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I sette giorni mancanti di Goffredo Olon Ribaud
I sette giorni mancanti di Goffredo Olon Ribaud
I sette giorni mancanti di Goffredo Olon Ribaud
E-book261 pagine3 ore

I sette giorni mancanti di Goffredo Olon Ribaud

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Info su questo ebook

Goffredo Olon Ribaud, torinese di origini valdostane, giovane in carriera, di buona famiglia, con una bella fidanzata è un ragazzo normale, se non fosse per l’ombra inquietante del suo antenato Jacò Malanima, che lo segue come una maledizione.
Un giorno Goffredo, anzi, Freddy, si risveglia su di un’isola apparentemente tropicale e deserta: indossa abiti da città, ha un cellulare, un anello d’oro al dito, ma ha perso la memoria. Come un novello Robinson Crusoe, inizierà a esplorare l’ambiente sconosciuto e inizialmente ostile, pericoloso, con il quale dovrà fare i conti, ma, soprattutto, dovrà fare i conti con se stesso e con la sua irresistibile tensione verso la ricerca e con l’impulso a salire ad ogni costo sulla cima del vulcano che sovrasta l’isola.
Una storia concitata e avventurosa, che ben presto si rivela come una grande metafora sulla ricerca del senso della vita e un viaggio all’interno della solitudine dell’uomo. Occorreranno sette giorni a Freddy per comprendere che forse è possibile liberarsi dalle catene della condizione umana, sette giorni come quelli biblici della creazione del mondo, per andare al di là della logica e aprirsi all’immane gioia del vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita8 lug 2013
ISBN9788866901372
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    Anteprima del libro

    I sette giorni mancanti di Goffredo Olon Ribaud - Gianni Bosco

    Primo giorno

    La spiaggia

    Uno scarabeo che zampettava faticosamente sulla rena a dieci centimetri dal mio naso, fu la prima cosa che vidi quando aprii gli occhi. Sputacchiando la finissima sabbia che mi si era infilata fra le labbra all’angolo della bocca, mi sollevai dalla posizione prona nella quale mi trovavo. Ancora intontito mi misi a sedere con le gambe piegate, trattenendole con le braccia cinte intorno alle ginocchia, sulle quali appoggiai la fronte.

    Dopo alcuni minuti, continuando a sputacchiare la sabbia che sentivo scricchiolare sotto i denti, mi guardai attorno sgranando gli occhi attonito: un’interminabile spiaggia bianca si estendeva a perdita d’occhio, sia alla mia destra che alla mia sinistra, delimitando un mare calmo e cristallino sul quale il disco rosso del sole, appena sgusciato dall’orizzonte, pareva stare appoggiato.

    Torcendo il busto per guardare alle mie spalle, vidi, a una trentina di metri, un folto intrico d’alberi e palme che, formando una impenetrabile barriera ancora velata dall’incerta luce rossiccia dell’alba, incorniciava la spiaggia per tutta la sua lunghezza.

    Incapace di credere a quello che stavo vedendo, pensai si trattasse di un sogno, ma subito scartai l’ipotesi perché considerai che, per quanto stravaganti possano essere, le visoni oniriche non stupiscono mai, né possono rivelarsi come tali.

    La cosa che mi lasciava sconcertato, però, ancor più del luogo assolutamente sconosciuto nel quale mi trovavo, era il fatto di non avere la più pallida idea di come ci fossi arrivato, e men che meno di chi io fossi.

    Mi guardai incuriosito le mani come se le vedessi per la prima volta; all’anulare destro avevo un anello d’oro, fuso in un unico pezzo, sul cui spoglio castone quadrato era cesellato quel che pareva un crittogramma rappresentato dalle lettere O ed R legate insieme da un ramo di rovo; al polso portavo un orologio di marca con le lancette ferme alle otto e dieci. Stranito, esaminai i vestiti che indossavo: pantaloni in misto lino verde bottiglia, camicia di seta beige chiaro, cravatta a righe trasversali di varie tonalità di verde, giacca dal taglio sportivo color nocciola, calze di cotone della stessa tonalità dei pantaloni, scarpe di morbida pelle marrone chiaro con suole di para e cintura d’identico colore. Che ci facevo vestito in quel modo in un posto simile?

    Il sole s’era già staccato dall’orizzonte d’un bel po’, stringendosi in una luminosità sempre più vivida, quando decisi di alzarmi e incamminarmi verso sinistra in cerca di qualche riferimento che mi facesse rinsavire.

    Completamente immerso nell’ovatta dei miei pensieri senza radici, camminai per un tempo indefinito articolando i passi in modo meccanico, come un automa, finché, infastidito dalla sabbia che vi finiva dentro, mi tolsi scarpe e calze. Con i calzini nelle tasche della giacca e le scarpe, con i lacci legati fra loro, a penzoloni sulla spalla, continuai a piedi nudi.

    Il paesaggio bellissimo nel quale m’inoltravo era immerso in un silenzio irreale rotto dall’appena percettibile sciabordare del mare sulla battigia e dallo scrocchiare dei miei passi sulla sabbia. Non un alito di vento soffiava fra i rami degli alberi, né uno strider di gabbiani o un frullar d’ali rompeva quella strana quiete; ma di tutto questo lì per lì non mi avvidi, risucchiato com’ero nel vuoto della mia memoria.

    Dopo un altro po’ di cammino, mi sfilai la cravatta slacciandomi il colletto e quando giunsi a un’ampia insenatura che, profonda, rompeva il lineare proseguire della spiaggia, già m’ero tolto la giacca e rimboccato le maniche della camicia.

    Al centro della baia la barriera verde arretrava formando un’ampia radura. Speranzoso, mi ci diressi camminando di buona lena. Sembrava quello un posto idoneo per trovarvi qualcosa che mi potesse, se non proprio far raccapezzare, almeno fornire delle buone indicazioni. In realtà quell’insenatura pareva un approdo ideale per chiunque fosse giunto dal mare, tuttavia mi fu presto evidente che, se mai qualcuno fosse sbarcato su quel litorale, di certo non l’aveva fatto di recente, perché anche l’insenatura, come tutto il resto della spiaggia, appariva assolutamente vergine.

    Con la speranza di trovarvi qualche indizio, decisi di avvicinarmi alla boscaglia in fondo alla radura.

    Man mano che mi allontanavo dalla riva, il terreno diventava più compatto, trattenuto dalle radici d’un’erba spessa e dura che, crescendo sempre più fitta, s’allargava tutt’attorno fino a nascondere il suolo sabbioso con i suoi rigidi steli.

    Intimorito da quel procedere alla cieca senza vedere dove mettevo i piedi, decisi di rimettermi le scarpe; nel chinarmi uno stelo di quell’erba, che mi lambiva le ginocchia, come un aculeo, mi graffiò lo zigomo destro appena sotto l’occhio. Infastidito dal bruciore, lanciai un’imprecazione toccandomi la guancia.

    Contrariato da quel piccolo inconveniente, già stavo per abbandonare il proposito di raggiungere la boscaglia quando vidi, fra i rami di uno degli alberi, qualcosa di colorato. Incuriosito mi ci diressi, notando dei frutti ovoidali d’un color violaceo simili a manghi maturi. Pensai che quei frutti avrebbero potuto rinfrancarmi, perché erano belli da vedere e, quando ne presi uno, valutai, toccandolo, che la polpa fosse sugosa e ricca. Rompendo la buccia con l’unghia dei pollici, lo aprii e con cautela lo assaggiai. Ripetei l’operazione diverse volte prima di gettarlo via stizzito: era totalmente scipito, e il suo succo leggermente vischioso allappava la bocca senza dare alcun ristoro.

    Deluso, ritornai sui miei passi verso la spiaggia. Raggiunta la riva, mi sciacquai le mani appiccicaticce del succo sciapo di quel frutto.

    Il sole era ormai alto nel cielo terso, senza nuvole, tanto da apparire, nell’innaturale immobilismo di quella speciosa natura, monotono.

    Dopo un lungo camminare, giunsi in un punto in cui un torrentello, tagliando la spiaggia, confluiva nel mare. Rincuorato, mi ci diressi e, dopo aver risalito il suo corso per una ventina di metri, prima che s’addentrasse nella boscaglia, mi chinai e prendendo un po’ d’acqua fra le mani riunite, ne bevvi un sorso; subito la sputai disgustato: era amara! Scrollando le mani, con le labbra stirate e gli occhi strizzati in una smorfia di ripugnanza, guardai il torrente, incredulo. Che posto era mai quello? Non poteva esistere veramente! Con disappunto, considerai che ogni cosa in quel luogo appagava soltanto la vista, lasciando una profonda inquietudine nel cuore. Tutto pareva sul punto di regalare intense emozioni subito frustrate, esalate come un singhiozzante respiro. Pareva un luogo fatto per la vita, ma privo d’alito vitale.

    Turbato da questo pensiero, cercai di capire a cosa fosse dovuta l’amarezza di quell’acqua. Mi rimboccai i calzoni fino alle ginocchia e, camminando nell’acqua bassa, tentando di risalire il corso del torrente, m’inoltrai nella macchia. Percorse alcune decine di metri, dovetti desistere perché il letto del torrente si perdeva nell’intrico della boscaglia che, facendosi sempre più fitta, divenne impenetrabile.

    Tornato sulla spiaggia, mi sedetti all’ombra di una palma.

    La mia mente era un inconcludente, frenetico andirivieni di pensieri che, rincorrendosi, percorrevano il breve tragitto dal mio risveglio fino a lì. Con la nuca appoggiata al tronco dell’albero, rimasi con gli occhi chiusi per molti minuti. Com’ero arrivato in quel posto che, forse perché rappresentava tutto il mio vissuto o per chissà quale altra incomprensibile ragione, ora mi sembrava familiare? Considerai che difficilmente c’ero potuto arrivare da solo, allora chi m’aveva portato, e per quale motivo m’aveva poi abbandonato lì?

    I miei pensieri continuavano a sbattere, con sempre maggior insistenza, sui metallici riflessi verdi dello scarabeo, l’unico essere vivente che avessi visto dal mio risveglio, come cercando di penetrarne la corazza e sgusciare nel mare dei miei ricordi, che certamente era lì, appena oltre quell’impalpabile eppur tenace cortina d’oblio.

    Il mare, praticamente immoto, scintillava sotto il sole, vuoto come le pagine bianche d’un libro che, solo pensato, fosse stato irrimediabilmente dimenticato, con i suoi enigmi scivolati oltre l’orizzonte e l’oscuro arcano dei suoi abissi, dal quale sarebbe potuto emergere, improvviso e ammaliante, il canto d’una sirena:

    Freddy … Freddy! Mi senti?

    Trasalii violentemente. Spalancai gli occhi, staccando la schiena dal tronco al quale ero appoggiato. Chi m’aveva chiamato? Balzato in piedi, mi guardai attorno, tutto era come prima, nulla era mutato, eppure ero certo d’aver sentito quella voce: una voce calda e dolce, familiare, che mi stava chiamando.

    Chi è… chi mi chiama? gridai. Il suono della mia voce, che solo allora mi resi conto di non aver ancora udito, si perse nel silenzio irreale di quella spiaggia.

    Raccolte la giacca e le scarpe, corsi verso la riva continuando a guardarmi attorno. Quando, rassegnato, mi convinsi che davvero non c’era nessuno, ripresi il cammino.

    I miei pensieri ora avevano un elemento in più intorno a cui ronzare: Freddy … Freddy! perché avevo pensato, d’istinto, che qualcuno stesse chiamando me? Freddy era davvero il mio nome?

    Completamente assorto, camminavo velocemente, ingobbito sotto il peso di quel pensiero che, rimbalzando nel vuoto della mia memoria, rimbombò trasformando il suono di quel nome in un’assillante eco che via via prese a serrarmi il cranio in una ferrea, soffocante morsa, opprimendomi al punto da farmi sentire totalmente indifeso, aggredito da un demone capace di rubarmi, insieme con l’identità, l’anima stessa.

    Cercai di deglutire come per liberarmi, inghiottendolo, da quel tormento, ma la lingua e la gola non assecondarono il mio impulso cosicché, spaventato dall’incapacità di governare i miei stimoli, caddi bocconi sulla sabbia in preda a un sordo panico che mi fece sussultare in balia di incontrollabili convulsioni.

    Spossato, rimasi molto tempo rannicchiato sulla spiaggia sotto il sole a picco. Pian piano, avvolto da quel calore, mi rilassai, finché, recuperato il controllo delle mie emozioni, mi rialzai riprendendo, barcollante, il cammino.

    Poco oltre, quell’interminabile arenile si stringeva orlando quel che pareva essere un promontorio calcareo modellato dal vento e dalle onde che, innalzandosi per una decina di metri, s’allungava nel mare, magnifico, nel suo spettacolare candore venato da cangianti striature madreperla.

    Arrivato a quella parete di roccia, cercai il modo di raggiungerne la cima. L’unica via accessibile pareva essere il pendio ricoperto di cespugli che dalla sommità di quel dirupo digradava, appena all’interno di quella costa, fino a raggiungere la spiaggia.

    Mi ci volle una buona mezzora per risalire quell’intrico di arbusti legnosi. Con gran sollievo (il leggero tessuto dei miei calzoni poté offrire ben poca protezione dal graffiante abbraccio di quella fratta), raggiunta la cima, salii su di una larga roccia che si protendeva, come una maestosa terrazza, sulla punta di quel che si rivelò essere effettivamente un promontorio.

    Estasiato mi fermai ad ammirare l’incantevole spettacolo di quella spiaggia che, oltre quel capo, ancora proseguiva a perdita d’occhio, bianchissima, scivolando in modo indistinto nel limpido mare che via via assumeva una sempre più marcata tonalità turchina, intrecciata dal lucente reticolo dei riflessi luminosi dei raggi solari rifratti sull’ondulato fondale.

    Soggiogato da quella strabiliante visione, mi volsi a guardare verso l’interno di quella costa scorgendo, oltre il mare verde d’una rigogliosa selva, la cima d’un monte che solitario s’ergeva imponente, velato dall’addensarsi dei pur tenui vapori dell’atmosfera. La mia attenzione fu attratta da un pennacchio bruno che, dalla sommità di quel monte, s’alzava dritto verso il cielo disperdendosi, altissimo, nell’atmosfera.

    Non potei fare a meno di notare, non senza apprensione, che la totale assenza di vento e di qualsiasi altro refolo vitale conferiva a quello stupefacente paesaggio l’atmosfera inquietante e irreale d’un incantesimo nel quale la vita pareva cristallizzata, incapace d’esprimersi, se non attraverso un’apparenza sublime eppur effimera, vuota d’ogni essenza: inutile.

    Scuotendomi dallo stupore, trascinato da un’ansia crescente, scesi dalla roccia addentrandomi, malvolentieri, nel ginepraio, facendomi largo tra i graffianti arbusti che incontrastati avevano invaso anche il versante opposto del pendio dal quale ero venuto.

    Raggiunta la spiaggia, mi tolsi nuovamente le scarpe e, procedendo spedito sul bagnasciuga, ripresi il cammino continuando nella direzione presa fin dal mattino.

    Memore della brutta esperienza vissuta poco prima, cercai di impedire alla mia mente di fissarsi troppo a lungo su di un pensiero. Mi concentrai sul cammino cercando di scoprire ogni minimo indizio che rivelasse una qualche presenza, perché non potevo credere che, in un posto così straordinario ed esteso, non ci fosse altri che me. Ma per quanto scrutassi con attenzione ogni più piccola traccia, non riuscii a trovare il benché minimo segno d’una presenza sia pure remota nel tempo: non una cartaccia o un tappo arrugginito di birra o di qualche altra bibita, né una bottiglietta di plastica o legnetti anneriti residui d’un falò. Pareva un luogo affatto inesplorato. Come c’ero potuto finire e perché? Sentendo salire l’affanno nel petto, distolsi subito il pensiero, fissando la mia attenzione su di un gruppo di palme che poco più avanti, crescendo a pochi metri dalla riva, colmando una piccola rada, invadevano la spiaggia piegate sull’acqua a formare un angolo d’una bellezza paradisiaca.

    Raggiunto quel luogo, mi sedetti sul tronco di una di quelle palme incapace di gustare l’incanto di quel paradiso, atterrato com’ero dall’angosciosa zavorra del mio insensato nulla. Cominciai a pensare che forse avrei dovuto andare nella direzione opposta a quella che avevo preso; forse era stato un errore allontanarsi dal posto dove m’ero svegliato quella mattina; forse qualcuno mi stava cercando altrove; forse era meglio non andare oltre o, forse, sarei dovuto tornare indietro. Forse, forse, forse!… Stizzito da quella valanga di dubbi che fuoriuscivano dalla mia vuota mente come anelli d’una catena d’ancora che, sgranati dal vano d’una nave, si perdono in mare trascinati verso oscuri fondali, m’alzai in piedi di scatto riprendendo, con decisione, il cammino nella medesima direzione di prima, determinato a non lasciarmi irretire dall’esitazione che, trovando nella precarietà del mio confusionario stato una fertile coltura, mi resi conto, m’avrebbe fiaccato ancor più privandomi di quel residuo di lucidità che ancora mi rimaneva.

    La mia strenua resistenza, però, fu messa a dura prova allorché, dopo un lungo camminare, superata un’ansa coperta di convolvoli dalle larghe foglie stesi come una rete a trattenere la sabbia, vidi che la spiaggia proseguiva inalterata a perdita d’occhio. Lo scoraggiamento stava ormai per sopraffarmi quando, notando l’ombra degli alberi allungarsi sulla sabbia verso il mare, allarmato dall’approssimarsi della sera, trascinato dal timore d’essere sorpreso dall’oscurità in quella solitudine, raccogliendo le ultime energie psichiche e fisiche, m’imposi di aumentare l’andatura.

    Il sole era già sceso oltre le cime degli alberi quando qualcosa attirò la mia attenzione: una fila ordinata di fossette, evidenziate dalla luce radente, segnava la spiaggia. Istintivamente mi voltai e vidi che erano simili a quelle che i miei piedi lasciavano sulla sabbia: orme! Non c’erano dubbi, erano orme umane! Qualcuno era passato da lì!

    In preda all’eccitazione, seguii quelle tracce a passo spedito, ed ecco laggiù qualcosa spiccava sul bianco della sabbia, un oggetto sicuramente anomalo in quel luogo che, ne ero ormai certo, avrebbe confermato una sicura presenza. Correndo lo raggiunsi e, appena l’ebbi raccolto, rimasi inebetito a fissarlo finché, scossomi dallo sbigottimento, affannosamente cercai nelle tasche della giacca e dei calzoni senza trovarvi quello che avrei sperato: quella che tenevo fra le mani era dunque la mia cravatta a righe trasversali verdi. Smarrito, fissai lo sguardo sulle impronte che a perdita d’occhio rompevano l’uniforme e regolare estendersi di quell’arenile, comprendendo, con cruda lucidità, che quelle erano le orme da me lasciate quella stessa mattina! Un’isola! Quella spiaggia, allora, non era altro che la costa di una sperduta, ignota, dimenticata isola!

    Svuotato d’ogni energia mentale, continuai il cammino trascinandomi con passi molli, strascicando la giacca sulla sabbia con le braccia abbandonate lungo i fianchi, seguendo le mie stesse orme che, presto, ormai ne ero ben certo, m’avrebbero condotto all’ampia insenatura.

    Giunsi alla baia che ormai le ombre del crepuscolo avevano completamente invaso la spiaggia. In quel punto, appena all’ingresso dell’insenatura, dei massi levigati emergevano dalla sabbia formando un semicerchio che andava a lambire l’acqua di quel mare placido al limite dell’inquietudine.

    Seduto sulla sabbia, con la schiena appoggiata a uno di quei massi, tenendomi la testa fra le mani, cercai di riordinare le poche, confuse idee che, rotolando come incontrollate pietre lungo l’impervio pendio d’un’impossibile, eppur vera, realtà, urtando contro imprevedibili ostacoli, rimbalzavano impazzite, precipitando verso il baratro del più cupo smarrimento; finché un pensiero, per un attimo catturato in quel frenetico vortice, mi portò a riflettere che, se mi trovavo da solo in un’isola, presumibilmente deserta, forse ero stato vittima d’un naufragio nel quale, traumatizzato, avevo perso la memoria! Questo pensiero, per alcuni momenti, mi galvanizzò, regalandomi uno squarcio di rassicurante logica in una faccenda totalmente assurda.

    Ben presto però questo mio ragionamento, apparentemente razionale, andò a infrangersi contro la prova ancor più concreta che, se fossi precipitato in mare, i miei delicati vestiti ne avrebbero mostrato i segni, cosa questa che, risultava evidente, non appariva per nulla così. Nel disperato tentativo di mantenere viva quella flebile traccia razionale, presi un lembo della manica della camicia in bocca e lo succhiai sperando di sentire, contro ogni speranza, il gusto salso del mare. Inutilmente.

    Questa fallita spiegazione dei fatti, tuttavia, mi indusse a volgere l’attenzione più verso me stesso che verso le cose che mi stavano attorno, spingendomi a fare la cosa che avrei dovuto fare fin dal mio risveglio: frugare nei miei vestiti, nelle tasche della giacca e dei calzoni.

    Dai calzoni trassi fuori un fazzoletto di cotone bianco e dalle tasche esterne della giacca, un accendino a gas usa e getta, un mazzo di chiavi e un coltellino a serramanico. Nel taschino, trovai un telefono cellulare. Provai ad accenderlo, ma subito mi resi conto di non ricordare il pin d’accesso, per giunta, non captando alcun segnale, risultava del tutto inutile. Nella tasca interna trovai un portafoglio di pelle chiara contenente trenta euro e un documento personale. Come avevo fatto a non pensarci prima? Quel documento mi avrebbe certo rivelato chi io fossi.

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