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Ciaopoveri
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E-book756 pagine10 ore

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Info su questo ebook

Ciao poveri è lo sfottò utilizzato da Gabriele Roccia per prendersi gioco di chi non ha la fortuna di essere ricco quanto lui e sua sorella Fiordaliso. I due ventenni, rampolli della miliardaria famiglia Roccia, conducono una vita di eccessi nei luoghi più esclusivi della Milano bene in compagnia di una ristretta cerchia di rich-kids come loro, e non si pongono limiti né di budget né di comportamento.
L’esistenza pigra e scintillante dei due fratelli viene scombussolata dall’improvvisa uscita di scena dei loro genitori. Per Gabriele e Fiordaliso sarà l’inizio di un cammino costellato di difficoltà: dovranno guardarsi da truffe, pericolosi criminali, e soprattutto dalle persone che dicono di amarli.
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2020
ISBN9788855390958
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    Anteprima del libro

    Ciaopoveri - Eleonora Scali

    Photo/damedeeso

    1. Pietro Roccia

    Pietro Roccia raggiunse la Rock Investments alle sei in punto, come ogni mattina. Prima di mettersi alla scrivania, si godeva il silenzio delle stanze immobili, che di lì a poco sarebbero state invase da passi, trilli telefonici, ronzii di monitor e stampanti e dall’immancabile sottofondo di notiziari economici da tutto il mondo. Attraversò l’open space che ospitava le postazioni di lavoro del suo staff ed entrò nel suo ufficio. Accese la macchina del caffè che stava sul mobile bar accanto alla scrivania, e si preparò un espresso corto e forte come piaceva a lui. Mentre lo sorseggiava, si affacciò alla vetrata che illuminava la sua stanza su tre lati. Restò a lungo a osservare i giardini del Centro Colleoni, il prato all’inglese, il laghetto centrale e la sciarpa di smog che infagottava Milano in lontananza.

    Gli vennero in mente i suoi genitori e i sacrifici che avevano fatto perché frequentasse la Bocconi. Erano piccoli imprenditori del settore manifatturiero, a volte gli affari andavano bene, altre meno. Nonostante ciò, non si erano tirati indietro nemmeno quando lui aveva espresso il desiderio di conseguire un MBA negli Stati Uniti. Peccato che non potessero vedere dov’era arrivato. Pietro non riusciva a perdonarsi di essersi allontanato da loro così presto e si rammaricava di non poterseli più godere adesso che aveva il tempo.

    Bevve l’ultimo sorso di caffè ingoiando quei rimpianti e si mise al lavoro. Gli restavano un paio d’ore prima che arrivasse Dora, la sua assistente, e il resto del personale. Quelle del mattino presto erano le ore più preziose per lui. Approfittando della solitudine e del silenzio, la sua mente finanziaria viaggiava alla velocità della luce ed elaborava le migliori strategie.

    Alle nove, Dora si affacciò alla sua porta. «Buongiorno Pietro. Posso?»

    «Sì, accomodati» la invitò lui. La donna prese posto davanti alla scrivania di Pietro. «Ho già dato una scorsa alle mail e ai tabulati arrivati questa notte. Ti aggiorno» disse Pietro. «La performance complessiva dei global corporate bond americani è buona. Chiama Ronald a New York e digli di suggerire ai suoi clienti di aumentare il capitale investito. L’avvocato Baldini sospetta che qualcuno della ICS voglia silurare le nostre operazioni sul mercato asiatico e mi chiede di intervenire. Io, invece, sono per temporeggiare. Credo sia tutto un bluff. Comunque, di questo me ne occuperò personalmente.»

    Dora, che era il braccio destro di Pietro da oltre dieci anni, ascoltava in silenzio e prendeva appunti. Sapeva che quando il dottor Roccia partiva col flusso di riflessioni mattutine non andava interrotto. Più tardi ci sarebbe stato tutto il tempo di fargli eventuali domande.

    «Per quanto riguarda i ragazzi» continuò Pietro riferendosi al resto dello staff «di’ loro di fare un’accurata analisi del bilancio della Euro FSG prestando attenzione all’utile, ma soprattutto al capitale netto contabile. È quello il miglior indicatore delle risorse investite da parte degli azionisti. Non c’è altro» concluse. «Adesso, Dora, ci prendiamo un buon caffè insieme.» Quella era la seconda parte della mattinata, la più rilassata, dove lui e la sua fedele assistente chiacchieravano del più e del meno.

    Dora aveva festeggiato di recente le nozze d’argento ed era madre di tre figli. Uno di loro l’aveva appena resa orgogliosamente nonna. La nipotina neonata era l’argomento preferito della donna che non perdeva occasione per mostrare a Pietro le foto e i video della piccola sul cellulare.

    Sarebbe piaciuto anche a Pietro avere dei nipotini, se non subito in un prossimo futuro, ma i suoi figli erano ben lontani da dargli soddisfazioni del genere. Gabriele, a venticinque anni, frequentava ancora il secondo anno di economia alla Cattolica. Speranze che avrebbe presto lavorato al suo fianco, come Pietro aveva auspicato, non ce n’erano. Quanto alle relazioni sentimentali, suo figlio cambiava ragazza come i calzini sporchi; a fidanzarsi seriamente e, un giorno, mettere su famiglia non ci pensava proprio. Fiordaliso di anni ne aveva appena ventuno. Si era diplomata al liceo artistico per il rotto della cuffia e poi si era iscritta a un corso di spettacolo e cinematografia. Pietro l’aveva messa in guardia sulla difficoltà di sfondare in quel campo, ma lei sosteneva che non c’era altro che volesse fare nella vita se non cantare e ballare in televisione e lui si augurava che, dopo essersi tolta quel capriccio, trovasse un bravo ragazzo, si sposasse e sfornasse uno stuolo di bambini. Se non i figli, almeno i nipoti avrebbero potuto prendere le redini della Rock Investments, un giorno.

    All’una, Pietro interrompeva il lavoro per uno spuntino veloce in ufficio e si concedeva un pisolino di quindici minuti sul grande divano di cuoio invecchiato. Era un momento irrinunciabile della giornata, serviva a ricaricare le batterie per non arrivare a casa, la sera, stanco morto. Là, nella villa di Bergamo, lo aspettava sua moglie Asia. Pietro ci teneva a trascorrere del tempo che fosse tutto per loro due: una cenetta intima, un’uscita con gli amici, un concerto a teatro o qualunque cosa lei desiderasse fare.

    Si era appena sdraiato sul suo adorato divano, quando Dora bussò con tocco leggero alla sua porta. «Mi dispiace disturbarti, Pietro. Sia Fiordaliso che Gabriele hanno telefonato per avvisare che vengono a trovarti adesso. Non mi hanno detto il motivo, ma sembrava urgente.»

    Pietro si alzò di malavoglia dal divano. I suoi figli conoscevano le sue abitudini, sapevano che quell’orario era sacro per lui, tuttavia se n’erano fregati. Le loro esigenze venivano prima di quelle di chiunque.

    «Figli, gioie e dolori» mormorò mentre si dirigeva al bagno annesso all’ufficio. Trovare le gioie che Gabriele e Fiordaliso gli davano gli risultava difficile. Sono certo che Asia ne troverebbe un mucchio si disse sospirando.

    Nel bagno, il grande specchio gli rimandò un viso bianco come lo statuario di Carrara che rivestiva pareti e pavimento. Devo prendermi una pausa e portare Asia a fare un viaggio pensò. Controllò che la camicia non avesse grinze e la cravatta fosse a posto e sedette alla scrivania. In quel momento, la porta si spalancò senza che nessuno avesse bussato o chiesto permesso ed entrarono i suoi figli.

    «Ciao papi, come stai?» Una tuta di lycra leopardata, sovrastata da una criniera di boccoli biondi, gli si buttò al collo e gli stampò un bacio sulla guancia.

    Dietro Fiordaliso veniva suo fratello. «’Giorno» borbottò come se fosse entrato in carcere. Con passo ciondolante raggiunse il divano, dove fino a un minuto prima Pietro stava facendo il suo amato pisolino, e ci si lasciò cadere come un ciocco di legno.

    «Che ci racconti, papi?» chiese la ragazza. Fra i due, lei almeno fingeva di essere felice di vedere il padre.

    «Le solite cose: lavoro, lavoro e lavoro. Voi, piuttosto, cosa state facendo?»

    Fiordaliso e Gabriele non vivevano più a Bergamo con i genitori da qualche anno e Pietro e Asia non avevano molte occasioni di vederli. Fiordaliso abitava in un superattico a Parco Sempione, regalo di papà per il diploma. La posizione, a metà strada fra gli studi Rai e la sede del gruppo Mediaset, l’aveva scelta lei. Diceva che così avrebbe avuto a portata di mano il suo futuro posto di lavoro.

    «I miei impegni per questa settimana, papi, sono: un evento legato alla fashion week, una festa in discoteca dove farò la testimonial per il lancio di una linea di occhiali in edizione limitata dello store di Montenapoleone e le riprese per un videoclip.»

    «Gli occhiali col frontale di velluto, la lente specchiata e lo skyline di Milano serigrafato sull’astina?» chiese Gabriele.

    «Yes, esattamente quelli» rispose Fiordaliso.

    «Fighissimi. Riesci a farmene avere un paio gratis?»

    «Se gli scatti come testimonial al party in discoteca avranno il ritorno sperato, può darsi di sì.» Fiordaliso mise il sedere leopardato sulla scrivania del padre, accavallò le gambe in una posa sexy e continuò: «La mia popularity sta crescendo, i miei numeri sui social anche, quindi è possibile».

    «Piantala con le cagate, Fiore. Mi fai avere quegli occhiali o no?»

    «Tu quando mai fai qualcosa per me? Vai allo store e comprateli» rispose lei e tornò a rivolgersi al padre: «Ti stavo dicendo, papi? Ah, sì, il mio videoclip. Al corso di spettacolo e cinematografia ho inciso un brano un po’ reggaeton e un po’ bombaton, roba forte. Adesso, come parte del programma di studi, giriamo un videoclip. Devi assolutamente vederlo».

    «D’accordo tesoro, non me lo perderò per niente al mondo» disse Pietro. «A te, Gabriele, come vanno le cose?»

    Il ragazzo abitava a due passi dalla Pinacoteca Ambrosiana perché gli tornava comodo per l’università. L’appartamento di lusso con tanto di garage era costato una fortuna a Pietro, tuttavia aveva valutato che essendo vicinissimo alla Borsa di Milano avrebbe sempre potuto utilizzarlo come foresteria per la Rock Investments, nel caso suo figlio si fosse stufato di viverci.

    «Alla grandissima» rispose il ragazzo. «Ieri ho ridato l’esame di economia monetaria e l’ho superato.»

    «Bravo» si congratulò Pietro. «Quanto hai preso?»

    «L’esame è andato. Che te ne frega del voto? Lo sai che non voglio fare il contabile come te. Io sono un animatore, vivo di relazioni interpersonali, mi piace fare il pirla, rimorchiare. Fra social, shopping e feste, trovare il tempo per studiare è davvero difficile. E poi, sono giovane, lasciami godere la vita.»

    Pietro pensò che l’unica cosa giusta che aveva detto suo figlio era pirla. Sì, Gabriele era proprio un pirla. Alla tua età io era già laureato e ambivo all’MBA avrebbe voluto dirgli, ma quella mattina non era in vena di scontri.

    Nel frattempo, Fiordaliso aveva tolto il culo dalla scrivania e si aggirava per l’ufficio toccando ogni mobile e soprammobile con aria disgustata. «Quando ti deciderai a cambiare ufficio, papi?»

    «Fiore ha ragione, papà. Il target di clienti della Rock Investments è top quality. Dovresti spostarti in una location più trendy. Magari in centro a Milano» suggerì Gabriele.

    «E devi farla arredare in modo fashion. Ti serve un designer con un concept preciso» aggiunse Fiordaliso. «Allora, papi, lo cambi questo ufficio old style, o no?»

    Pietro spostava lo sguardo da uno all’altro. "Trendy, top quality, concept"? Avevano davvero idea di quel che dicevano? «Finitela con questa storia, ragazzi» disse con un sospiro. «A me piace questo posto. È vicino all’autostrada, ha un garage coperto, nell’edificio di fronte ci sono bar, ristoranti, un’agenzia viaggi, un corriere espresso e un centro stampa. C’è pure lo studio del dentista, se mai ne avessi bisogno.»

    «È dozzinale, papi» insistette Fiordaliso.

    «Però, ha una pista per gli elicotteri che, come sapete, utilizzo spesso. Dove lo trovo un posto così in centro a Milano?»

    «Secondo me potresti…»

    «Basta, Fiore. Papà ha ragione» intervenne Gabriele lanciando un’occhiataccia alla sorella. Non erano lì per discutere dell’ufficio e far inalberare il padre, ma per dirgli che la paghetta mensile andava rivista.

    Gabriele e Fiordaliso disponevano di un conto con carta di credito oro, dove ogni mese Pietro versava centocinquantamila euro. I due fratelli erano anche intestatari di un fondo d’investimento miliardario ciascuno, tuttavia era il loro padre ad amministrarli. Le discussioni su quell’argomento erano continue. Secondo Pietro, la paghetta che gli passava era perfino eccessiva. «Alla vostra età, io non mi sarei mai sognato di possedere una cifra del genere, tantomeno di bruciarla in trenta giorni» diceva ai figli ogni volta che battevano cassa. Asia, invece, li giustificava sempre. «Amore, sono ragazzi. Se non si divertono ora…» diceva a Pietro. Nel loro rapporto di coppia, gli unici scontri vertevano sul comportamento dei figli e sul denaro che spendevano. Pietro aveva riposto su di loro grandi aspettative, che erano state periodicamente disattese, e pretendeva che imparassero almeno ad amministrarsi. Asia li difendeva con la scusa che erano giovani e che avrebbero imparato col tempo.

    «Okay, papi. Lasciamo perdere l’ufficio» disse Fiordaliso. «C’è un’altra cosa della quale vogliamo parlarti. Glielo dici tu, Gabri?»

    «Io?»

    «Sei il maggiore, lascio a te la parola.»

    «Ma l’idea è anche tua.»

    «Insomma, la fate finita? Cosa devi dirmi Gabri?» chiese Pietro.

    «Ecco, io e Fiore abbiamo pensato che forse… sarebbe il momento di…»

    «Allora?» Il tono di Pietro si era fatto nervoso.

    «Forse sarebbe il momento di ridiscutere la paghetta» sparò Gabriele d’un fiato.

    Il padre lo guardò storto.

    «È solo un’idea» intervenne Fiordaliso in soccorso del fratello.

    «Ancora questa storia? Datemi un buon motivo per cui dovrei…»

    Una chiamata di Dora dall’interfono interruppe la frase di Pietro.

    «Sì, Dora?» rispose lui.

    «Ti volevo ricordare la videoconferenza con la DowDuPont» disse l’assistente.

    «Va bene, grazie.» Pietro tornò a guardare i figli. «Adesso devo rimettermi al lavoro. Grazie a voi non ho fatto nemmeno il mio pisolino, oggi. La paghetta non è in discussione. Alla vostra età, io…»

    Gabriele e Fiordaliso alzarono gli occhi al cielo, conoscevano quella tiritera a memoria. Salutarono il padre e si dileguarono alla stessa velocità con la quale erano comparsi.

    L’ascensore li riportò al piano interrato del palazzo dove avevano parcheggiato le auto, una Ferrari 812 e una Lamborghini Huracan. Le aveva scelte e acquistate personalmente Pietro perché, per quanto fosse attento al denaro, c’era una cosa alla quale non poteva resistere: le auto. Negli anni ne aveva collezionate oltre duecento. Fra i suoi tesori, come li chiamava lui, c’erano una Stanley Steamer, una Baker del 1909, una Bentley Continental R nell’originale modello rosso e una Duesenberg Model SJ Convertible del 1935, la sua preferita.

    «Uffa. Anche stavolta è andata male» borbottò Fiordaliso mentre apriva lo sportello della Ferrari.

    «Colpa tua. Hai tirato fuori la storia dell’ufficio e l’hai fatto incazzare» disse Gabriele.

    Lei scrollò le spalle e gli fece una linguaccia. «Che programmi hai per oggi?» gli chiese.

    «Vado da Fresco & Cimmino a mangiare un boccone con Guido Dirado, il mio compagno di università. Faccio un salto da Armani Manzoni 31 a comprare due cosette e passo dalla mia profumeria di fiducia a ritirare il Clive Christian che ho ordinato. E tu?»

    «Ho una giornata da hashtag-mi-viene-l’ansia. Devo assolutamente trovare gli outfit adatti agli eventi di questa settimana e andare all’Hammam della Rosa per dei trattamenti estetici. Più tardi mi faccio un aperitivo con Corinne e Ippolita.»

    «Ippolita, la vaccona stalker?»

    «Non chiamarla così, lo sai che è ancora innamorata di te.»

    «Ciao, ci si vede in giro» tagliò corto Gabriele. Sprofondò sul sedile della Lamborghini e uscì dal garage sgommando.

    Pietro si affacciò alla vetrata dell’ufficio in tempo per vedere la Ferrari e la Lamborghini che lasciavano il Centro Colleoni. Che faccia tosta quei due si disse riflettendo sulla visita a sorpresa dei suoi figli. Chiedono, chiedono, ma non fanno mai nulla. Quel pensiero gli fece venire in mente che Asia aveva un appuntamento dal medico alle due e che aveva promesso di farsi accompagnare da Gabriele o da Fiordaliso, ma se quei due fannulloni erano ad Agrate non sarebbero mai arrivati a Bergamo in tempo. Pietro alzò il telefono e chiamò Asia.

    2. Asia Carminati

    A Bergamo, a Villa Roccia, Asia aveva pranzato e si stava preparando il secondo caffè della giornata. Il primo lo prendeva con Pietro all’alba. Lui insisteva che era una stupidaggine che si alzasse così presto, ma Asia era affezionata a quella consuetudine. Svegliarsi insieme, la moka sul fornello, il gorgoglio e l’aroma di caffè che si diffondeva in cucina; due tazzine e loro, seduti uno di fronte all’altra, a parlare dei rispettivi impegni per la giornata, dei figli o in silenzio a guardarsi semplicemente negli occhi.

    Era un momento che nel migliore dei casi durava una decina di minuti. Tuttavia, per Asia era importante. La riportava indietro nel tempo, quando l’intera casa era grande quanto l’attuale cucina e dalle finestre si scorgevano gli inquilini dell’appartamento di fronte, invece delle colline bergamasche. La qualità della loro vita era cambiata, il loro rapporto no. Nonostante il denaro e il successo di entrambi, erano rimasti gli stessi ragazzi che negli anni Novanta si erano incontrati, innamorati, persi di vista e ritrovati.

    Non era stato merito di Asia, se quell’unione perfetta si era compiuta. Il ragazzone alto e un po’ sovrappeso, che prendeva il caffè ogni mattina al Bar Centrale dove lei lavorava, era passato del tutto inosservato ai suoi occhi. Con la tazzina in mano, Pietro andava a sedersi a un tavolo d’angolo e seppelliva il capo dentro al Sole24Ore. Mezz’ora dopo spariva senza aver mai abbassato il giornale o scambiato una parola con qualcuno. Lui, invece, aveva notato subito la ragazza bionda, spigliata e divertente che serviva dietro al banco. La spiava oltre le pagine del quotidiano, studiando un modo per attaccare discorso, ma non gli sembrava mai il momento adatto.

    Un giorno, Asia aveva colto lo sguardo insistente del ragazzone schivo, gli aveva sorriso e aveva raggiunto il suo tavolino pensando che volesse ordinare qualcos’altro: «Cosa ti porto?» aveva chiesto.

    «Un altro caffè, grazie» aveva risposto Pietro avvampando.

    Asia era tornata con la tazzina, lui era arrossito di nuovo e si era sentito ridicolo. «Grazie mille» erano state le uniche parole che era riuscito a pronunciare. Avrebbe voluto dirle molte altre cose, ma lei era già tornata al lavoro.

    Forse quel sorriso, o forse il primo contatto ravvicinato, aveva spinto Pietro a farsi più audace. Da un commento sul tempo si era lasciato andare a due chiacchiere sulle ultime notizie, poi a qualche domanda personale. Aveva scoperto che Asia si era diplomata da poco al liceo artistico e sognava di entrare all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Il lavoro di barista sarebbe dovuto servire a mettere da parte i soldi per il suo sogno, ma Rossana, sua madre, si era ammalata gravemente. Dal momento che il padre era sparito prima che lei nascesse e che Rossana non aveva altri parenti, la priorità di Asia era diventata occuparsi di lei.

    Asia afferrò la moka per versarsi il caffè e la rovesciò sul bancone. Maledetti crampi imprecò massaggiandosi la mano destra con la sinistra. Da mesi ne soffriva terribilmente. I primi li aveva avuti un pomeriggio, mentre si allacciava le scarpe da jogging per la solita corsa nel parco della villa. Asia teneva molto alla forma fisica. Passando la maggior parte del tempo nello studio a dipingere seduta o in piedi, la sessione di jogging giornaliera era d’obbligo. I crampi alle mani si erano ripresentati mentre lavorava a una tela gigantesca, commissionata da una prestigiosa galleria d’arte di Parigi. Asia aveva sentito le dita serrarsi intorno al pennello e subito dopo cedere completamente, era seguito un dolore che l’aveva lasciata senza fiato. Probabilmente sono al lavoro da troppe ore. Senza contare la posizione scomoda e le dimensioni della tela si era detta. Un po’ di riposo l’aveva rimessa in sesto. Ma i crampi erano tornati presto e adesso si ripetevano a intervalli sempre più ravvicinati.

    Pietro l’aveva rimpinzata di pillole a base di farro, avena e soia e le aveva suggerito di mangiare frutta secca, yogurt e lenticchie. Dopo aver combattuto per anni la pinguedine giovanile e aver eliminato hamburger, patatine e ketchup – una costante durante la permanenza negli Stati Uniti – Pietro era diventato un salutista e un fervente sostenitore dei rimedi naturali. I suoi consigli, però, non avevano sortito alcun effetto sulla moglie, quindi le aveva preso appuntamento col dottor Bernardi, il medico di famiglia, per le due di quel pomeriggio.

    Squillò il telefono. Asia impiegò una vita per riuscire a tenerlo in mano e a schiacciare il pulsante.

    «Ciao, luce dei miei occhi, come stai?» Era la voce di Pietro.

    «Al solito.»

    «Pronta per andare dal medico?»

    «Sì, esco fra due minuti.»

    «Come ci vai?»

    «In macchina.»

    «Da sola?»

    «Sì.»

    «Non voglio che guidi nelle tue condizioni. Chiama Antonio e fatti portare da lui.»

    «Non sono mica incinta, amore. Quel poveruomo ha già abbastanza da fare per tenere in ordine i tuoi giocattoli.»

    Antonio era il responsabile della scuderia di auto di Pietro. Le curava come fossero figlie sue, le lucidava, metteva a punto i motori e lustrava la rimessa come una sala operatoria. All’occorrenza faceva anche da autista, specie quando il suo capo doveva recarsi a qualche riunione d’affari e voleva approfittare del lungo tragitto per sbrigare telefonate di lavoro.

    «Hai chiesto a Fiordaliso o Gabriele?» le domandò Pietro.

    «Sì, ma mi hanno detto che erano troppo impegnati.»

    «Non direi. Sono passati da me dieci minuti fa. Volevano parlare di nuovo di un aumento della paghetta.»

    Asia colse il tono risentito di Pietro e smorzò con una risata. «Che ci vuoi fare, sono giovani e vogliono godersi la vita.»

    «Sì, ma senza dare nulla in cambio. Quando metteranno la testa a posto?»

    «Dagli tempo, Pietro, non li pressare. Gabriele ti ha detto che ha superato l’esame di economia monetaria?»

    «Sì, probabilmente con un misero diciotto.»

    «Apprezza almeno lo sforzo.»

    «Quale sforzo? È indietro di tre anni.»

    «E Fiordaliso ti ha parlato del videoclip?»

    «Sì. Avresti dovuto vedere come si è presentata nel mio ufficio: pantaloni leopardati talmente stretti che non lasciavano niente all’immaginazione.»

    «Vanno di moda e lei se li può permettere.»

    Quanto a doti fisiche, Pietro doveva ammettere che sua figlia ne aveva in abbondanza. «Sì, se li può permettere, lo avranno pensato anche gli impiegati del mio ufficio quando l’hanno vista passare. Dimmi di te, piuttosto. Come stai oggi?»

    «Qualche crampetto come al solito, ma niente che mi impedisca di guidare l’auto.»

    «Sicura? Lo sai che io sto in pensiero.»

    «Me la caverò benissimo.»

    Ciò che Asia voleva, faceva. Quando si metteva in testa qualcosa non c’era nulla che la fermasse. Pietro lo sapeva e la amava anche per questo. Era stato grazie alla sua tenacia e forza d’animo se era sopravvissuta a tutto ciò che le era successo e se aveva coronato il sogno di diventare pittrice. «D’accordo» rispose Pietro. «Ma se hai dolori, ferma subito la macchina e telefonami. Vengo a prenderti io.»

    «Tranquillo, tesoro.»

    «Chiamami appena hai finito, voglio notizie. Subito, capito? Ti amo.» Pietro chiuse la telefonata e riprese il lavoro. Approfittando del diverso fuso orario, chiamò dei clienti negli Stati Uniti e in Canada. Poi verificò l’andamento dei mercati azionari asiatici e convocò i ragazzi del suo staff per controllare l’incarico che aveva affidato loro. Concentrarsi, però, gli risultava molto difficile.

    Da quando Asia aveva accusato disturbi di salute, la mente di Pietro continuava a volare alla malattia di Rosanna, la madre di sua moglie, e a come sintomi apparentemente banali fossero sfociati in una malattia devastante e misteriosa. Asia non ne aveva parlato a Pietro fino al giorno in cui gli aveva chiesto di accompagnarla a deporre dei fiori sulla tomba della madre.

    Rosanna Carminati aveva partorito Asia a diciotto anni, nell’ospedale Briolini di Gazzaniga, in provincia di Bergamo. L’uomo che l’aveva messa incinta si era dileguato, ma lei aveva deciso di portare avanti la gravidanza ugualmente. Con lo stesso coraggio con cui aveva messo al mondo la sua bambina da sola, Rosanna aveva provveduto a ogni sua necessità fino alla comparsa della malattia.

    Dapprima Rosanna inciampava continuamente, cadeva e si faceva male. Colpa delle scarpe, diceva. Anche cambiandole, il problema non si era risolto. Nel giro di pochi mesi, operazioni banali come lavarsi, vestirsi e pettinarsi erano diventate difficili. E a questi disturbi se ne erano aggiunti di nuovi: il timbro della voce era cambiato; faticava a deglutire; passava da attacchi di riso incontrollato a crisi di pianto. Poi, erano subentrati i problemi di respirazione. In meno di due anni, Rosanna era finita su una sedia a rotelle, attaccata a un respiratore. I medici non erano stati in grado di fornire una diagnosi certa. Una forma di Parkinson, avevano ipotizzato. La mamma di Asia era morta di insufficienza polmonare sei mesi prima che Pietro rientrasse dagli Stati Uniti e tornasse a cercare la barista che gli aveva rubato il cuore.

    Il giorno in cui Asia aveva portato Pietro sulla tomba di Rosanna, lui aveva deciso di onorare la sua memoria diventando uno dei maggiori finanziatori di Telethon. Non voleva che nessuno morisse più per malattie incurabili o inspiegabili soffrendo pene atroci come la madre di sua moglie.

    Anche i genitori di Pietro erano scomparsi prematuramente. Almeno, si era trattato di un evento fulmineo, come l’aveva definito la pattuglia della polizia di Cinisello Balsamo intervenuta sul luogo dell’incidente. Un tir, in autostrada, aveva sbandato, aprendo l’auto dei coniugi Roccia come un panino. Una parte di loro era volata via insieme al tettuccio e ai finestrini, l’altra era rimasta allacciata a ciò che restava dei sedili. Pietro viveva a Boston, a quel tempo. Aveva da poco concluso l’MBA alla Harvard Business School e iniziato a lavorare alla Merrill Lynch. La morte dei genitori lo aveva costretto a rientrare in Italia precipitosamente. Era figlio unico e i suoi genitori non avevano parenti. Dopo il funerale si era dovuto occupare anche di liquidare la piccola azienda di famiglia. L’unica consolazione che continuava a trovare nella morte prematura dei genitori risiedeva nella parola fulminea. Asia non era stata altrettanto fortunata, sempre che di fortuna si potesse parlare, dato l’argomento.

    I crampi di mia moglie sono sicuramente una stupidaggine si disse Pietro. Però è meglio se vado a controllare di persona. Da quando aveva saputo della fine orribile di Rosanna, l’uomo aveva sviluppato una sorta di patofobia, un subdolo terrore che qualunque sintomo avvertito da chiunque nella sua famiglia fosse il campanello d’allarme di una malattia incurabile.

    Nell’infanzia di Gabriele e Fiordaliso si erano verificati episodi normalissimi in cui lui aveva letteralmente perso la testa. Per un febbrone con tosse, aveva temuto la polmonite; una comune otite lo aveva fatto pensare alla sordità; una congiuntivite alla cecità. Asia, per fortuna, non si era mai fatta impressionare dalle ipotesi catastrofiche del marito e aveva trattato le malattie infantili dei figli con sciroppi, pasticche, pazienza e buonsenso.

    Sarà una stupidaggine anche stavolta, ma voglio accertarmene subito si ripeté Pietro. Alle cinque, molto prima del consueto orario, corse a casa.

    Asia dipingeva tranquilla nel suo studio. «Ciao, luce dei miei occhi, come stai?» chiese abbracciandola e baciandola come se non la vedesse da un anno. «Non dovevi chiamarmi subito? Che ha detto il dottore? Sono stato in pensiero finora.»

    «Una delle tue crisi patofobiche?» lo apostrofò lei sorridendo.

    «È inutile che mi prendi in giro, lo sai come sono fatto.»

    «Non credevo che un dolorino alle mani scatenasse la tua fantasia.»

    «Non sai quanto» mormorò lui. «Dai, dimmi.»

    «Massaggi con una pomata per dolori articolari, riposo e una sfilza di analisi, ma solo per far contento te. Il dottor Bernardi ti conosce così bene, che non ha lesinato sulle prescrizioni.»

    «Stare qui a dipingere lo chiami riposo?»

    «Lo sai che mi rilassa. Mi sento già meglio. Non ho dolori da almeno un paio d’ore.»

    «Non cambierai mai, vero? Per convincerti ad andare dal medico ci vuole un secolo e il solo fatto che ti abbia prescritto degli esami ti fa sentire già guarita.»

    Asia lo zittì con un bacio che lo lasciò stordito. Le sue mani lo cercarono sotto la giacca e la camicia, poi iniziarono ad armeggiare con la cintura dei pantaloni. Sentì il desiderio di lui che stava esplodendo e questo la eccitò. «Ti voglio adesso» bisbigliò. Pietro l’attirò a sé, le accarezzò la schiena e il collo e la baciò teneramente. La prese in braccio e si diresse al piano di sopra. La lingua di Asia intanto esplorava la sua bocca e lui temette che le gambe gli cedessero mentre saliva le scale. In camera la spogliò lentamente, sfiorando con le labbra la sua pelle che sapeva di rosa, gelsomino e trementina. La accarezzò con dolcezza finché lei non resistette più e allora si amarono con la passione di sempre.

    3. Guido Dirado

    Guido odiava Baranzate, la cittadina dell’hinterland milanese dove era cresciuto. Viveva in un quartiere dormitorio abitato un tempo dal sottoproletariato e, adesso, con la crisi, da quella fetta di popolazione che aveva subito maggiormente la recessione economica. Di notte le strade erano deserte, i residenti stavano rintanati in cubicoli di cemento accatastati uno sull’altro come in un’arnia; di giorno giravano solo alcolizzati, disoccupati e poveracci che si annullavano davanti alle slot-machine.

    Guido voleva andarsene da quel posto. Conseguita la laurea, aveva mandato il suo curriculum a qualunque azienda nel raggio di cinquanta chilometri, ma non aveva ricevuto risposta. Non si era spinto oltre i cinquanta chilometri, perché non poteva lasciare l’appartamento dove viveva con i genitori finché non avesse guadagnato abbastanza da permettersi almeno una stanza in affitto e non poteva affrontare distanze superiori senza un’auto. Con i mezzi pubblici era già un viaggio recarsi in centro a Milano, figurarsi cento chilometri al giorno fra andata e ritorno.

    A questo stava pensando Guido, mentre raggiungeva il Duomo a bordo di uno dei lombrichi metallici che strisciavano nel sottosuolo della città. Strizzato fra ascelle sudate e volti grigi, si sentiva molto vicino a quegli esseri viscidi e ciechi. Guido si sarebbe risparmiato volentieri quella scomoda trasferta all’ora di pranzo, ma Gabriele Roccia lo aveva invitato a festeggiare da Fresco & Cimmino perché, grazie al suo aiuto, era finalmente riuscito a superare l’esame di economia monetaria.

    «Ci spariamo una di quelle mangiate top e sbocciamo qualche Dompero» gli aveva detto al telefono.

    Guido apprezzava lo champagne e l’alta cucina, due cose che non si sarebbe mai potuto permettere senza il suo compagno di università. Gabriele non è un cattivo ragazzo pensava Guido mentre raggiungeva il ristorante. Solo megalomane e un po’ pirla. Per lui, le cose importanti della vita sono il buon cibo, il Dom Pérignon e le femmine che poi, se non avesse i soldi di paparino, dubito che cascherebbero ai suoi piedi come ho visto accadere all’università. Secondo Guido, Gabriele non era affatto attraente. Parecchio in sovrappeso, con i capelli biondo-rossicci e la barba da hipster, gli ricordava un elfo paffuto.

    Mentre attendeva l’amico fuori dal ristorante, sbirciò la propria immagine riflessa nelle vetrate per controllare in che stato era dopo la sauna in metro. Quel giorno indossava il suo completo migliore, acquistato online da Bonprix in occasione della cerimonia di consegna della laurea. Le spalle larghe, i fianchi stretti e il metro e ottantanove di altezza non lo facevano sembrare poi così economico. Peccato per il rivolo di sudore che sentiva colargli lungo la schiena. Guido sperò che Gabriele arrivasse in fretta, così da entrare nel locale e godere dell’aria condizionata.

    Una limousine nera con vetri oscurati si fermò davanti a Fresco & Cimmino. Nessuno scendeva, presto si formò una fila e un concerto di clacson. «Ti muovi o no?» urlò un tassista esasperato sporgendo la testa dal finestrino.

    Finalmente lo sportello della limousine si aprì e spuntarono un paio di Nike Air Jordan e un Rolex d’oro. Gabriele saltò sul marciapiede, lanciò una serie di improperi contro le persone impazienti e buttò le braccia al collo di Guido: «Grande! Allora ce l’hai fatta. Ero in sbatti che mi avresti dato buca all’ultimo minuto».

    «Macchina nuova? Dov’è la Lamborghini?» chiese Guido.

    «Riposa in garage. Troppo stress venire in centro con quella. Il carro funebre è di papà e lo guida solo Antonio, ma torna comodo all’occorrenza.»

    I due ragazzi entrarono nel ristorante. Il proprietario in persona andò ad accogliere Gabriele: «Che piacere vederti, ho fatto preparare la solita saletta riservata. Il maître e lo chef sono a tua disposizione».

    Il pranzo fu un tripudio di haute cuisine. Guido assaporava ogni boccone, sapendo che sarebbe stato l’ultimo dopo la notizia che stava per dare all’amico.

    «Allora, come te la passi?» fece Gabriele.

    «Potrebbe andare meglio, se trovassi uno straccio di lavoro.»

    «Goditi la vita, che per lavorare c’è sempre tempo.» Gabriele si cacciò in bocca tre tartine e le affogò con un intero bicchiere di champagne.

    «Credimi, un lavoro mi serve e subito.»

    «Ti sei appena laureato, non vuoi riposarti? Impara da me: superato questo esame, voglio solo rilassarmi e fare shopping. A proposito, mi accompagni da Armani? Devo comprare due cosette, perché in settimana farò una puntatina a Portofino a smuovere quella baracca galleggiante di papà. Te l’ho fatta vedere?» Gabriele tirò fuori lo smartphone e mostrò a Guido le foto dello Scorpion Alloy di quaranta metri, che la Rock Investments teneva ormeggiato nel porticciolo ligure per attività di pubbliche relazioni.

    La comparsa del cellulare segnava la fine della conversazione, Guido lo sapeva bene. Per prima cosa, l’amico girò un video dove informava il mondo su cosa stava mangiando e lo condivise via Facebook, Instagram, Telegram, Snapchat e altri social network di cui Guido neanche conosceva l’esistenza. Un secondo dopo, arrivò una grandinata di bip. «Figata!» esclamò Gabriele. «Ho già ricevuto centonovantasette like!» Evidentemente il mondo non stava aspettando altro che sapere cosa stava facendo il giovane Roccia in quel momento. «Guarda, questa è quella gran vacca dell’Ippolita che si dichiara animalista. Animalista-barra-vacca, capito la battuta?» disse Gabriele. «Questa invece è una gran figa: Estelle D’Ambrosio, fashion influencer stilosissima, un giorno te la devo presentare. Del mio amico Oscar, invece, ti ho parlato? È quello dell’azienda vitivinicola Giordano che da grande vuole fare il politologo.» Gabriele scorreva con l’indice una foto dopo l’altra mostrandole a Guido. Erano facce di ragazzi felici e spensierati, sdraiati su una spiaggia tropicale, intenti a brindare in una discoteca o in uscita da una boutique carichi di sacchetti griffati, facce di ragazzi per i quali il problema lavoro non esisteva.

    «A proposito di cose da fare da grandi» Guido tornò al discorso che aveva in programma di fare «la ricerca di un lavoro mi sta impegnando così tanto, che non avrò più tempo per aiutarti con l’università.»

    «Scherzi, pirlone? Non puoi mollarmi proprio adesso.»

    «Mi dispiace, Gabriele, ma è così. Ho mandato il mio curriculum a mezzo mondo e non mi ha risposto nessuno. Pare che senza referenze la mia laurea valga zero.»

    «Che bambascione che sono!» esclamò Gabriele. «Ce l’ho io la soluzione. Fermo lì, vado a fare una telefonata. Maître» chiamò «ci porti un altro Dompero. Se va come dico io, fra poco sbocciamo di nuovo.»

    Gabriele si appartò in bagno. Tre squilli e rispose subito una voce nota.

    «Ciao Dora, sono Gabri, mi passi papà per favore?»

    «È in videoconferenza con New York» rispose la donna.

    «Digli che è urgente. Molto, molto urgente.»

    «Sì, pronto?» la voce allarmata di Pietro.

    «Papà, devi farmi un favore.»

    «Di cosa si tratta?»

    «Un mio amico ha bisogno di un lavoro. Non appartiene a gente del nostro livello, ma è un bravo ragazzo.»

    Pietro sorvolò sullo snobismo del figlio perché aveva fretta di tornare alla videoconferenza. «Chi è questo amico?» chiese.

    «Un compagno di università.»

    «Frequenta la Cattolica con te?»

    «Sì, cioè non più. Abbiamo iniziato insieme, ma lui si è già laureato.»

    «Caspita, lui è bravo, allora.»

    Ti pareva, mai che perda l’occasione di sminuirmi pensò Gabriele. «Non è bravura» si risentì «è che aveva una borsa di studio e doveva spicciarsi.»

    «Diligente e responsabile, oltre che bravo» commentò Pietro.

    "A differenza di te avresti voluto aggiungere." Gabriele ingoiò l’ennesimo velato attacco del padre e proseguì: «Puoi trovargli qualcosa da fare? Qualunque cosa, papà, anche svuotare i cestini della carta o portarti il caffè, non ha importanza. Mi faresti davvero un favore».

    «Digli di passare da me per un colloquio domani mattina alle nove. Come si chiama il tuo amico?»

    «Non ridere, papà: si chiama Guido Dirado. E, pensa, non ha nemmeno la macchina.» Gabriele rise.

    Pietro non ci trovava niente di divertente. Sapeva cosa significava essere presi in giro per il nome. Da bambino, i suoi compagni di scuola lo chiamavano testa di sasso. Quando andava meglio, ciottolo, alludendo al fatto che fosse rotondetto. «Che fantasia i tuoi genitori. Già che c’erano, potevano chiamarti blocco. Blocco di roccia, sai che risate?» sghignazzavano. Gli scherzi sul suo nome erano andati avanti fino all’università. Negli Stati Uniti, la sua tenacia e la sua integrità professionale lo avevano fatto diventare The Rock, nomignolo al quale si era ispirato quando aveva fondato la Rock Investments. Oggi nessuno si sognava più di sfotterlo, Pietro Roccia era sinonimo di potere, prestigio e miliardi di euro.

    La mattina seguente, Guido si recò all’appuntamento presso la Rock Investments. Impiegò un’ora e mezzo per raggiungere Agrate Brianza da Baranzate, prendendo un bus, poi un treno, più un buon tratto a piedi. Il ragazzo si augurava che il viaggio valesse la pena e che il colloquio con Pietro Roccia non fosse solo una pagliacciata per far contento il figlio.

    Non conosceva personalmente il magnate della finanza. Di lui aveva letto sul Sole24Ore, sul Wall Street Journal e sul Financial Times. Sapeva che la Rock Investments era al decimo posto nella classifica delle cinquecento maggiori imprese mondiali redatta da Fortune. «Se il detto tale padre, tale figlio ha un fondo di verità, sarà spocchioso e megalomane come Gabriele» mormorò Guido disilluso, mentre l’ascensore lo proiettava all’ultimo piano del Centro Colleoni.

    Le porte scorrevoli si aprirono su uno spazio immenso e quasi vuoto. Il pavimento era di statuario di Carrara, posato con tale maestria da sembrare un unico foglio di carta bianca lucente. Alla parete di fronte all’ascensore era appesa una lastra di Nero Assoluto col nome della società formato da singole lettere di ottone. Sulla destra, due divani di pelle e un tavolino da fumo. Al bancone della reception sedeva una ragazza in tailleur grigio perla. «Benvenuto alla Rock Investments. Il dottor Dirado, immagino?» lo accolse la ragazza. Guido annuì. «Prego, si accomodi. Avviso il dottor Roccia che è arrivato.»

    Il giovane sedette su uno dei divani. Era certo che l’attesa sarebbe stata lunga, il colloquio frettoloso e il congedo rapido. Si era appena accomodato, quando comparve Dora. «Dottor Dirado, buongiorno. Sono l’assistente personale del dottor Roccia. Se vuole seguirmi.»

    Il locale oltre la porta era un unico open space dieci volte più grande dell’ingresso, contornato da vetrate che correvano dal soffitto al pavimento. L’impressione di Guido fu di camminare su una piattaforma aerea. Gli arredi erano rigorosi ma di classe. Ovunque monitor, stampanti e schermi al plasma che mostravano grafici e quotazioni. Davanti a ognuno di essi sedeva un impiegato.

    Il pavimento, foderato di moquette a pelo lungo, ingoiò i passi di Guido e quelli dell’assistente fino all’ufficio di Pietro Roccia. Dora aprì la porta e fece entrare il ragazzo. La sua attenzione fu immediatamente calamitata da una tela di tre metri per tre che troneggiava dietro la scrivania. Guido conosceva quel dipinto. Non ricordava chi fosse l’autore, ma l’aveva visto su tante riviste e gli era rimasto impresso. Raffigurava un labirinto e una figura femminile.

    «Buongiorno, dottor Dirado. Si accomodi» disse Pietro porgendogli la mano.

    «Molto lieto» fece Guido senza staccare gli occhi dall’opera appesa al muro alle spalle del suo interlocutore.

    «Le piace il mio dipinto?» chiese Pietro indicando il quadro.

    «Moltissimo, le foto non gli rendono giustizia. Dal vivo è travolgente, i colori sono impressionanti e non immaginavo fosse tanto grande.»

    «Mia moglie sarà felice di saperlo. Il filo di Arianna è l’opera a cui tiene di più, per questo non l’ha venduto, ma regalato a me.»

    L’autore, dunque, era la signora Roccia. Guido non sapeva che Asia Carminati fosse la moglie di Pietro Roccia.

    «Mi ha detto Gabriele che le piacerebbe fare un po’ d’esperienza nel mondo della finanza» esordì Pietro. «L’ha descritta come un tipo in gamba, volitivo e ambizioso. So anche che si è laureato alla Cattolica a tempo record.» Suo figlio non si era espresso esattamente così, ma a Pietro quel ragazzo aveva fatto subito simpatia.

    I due parlarono animatamente di listini azionari, analisi tecnica quantitativa e qualitativa, asset management e location strategica per quasi un’ora. Il dottor Dirado si stava dimostrando preparato e informato su tutto, aveva idee e opinioni personali che esponeva in modo chiaro e coerente. Pietro era colpito, avrebbe tanto voluto avere conversazioni del genere con Gabriele.

    Dora bussò alla porta: «Dottore, le ricordo l’appuntamento Skype con la DowDuPont».

    «Grazie, Dora. Ora chiamo subito.»

    «Il colosso americano da centotrenta miliardi di dollari, nato dalla fusione fra DuPont e Dow Chemical?» chiese Guido in estasi.

    «Sì, stiamo per diventare il loro financial advisor» rispose Pietro sorprendendosi che il ragazzo conoscesse l’argomento.

    «Grandioso!» esclamò l’altro.

    «Ti piacerebbe collaborare con me a questo progetto?» domandò Pietro passando a un tono più cordiale.

    «Dice sul serio?»

    «Sono serissimo. Vorresti provare a lavorare per la Rock Investments?»

    «Certo.» Guido scattò in piedi e allungò la mano per stringere quella di Roccia. «Non se ne pentirà, glielo giuro. Lavorerò giorno e notte, farò tutto quello che mi chiede. Mi dica solo quando devo iniziare.»

    «Non abbiamo ancora parlato di compenso» disse Pietro.

    «Non ho pretese. Quello che ritiene giusto, per me andrà benissimo. È già un onore poter lavorare per la sua società.»

    «D’accordo. Parleremo dello stipendio in seguito. Ti aspetto domattina. Sette in punto.»

    Mentre tornava a Baranzate, Guido si rimproverò per non aver affrontato l’aspetto economico. Probabilmente Pietro Roccia lo avrebbe fatto lavorare come un mulo per due spiccioli, senza contare che arrivare in ufficio alle sette avrebbe significato alzarsi alle cinque.

    A mezzogiorno e mezzo, nell’attico di Parco Sempione, Fiordaliso iniziò a stiracchiarsi fra le lenzuola. Sugli occhi indossava la mascherina per dormire, una fascia di seta blu con ricamata la frase: wake me up with champagne, svegliatemi con lo champagne. La sollevò e chiamò la cameriera: «Luisa, dove sei? Mi porti la colazione? Subito!»

    Luisa Fiorini, laureata in psicologia da dieci anni, era a servizio della signorina Roccia da tre. Dopo diversi concorsi per un posto da assistente sociale che non aveva ottenuto, si era rassegnata a qualsiasi lavoro. Tramite passaparola era arrivata a Fiordaliso che cercava un’assistente personale, anche se, a essere onesti, avrebbe dovuto dire schiava. L’orario di lavoro di Luisa era illimitato, così come i suoi compiti che andavano dalle pulizie, alla spesa, a occuparsi del cane o fungere da centralista e veniva pagata quanto un’operaia ma rigorosamente in nero. «Contributi e tasse sono soldi buttati via» sosteneva Fiordaliso.

    La donna spinse il carrellino portavivande fino alla porta della camera e bussò: «È permesso?»

    «Certo che è permesso. È un’ora che ti chiamo.» Fiordaliso ispezionò il contenuto del vassoio e infilò l’indice in uno dei cornetti della pasticceria Grecchi, che Luisa comprava ogni mattina. «Non è caldo. Quante volte ti ho detto che li voglio caldi? Non mi pare di chiedere la luna, Luisa. Sai che mi alzo a quest’ora, ma se vai a prendere i cornetti all’alba perché è più comodo per te, è ovvio che a mezzogiorno sono freddi. E allora cosa devi fare?»

    «Li metto due minuti nel forno prima di portarli» recitò Luisa in tono piatto.

    «Vedi che, se pensi, le cose le sai fare?»

    «Vado a scaldarli» disse la donna rassegnata.

    «Non importa. Ormai il danno è fatto. Walterino, piuttosto, dov’è?»

    Walter, detto Walterino, era il chihuahua nano che Fiordaliso aveva acquistato tramite Ippolita De Palma Ortega, la sua più cara amica, nonché ex fiamma di Gabriele.

    Ippolita era la rampolla di un imprenditore panamense nel settore abbigliamento a basso costo. Viveva in Italia da alcuni anni, ufficialmente in veste di responsabile del mercato europeo per la società di famiglia, ma siccome gli straccetti che produceva papà, come li chiamava lei, non la interessavano, si era votata agli animali. Ippolita si dichiarava vegana, eppure mangiava ostriche sostenendo che erano solo conchiglie; diceva di essere la portavoce di una Ong internazionale a difesa e protezione degli animali, tuttavia nessuno aveva mai saputo di quale. Gli unici quadrupedi di cui si occupava erano i sette chihuahua che possedeva. Li vestiva come bambolotti e li sfoggiava in abbinamento ai suoi look, uno per ogni giorno della settimana. Aveva attaccato questa mania anche a Fiordaliso.

    «Il cane è in cucina, gli ho appena dato la colazione» rispose Luisa.

    «Walterino, vieni dalla mamma?» chiamò Fiordaliso. Un ticchettio di unghiette sul pavimento e la bestiola fu sul letto. «Orrore! Che fai nudo, tesorino? La tata ti ha tolto il pigiamino e non ti ha ancora vestito?»

    «Non sapevo cosa mettergli» disse Luisa.

    «Nel sacchetto di Ralph Lauren, che trovi in salotto, c’è un maglioncino bianco con la bandiera americana che ho comprato ieri. Voglio vedere come gli sta.»

    La donna si allontanò col cane.

    Fiordaliso consultò l’agenda sul suo smartphone. La giornata era piena di impegni: estetista, hairstylist, personal shopper e aperitivo. «Sarà meglio che mi sbrighi o non riuscirò a fare tutto» borbottò fra sé.

    Due ore dopo, fasciata in un tubino di jersey firmato Valentino, era pronta per uscire. «Io vado!» urlò a Luisa.

    «E il cane?» la rincorse Luisa portando il chihuahua infagottato nel maglione di Ralph Lauren.

    «Sei proprio il top, Walterino. Un amore. Ma non sei nell’abbinamento giusto. Oggi resti a casa.» Fiordaliso sbatté la porta e sparì nell’ascensore.

    4. Gabriele e Fiordaliso Roccia

    Il primo pensiero della giornata per Gabriele era comprare qualcosa di nuovo perché, diceva, le donne sono attente ai dettagli e adorano un uomo che sfoggia abiti e accessori costosi.

    Nelle ultime settimane si era procurato gli occhiali dello store Montenapoleone con lo skyline di Milano serigrafato sull’astina, l’ultimo modello di Air Jordan con i terminali delle stringhe in oro e il quinto Rolex della sua collezione, pagato la bellezza di quarantamila euro. Aveva comprato centinaia di altri oggetti che nemmeno ricordava, perché quando entrava in un negozio per una cosa, usciva con dieci. Le boutique dove si serviva abitualmente conoscevano questa sua debolezza ed erano bravissimi a blandirlo.

    Qualche giorno prima, lo aveva chiamato la sua profumeria di fiducia per avvisarlo che il Clive Christian che aveva ordinato era arrivato. Gabriele si era precipitato al negozio in compagnia di Oscar Giordano, il suo amico del cuore.

    «Il profumo è il tuo biglietto da visita quando ti presenti a una persona, specie se femmina» aveva detto a Oscar mentre la commessa tirava fuori vari flaconi.

    «So che sei qui per il Clive» aveva esordito la donna «ma oggi ti vorrei stuzzicare con qualcosa di più sensuale: il Creed Millesimi Imperial. È un ozonico marino con un cuore di iris fiorentino che, secondo me, si abbina meravigliosamente al tuo incarnato.» Gliene aveva versata qualche goccia sul polso.

    «Top del top!» aveva esclamato Gabriele facendolo annusare a Oscar.

    Un profumo dopo l’altro, le confezioni aggiudicate avevano occupato l’intero ripiano accanto alla cassa. Solo a quel punto, l’astuta commessa aveva tirato fuori il Clive Christian numerato che Gabriele aveva ordinato. Con la cautela di un artificiere che maneggia una bomba, la donna aveva appoggiato un piccolo scrigno sul bancone. L’interno del forziere era foderato di seta bianca e conteneva una boccetta di cristallo sulla quale brillava una pietra. «Ecco il tuo Clive con diamante, un pezzo unico sia a livello di essenza che di packaging. La fragranza è a base di bergamotto, cardamomo, gelsomino indiano e, nella versione per uomo, una punta di ylang ylang. Il prezzo, come già sai, è centosettantamila euro» aveva detto la donna.

    Oscar aveva osservato la bottiglietta perplesso.

    «È prodotto in edizione limitata. Solo dieci flaconi l’anno pour femme e pour homme» aveva precisato la commessa davanti allo sguardo dell’accompagnatore del suo cliente.

    «Ti rendi conto con cosa abbiamo a che fare?» aveva detto Gabriele all’amico. «Flacone in cristallo finissimo, collare in oro e un diamante da cinque carati incastonato. È il profumo più caro al mondo, usato dal sultano del Brunei, dal multimiliardario Abramovic e adesso anche da me.»

    Tirando le somme, quella puntatina in profumeria era costata a Gabriele l’equivalente di un appartamento di quattro vani.

    I suoi svaghi consistevano anche in feste con gli amici, serate in discoteca e party esclusivi, ovunque fossero: Venezia, Ibiza, Formentera, Roma, Capri, Riccione.

    A Milano, Gabriele faceva tappa fissa al Byblos, sempre col medesimo copione: area privé, una cerchia di amici del suo livello, come diceva lui, piramidi di frutta fresca e Dom Pérignon a fiumi, una seratina da quattromilacinquecento euro, in media.

    I party a Formentera iniziavano a primavera, quando Milano era ancora fredda mentre laggiù si poteva già fare il bagno. E allora, la festa era in piscina e lo champagne, oltre che da bere, serviva a riempire pistole e fucili giocattolo per ingaggiare battaglie a suon di spruzzi. Una volta, Estelle D’Ambrosio, la fashion blogger, si era presentata con un bikini stile Ursula Andress in 007 Licenza di uccidere e un fucile Nerf Super Soaker con un getto di nove metri. Estelle aveva colpito e affondato praticamente tutti. Un successone!

    Fiordaliso, che era molto competitiva, si era infilata una bottiglia di Dom Pérignon in mezzo alle tette e aveva versato champagne nei calici di ogni ragazzo senza usare le mani. Doppio successone!

    Per Fiordaliso gli appuntamenti irrinunciabili erano legati alla cura del corpo: massaggi, trattamenti viso, manicure, pedicure, parrucchiere e qualche ritocchino dal chirurgo. Fortuna voleva che nel gruppetto dei loro amici ci fosse Otario, figlio del professor Ettore Fanti, luminare di chirurgia estetica. Con l’intercessione di Otario, Fiordaliso aveva scavalcato una lunga lista di attesa e aveva ottenuto protesi al seno taglia quinta nel giro di ventiquattr’ore. I suoi genitori erano inorriditi quando l’avevano vista, ma non avevano potuto evitarlo, perché Fiordaliso era maggiorenne, all’epoca dei fatti viveva fuori casa già da un anno e li aveva messi al corrente solo dopo l’intervento. Secondo la ragazza, quel ritocchino era il suo investimento per la tv. Da allora ne aveva fatti molti altri: filler labbra, iniezioni di acido ialuronico e liposuzione a cosce e fianchi.

    Un’altra cosa alla quale Fiordaliso non sapeva rinunciare erano i piercing. Non quelle sfere e cerchietti metallici che portavano tutti a orecchie, naso e lingua, quella era roba dozzinale. Lei si era fatta impiantare sottopelle delle micro placchette in titanio lungo tutta la spina dorsale. Asia e Pietro lo avevano scoperto durante una festa in piscina nella villa di famiglia in Sardegna, dopo aver ricevuto una fattura milionaria dal gemmologo Rodrigo Marchi.

    Fiordaliso, come il resto della famiglia Roccia, si serviva regolarmente da Rodrigo. L’uomo si era presentato a casa della ragazza con un’intera collezione di pietre preziose. «Su cosa sei orientata, Fiore? Un gioiello per il prossimo party, un collier, un anello?» aveva chiesto. Il gemmologo aveva realizzato per lei molti pezzi esclusivi e costosi. Al conto pensava papà Roccia, che sui gioielli non lesinava. Diceva che oro, platino e pietre preziose erano un valore nel tempo, diversamente da molte altre spese dei suoi figli. «Se ti interessa, ho in arrivo una partita di smeraldi perlati di giadeite verde con i quali verrebbe una collana da sogno» aveva suggerito Marchi.

    «Non ti ho chiamato per dei gioielli, Igo. Vorrei cambiare look ai miei piercing.» Fiordaliso aveva mostrato la fila di brillantini che si era fatta impiantare sulla schiena. «Glam, vero? Li ho fatti due mesi fa e ho dovuto mettere pietre piccole per agevolare la cicatrizzazione, ma ora posso sostituirle con qualcosa di più vistoso.»

    Marchi li aveva trovati raccapriccianti. Chissà che dolore. Non le davano fastidio? Come faceva a sdraiarsi? E se un piercing fosse rimasto impigliato in un abito? Aveva sorriso e ingoiato tutte le domande, dopotutto era lì per vendere. «Su quali pietre sei indirizzata?» aveva chiesto.

    «Le voglio colorate e sbrilluccicanti» aveva risposto Fiordaliso.

    «Che ne dici di un rubino birmano rosso sangue?» Marchi le aveva mostrato una pietra.

    «Non hai qualcosa di più scintilloso? Voglio che lasci tutti a bocca aperta.»

    «La pietra più scintillante è il diamante» aveva detto Rodrigo. «Posso averlo in vari colori, però il prezzo sale.»

    «Chi se ne frega, basta che brilli.»

    Il gemmologo aveva tirato fuori un diamante rosa.

    «Top! Questo sì che è brillantinoso. Nei hai di altri colori?»

    «Te li posso procurare blu, viola, rossi e gialli. Quanto al peso, taglio e purezza, cosa preferisci?» aveva chiesto Rodrigo.

    «Fai tu.»

    Così, Fiordaliso aveva avuto i suoi dodici piercing di diamanti e Pietro una fattura da capogiro.

    Una mattina di settembre, Gabriele si era svegliato alle nove per studiare. A breve avrebbe sostenuto una verifica pre-esame di economia politica, per questo aveva puntato la sveglia praticamente all’alba. Suo padre aveva detto che fino al conseguimento della laurea poteva scordarsi di cambiare macchina e Gabriele era stufo della Lamborghini. Stava per aprire il libro di economia politica, quando squillò il cellulare.

    «Ueilà, bambascione, vieni a Bresso?» la voce era quella di Oscar.

    «A fare che?» chiese Gabriele.

    «Sono all’aeroclub, sai quello dove prendo lezioni di volo?»

    «Ho presente, ma ti dico subito che un’altra gita su quel Piper del cazzo non la faccio.»

    Oscar era un fanatico del volo. Qualche mese prima aveva preso la licenza di pilota privato su un Piper PA34. Una volta ci aveva trascinato anche Gabriele. Tornato a terra, lui aveva giurato di non rimettere mai più piede su una carretta del genere.

    «Niente Piper. Ho qualcosa di super togo da farti vedere.»

    «Vuoi dire che il vecchio ha sganciato?» chiese Gabriele.

    «Esatto.»

    Concordarono di vedersi di lì a due ore.

    Il primo problema di Gabriele fu trovare il giusto abbinamento Rolex-Jordan. Dispose vari modelli di scarpe e orologi sul pavimento della camera e lanciò un appello

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