri si confondevano, schiacciati sotto l’incedere lento ma inesorabile della rivoluzione, che nessuno sapeva dove si sarebbe arrestata.

    Esattamente trentacinque anni prima

    Il palco era stato montato dove l’invaso naturale della piazza finiva, lasciando posto a una sterpaglia naturale e irragionevole. La folla – che ancora affluiva dalle strade – sembrava comprimersi, fino a rendere pieno ogni spazio. Dal basso saliva un brusio confuso, liquefatto nella musica degli altoparlanti, dirompente e fastidiosa.

    Quando la piazza fu piena, le luci emisero un sibilo, sfrigolarono e quindi si accesero. La folla cedette, liberando una prolungata e allegra esclamazione. Evviva! La musica rallentò. Dall’alto piovvero coriandoli azzurri, che planavano sulla gente come fiocchi di neve. Gli occhi all’insù, le urla di giubilo, la tensione. La musica accelerò ancora. Dalle prime file, le donne urlavano ZEUS ZEUS, lanciando baci e aprendo le braccia in un tenero abbraccio figurato.

    Il sole, velocemente, cadde oltre le recinzioni, oltre la linea del mondo, sfumando nella luce blu del tramonto. Era l’ora più attesa. Quando Zeus apparve – da dietro il sipario e camminando lungo tutto il palco – la folla perse definitivamente il controllo. Le signore, esaltate dalla vicinanza del loro idolo, si tapparono la bocca, sospirando e lanciando gridolini. I ragazzi alzarono un braccio al cielo, salutando un capo che li illuminava di luce nuova. Attempati signori, imprenditori di lungo corso e operai dal volto affaticato, allungarono lo sguardo verso il palco, cercando di incrociare gli occhi di Zeus. Decine di telecamere, sistemate con sapienza in ogni angolo della piazza, riprendevano l’evento, la spettacolarizzazione di un discorso al popolo.

    Era tutto perfetto. Zeus si eccitò sempre più alle urla del popolo, come uno squalo che sente l’odore del sangue e non sa trattenersi. Rideva, saltava, sgambettava, ruotando la testa da un lato all’altro della piazza, per abbracciare tutti i suoi adepti, tutti i suoi figli. Erano il suo consenso e sapeva di doverli coccolare, corrompere e lisciare, allietarne le ore tristi e confortarli nell’infelicità, giocare con i loro pruriti sessuali ed esaltarne le ambizioni. Ogni testa un consenso, ogni consenso un voto.

    «ZEUS ZEUS ZEUS.»

    «Come godono le mie orecchie» urlò Zeus. «Quanta beatitudine tra voi, della quale soltanto io sono degno perché so trattarvi come meritate. Vi ho preso che eravate tristi, grigi, piegati dalle circostanze della vita e ho plasmato una coscienza collettiva della felicità, dell’amore che vince sull’odio. Voi siete la mia soddisfazione maggiore, la personificazione dei miei pensieri più intimi, l’estensione della mia mente e del mio cuore, che batte per voi come mai ha fatto prima.»

    «ZEUS ZEUS ZEUS.»

    «Le mie vittorie sono le vostre vittorie e tutti uniti potremo arrivare dove nessuna popolazione è mai giunta prima. Perché tutti voi, uniti alla mia perfezione, siete una squadra perfetta. Noi siamo come una squadra di calcio e io sono il vostro allenatore, la mente del vostro ardore e la consapevolezza della vostra forza, il comandante delle vostre ambizioni e il generale che vi guida anche nella tempesta. IO PER VOI SONO TUTTO!»

    «ZEUS ZEUS ZEUS.»

    «Voi mi amate perché io ho lavorato bene, perché ho portato il nuovo contro quella politica dei politicanti che vi aveva attanagliato l’esistenza! Io sono l’uomo nuovo. E ora facciamo un piccolo questionario. Vi va?»

    «SÌ.»

    «Volevate ancora tenere aperte le frontiere agli extracomunitari?»

    «NO.»

    «Ne avevate abbastanza degli stipendi in lire e dei prezzi in Euro?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza dell’oppressione burocratica?»

    «SÌ.»

    «Dell’oppressione fiscale?»

    «SÌ.»

    «Dell’oppressione giudiziaria?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza di quelli che si opponevano alle grandi opere?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza dei privilegi dei comunisti?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza delle liste d’attesa nella sanità?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza di chi era in politica da quarant’anni e pretendeva di presentarsi come nuovo?»

    «SÌ.»

    «Ne avevate abbastanza di questa sinistra spendi e tassa, tassa e spendi, che aveva messo in ginocchio il Parnaso?»

    «SÌ.»

    «E allora io ho fatto tutto questo per voi! Vi ho liberato dai vostri incubi! È per questo che avete detto con me: RIALZATI PARNASO RIALZATI PARNASO.»

    «RIALZATI PARNASO RIALZATI PARNASO .»

    «Che Dio vi benedica.»

    Zeus tacque, inchinandosi in perfetta sincronia con la musica, che sparse le prime note, saturando l’aria.

    Dammi la mano, dai…

    e canta insieme a me,

    il cielo è dentro noi

    azzurro più che mai

    e questa forza grande

    è così grande ormai

    dentro me, dentro te,

    più grande che mai,

    è come un fuoco acceso,

    dentro il cuore.

    E il nostro canto va

    su tutte le città,

    sui campanili e giù

    fino all’estremo Sud,

    sopra le vette bianche

    e sulle onde blu,

    sopra noi, ci fa credere in noi,

    racconta di noi

    e insieme cantiamo per te:

    Azzurra libertà

    è il sogno che c’è in noi,

    Azzurra libertà

    Per te ci batte il cuore,

    Azzurra libertà

    Ti difendiamo noi,

    tutti insieme,

    e i doni che dai

    son parte di noi,

    ci danno forza,

    vita.

    *

    Caronte tirò la porta leggermente a sé e girò la chiave nella toppa, finché non si aprì con uno scatto metallico. Era intontito: da quando aveva lasciato la manifestazione di Zeus, sentiva un fischio continuo nelle orecchie, simile a quello dei treni ma più assillante. Si toccò l’orecchio sinistro con l’indice e lo scosse con vigore, ma il ronzio non scomparve. Anzi, gli sembrò quasi che peggiorasse. Accese la luce e camminò lungo il corridoio, attento a non svegliare i genitori. Entrò in bagno e pisciò, appoggiando la fronte contro il muro, come a reggersi durante lo sforzo. Quel fischio continuo gli dava sui nervi. Aprì l’acqua, la fece scivolare fredda nella vasca e ci mise la testa sotto, bagnandosi tutti i capelli; quindi piegò leggermente il collo e fece entrare l’acqua nel padiglione auricolare. Da principio non provò alcuna sensazione, poi gli parve che il fischio diminuisse. Finalmente. Spostò la testa: il rumore dell’acqua che toccava il fondo della vasca era piacevole, rilassante. Rimase ad ascoltarlo per alcuni secondi, finché l’orecchio non produsse un suono tondo, come quando il tappo dello spumante salta, e subito dopo il ronzio riprese, regolare, come se non si fosse mai interrotto. Cazzo!

    Ancora bagnato, percorse a ritroso il corridoio ed entrò in cucina. Il frigorifero ronzava come sempre, ma non riuscì a distinguerne con certezza il rumore. Aprì la porta e prese una bottiglia di aranciata. Bevve soltanto due sorsi e la ripose. Uscì dalla cucina e spense la luce. Dalla finestra, alle sue spalle, entrò un fascio di luce, che si riflesse contro lo specchio, creando minuscoli punti fluorescenti. Erano i fuochi artificiali della manifestazione. Belli, gioiosi, pieni di speranza, divertenti.

    Si lasciò cadere sulla poltrona. Era esausto. I fischi e i botti dei fuochi artificiali non avevano alcun effetto su di lui. Si guardò intorno, osservando ogni angolo della stanza. Era tutto vecchio in quella casa. Vecchio e fragile. I mobili avevano colori improbabili: ciascuno il suo, ciascuno diverso dagli altri. Allungò la mano destra sul bracciolo della poltrona e sentì una sensazione sgradevole, come se avesse toccato qualcosa di sporco e umido. Intanto i fuochi si erano fatti più intensi e rischiaravano la stanza, regalandole un tocco di allegria in contrasto con la sua quotidiana trascuratezza.

    Il fischio continuava a tormentarlo, ostinato. Tappò il naso con il pollice e l’indice, strinse le labbra e provò a espellere l'aria con forza. Sentì uno strappo nell’orecchio destro, il fischio scomparve pochi secondi, per poi ricominciare. Provò ancora tre volte, finché non fu sfinito e decise di prendere sonno. Senza spogliarsi né togliere gli occhiali, appoggiò la testa sullo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. I rumori esterni, dei fuochi e della strada, non lo disturbavano. Prese sonno velocemente e dormì a lungo.

    1

    Zeus chiuse la porta di legno massiccio e batté i tacchi. Passò le mani aperte sulla giacca, per stirarla, e camminò verso la poltrona. Dalle tende, leggermente aperte, entravano sottili raggi di luce, che ferivano gli specchi, per poi rimbalzare in ogni direzione, come imbizzarriti. Dette uno sguardo veloce alla stanza e apprezzò il silenzio, la pace di quel luogo.

    Da qualche giorno Zeus aveva assunto il comando del Governo. Non era particolarmente emozionato, ma piuttosto sentiva quel ruolo come la naturale conclusione della sua attività lavorativa, una sorta di missione. Guardò il calendario sulla scrivania e sospirò: 11 giugno 2001. L’orologio a muro suonò otto colpi. Da lì a qualche ora avrebbe dovuto giurare fedeltà alla Costituzione.

    Si alzò di scatto e andò a sistemarsi di fronte allo specchio grande. Bagnò le mani con la lingua e le passò tra i capelli. Chiuse gli occhi e li riaprì. Tirò fuori la lingua e ne ammirò il colore rosso acceso. Si sentiva un bell’uomo.

    Un colpo alla porta lo distolse dai suoi pensieri. Voltò appena lo sguardo verso destra. Avanti, prego. La porta si aprì in un cigolio e la segretaria entrò in punta di piedi. È tutto pronto.

    «Come sto?»

    «Sta benissimo, presidente.»

    Zeus sorrise. Fece un cenno alla donna di uscire e la seguì a pochi passi di distanza. Quello sarebbe stato il giorno del cambiamento, del potere, l’inizio del Governo del fare. Il tempo dell’attesa era finalmente finito. Cominciava una nuova era.

    2

    IL CAPO DEL GOVERNO DEL PARNASO NON PUÒ ESSERE SOTTOPOSTO A PROCESSI PENALI, PER QUALSIASI REATO ANCHE RIGUARDANTE FATTI ANTECEDENTI L’ASSUNZIONE DELLA CARICA O DELLA FUNZIONE E FINO ALLA CESSAZIONE DELLE MEDESIME.

    Zeus entrò a passi svelti, salutando giocoso l’intera aula del Parlamento e, con sicurezza, si diresse verso la poltrona del Capo del Governo; sedette con garbo e chiuse gli occhi, ascoltando con evidente disinteresse l’ennesima dichiarazione di voto dell’opposizione. Democrazia in pericolo. Vergogna nazionale. Strumento dittatoriale. Prevaricazione. Rivoluzione e involuzione. Strizzò le palpebre e mise a fuoco l’oratore: era livido di rabbia, schiumava odio. Pensò di averne abbastanza di quei signori dell’opposizione, così inutili da non meritare neppure la sua attenzione. Afferrò il giornale e sfogliò una pagina e poi una ancora. Insulti, insulti e ancora insulti. Stupidaggini. Eresie. Puttanate. Fandonie. Montature. Complotto. Complotto. Complotto. Che parola dolce. La ripeteva anche quel tipo dell’opposizione, quel tipo triste che non sa godersi la vita. Zeus rise. Tutti risero in perfetta sincronia. Quindi alzò la testa e squadrò l’oratore di traverso, senza realmente guardarlo. Era interessato ai particolari. La camicia dozzinale, di cotone grezzo, la giacca a quadri, come non si usavano più da tempo. Che tristezza. Che tristezza questi signori dell’opposizione.

    Sfogliò ancora una pagina, uguale alle altre.

    "Zeus Ricconiani è l’uomo più ricco dell’intero Parnaso. Ha costruito una fortuna immensa, con ogni sorta di traffici e di maneggi, ricavandone sempre ottimi risultati."

    Ancora idiozie, ancora puttanate. "I Parnasiani hanno accolto Zeus come il messia. È come se la nuova programmazione televisiva fosse la panacea per tutti i mali, come se l’accensione della TV potesse scacciare la sofferenza e la malasorte."

    Eresie prive di senso.

    "La rivoluzione televisiva di Zeus non è stata isolata, né destinata a esaurirsi, ma piuttosto la punta di un iceberg molto più grande, che coinvolge ogni settore della vita pubblica e privata. Imprenditori, faccendieri, trafficanti, politici, giudici e militari, giornalisti: tutti brindavano alla ricchezza ed alla prosperità, nella quale sguazzavano felici come maiali nel fango.

    Intanto Beoto e Salmoneo, gli alleati più stretti di Zeus, strisciano nel sottosuolo della disperazione popolare. Ne intercettano i problemi e si lanciano come avvoltoi sulle carcasse, pronti a riceverne i voti. Sono furbi e sono opportunisti. Di questo Governo del fare sono l’anima portante, fedeli al Padrone Zeus e sempre pronti all’ubbidienza.

    "Le grida di fame e di dolore che si levano dal popolo non arrivano fino al Governo. Operai, impiegati, cassa integrati, licenziati, chiedono lavoro. Lavoro che non c’è. Ogni giorno migliaia di persone lo perdono e vivono nel terrore di non ritrovarlo, mai più. Zeus ammicca, rassicura, pontifica, ma in concreto non fa nulla. Salmoneo li tiene buoni con storie di quart’ordine ma alla fine li scarica. Poveri operai. Povera classe media!"

    IL CAPO DEL GOVERNO DEL PARNASO NON PUÒ ESSERE SOTTOPOSTO A PROCESSI PENALI.

    MOZIONE APPROVATA.

    Zeus sorrise: quanto male faceva tutto quell’odio. Si alzò in piedi e chiese ai Ministri di fare lo stesso. In fila, come i militari in parata, applaudirono a lungo, tra i fischi e i cartelli di protesta, tra i boati e le risate, tra sentimenti discordi che sembravano dire O con Zeus o contro Zeus. O con me o contro di me. Quante idiozie e quante montature.

    3

    Ticchettò con leggerezza sulla tastiera e poi cancellò ogni singola parola. Poggiò le dita sui tasti, come se potessero suggerirgli qualcosa, e ticchettò ancora. Scrisse il proprio nome, in alto e centrato. Caronte dei Puzzoniani. Andò a capo e fissò il cursore che lampeggiava, impaziente. Una storia ordinaria. Racconti brevi. Schiacciò il tasto dell’interruzione di pagina e digitò Primo racconto. La pagina era vuota e gli faceva paura.

    La sua stanza era l’ultima in fondo al corridoio. Non c’erano rumori ma non c’era neppure silenzio. Si sentiva piuttosto un brusio continuo, regolare. Non gli dispiaceva del tutto perché ci era abituato e anzi gli teneva compagnia, davanti al foglio bianco. Da piccolo pensava che fossero i genitori che conversavano, ma poi si era arreso all’evidenza. Era il televisore. Sua madre a letto, suo padre sulla poltrona, davanti alla TV. Tutte le sere. Anche quella sera. Un brusio indecifrabile.

    Decise di prendere sonno poiché non poteva nulla contro quel foglio bianco che rappresentava un ostacolo insormontabile. Tolse i pantaloni, sfilò la maglietta, fece scendere le mutande e rimase nudo come un verme. Provò a indurire i muscoli. Che schifezza. Aveva più di vent’anni e faceva schifo. Si sentiva inutile. Viveva ancora con i genitori, non aveva la ragazza, non era buono in nessun mestiere. Nulla. Era uno scroccone, ecco cosa. Infilò le gambe sotto le lenzuola e sistemò il cuscino contro il muro, appoggiandoci la schiena.

    Aveva quasi preso sonno quando un rumore, dall’altra stanza, frantumò il brusio. Un rumore sordo, simile a qualcosa che cade. Non ci fece troppo caso e cambiò appena posizione. Dopo pochi secondi le urla di sua madre lo svegliarono del tutto. Scattò in piedi e corse verso il corridoio, senza neppure sapere cosa stesse facendo. Lo spazio da percorrere gli sembrò infinito. Urtò contro la porta, quindi contro un mobile d’acciaio, dove sua madre metteva le foto in esposizione. L’aveva sempre odiato. Allungò le braccia e fece scivolare le mani lungo il muro, ruvido e ostile. Gli sembrava di camminare da una vita e invece era sempre lì, appena fuori la camera, smarrito. Le urla di sua madre avrebbero dovuto guidarlo, ma non era troppo sicuro di capirne la provenienza. Erano così delicate, smorzate dal pianto e dal singhiozzo, che Caronte ebbe la sensazione di immaginarle.

    Armeggiò con l’interruttore della luce, senza riuscire ad accenderla: era come se gli sgusciasse tra le dita. Quando tutto fu illuminato, fece qualche passo, spaventato. Cosa c’è? Cosa succede? I lamenti di sua madre furono l’unica risposta. Si spinse fino al bagno, dove rimase immobile contro lo stipite della porta. Il primo particolare che notò fu l’ombra impressa contro il muro, quindi pensò che c’era un gran silenzio, a parte le urla e i singhiozzi. Soltanto dopo molti secondi vide il corpo di suo padre dondolare. Era appeso per una corda a un gancio da macellaio, che resisteva in quella casa da quando l’avevano presa in affitto. Non aveva un’espressione di sofferenza, ma anzi un leggero sorriso gli apriva il volto, come un ultimo sghignazzo. La moglie gli stava sotto, lo stringeva per le gambe, cercando di tirarlo su. Inutilmente. Caronte restò sulla porta un tempo che non seppe quantificare. Fissava tutto e non guardava niente in particolare. Per un istante gli parve di dormire ancora, che quello fosse un incubo, di quelli che faceva spesso da bambino. Poi si rese conto che era scomparso anche il brusio. E in un lampo il silenzio della notte lo inghiottì.

    L’alba giunse a lavare i peccati. Il primo sole si confuse con le luci intermittenti dell’ambulanza. Le giacche degli infermieri, fosforescenti e sporche, si mescolavano alle ombre dei vicini, che occupavano tutti gli angoli della casa. Non c’era più confusione né orrore, ma soltanto il vocio sommesso della curiosità, che si diffondeva con prepotenza ovunque ci fosse una persona.

    Caronte sedeva sul water. Un infermiere gli era di fronte, occupato a compilare un questionario. Età, professione, residenza, malattie, assunzione di farmaci. È la prassi. Il corpo di suo padre era in un sacchetto, metà nel bagno e metà nel corridoio. Sua madre era svenuta. Ogni tanto sentiva la sua voce, che si sovrapponeva a quella di suo padre e la giudicò una fantasia. Mentre l’infermiere continuava a parlargli fissò il sacco sul pavimento e chiuse gli occhi per piangere. Non una sola lacrima gli bagnò il volto. Sentì, piuttosto, un senso di profonda pesantezza, come se il suo corpo fosse gravido di pensieri ed emozioni che non lo avrebbero abbandonato mai più. Aprì un foglio di carta sgualcito e lesse a voce alta: "Ho perso il lavoro perché non sono capace ad essere qualcuno e quindi non sono più degno di mantenere voi né di far parte di questa società. Mi spiace. Vi voglio bene". Lo lesse e lo rilesse; l’infermiere allungò una mano e la posò sulla sua gamba, per consolarlo, ma Caronte continuò a leggerlo, prima con voce sommessa quindi più alta, finché i portantini non trascinarono via il cadavere.

    Il funerale fu una cerimonia semplice. C’erano i compagni di lavoro, gli amici, i parenti. Il parroco disse che non c’era più pace in terra, neppure per gli uomini di buona volontà, ma che ci sarebbe stato posto per lui nel regno dei cieli. Caronte ascoltò in silenzio, ma non comprese la predica. Abbandonato ai suoi pensieri, che pure non avevano nessuna logica, gli giovava soltanto tenere la mano della madre, in una stretta talmente forte da sentirne dolore. Durante l’intera cerimonia fissò la bara e si chiese il motivo di quel gesto. Per quanto lo desiderasse, non dava segni di angoscia, né era in grado di piangere, sfogando il dolore e al tempo stesso la rabbia. Ogni tanto batteva il piede a terra, con ritmo, cercando di ricordare come facesse quella canzone che piaceva tanto a suo padre...

    Addio Lugano bella o dolce terra mia

    cacciati senza colpa gli anarchici van via

    e partono cantando con la speranza in cuor.

    E partono cantando con la speranza in cuor.

    Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori

    che siamo incatenati al par dei malfattori

    eppur la nostra idea è solo idea d'amor.

    Eppur la nostra idea è solo idea d'amor.

    Il resto delle parole non gli tornava in mente; cercò di chiederle alla madre, ma la donna non sapeva di cosa stesse parlando. Infine si acquietò, aspettando che la messa finisse e che tutti andassero in pace, sentendosi molto triste perché lui la pace l’aveva perduta.

    Quando infine fu sera, nella casa in cui aveva vissuto fino a quel momento,

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