SAMBADÙ amore negro
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Anteprima del libro
SAMBADÙ amore negro - Maria Volpi Nannipieri
Mura
(Giulia Volpi Nannipieri)
SAMBADÙ
AMORE NEGRO
AD ASTRA EDIZIONI
Mura -Sambadù amore negro
Le Amarante
I Classici delle donne Vol. 1
Ad Astra Edizioni
Via Antonio Lo Re, 4
72019 San Vito dei Normanni (BR)
Progetto copertina GPM Servizi Editoriali
servizi editoriali- GPM SERVIZI EDITORIALI
Immagine copertina di autore sconosciuto
Ogni riferimento a fatti, persone e/o luoghi è puramente casuale.
INTRODUZIONE
alla collana Le Amarante - I Classici delle Donne
Il nome Amaranta deriva dal greco Amarantos che significa immarscescibile, che non appassisce, immortale, trasferito poi nel latino Amarantus o Amaranthus. Così viene indicato da Plinio in Naturalis Historia (21,23), che facendo riferimento alla pianta ornamentale, sottolinea come essa pur dopo essere stata tagliata si conserva e bagnata con acqua rivive ." Summa eius natura in nomine est, appellato, quoniam non marescat" ( La somma sua qualità è nome, poichè non marcisce).
Per questo la nostra collana di Classici delle Donne si chiama Le Amarante, perchè per quanto spesso dimenticate, poco pubblicate e non più lette, queste opere hanno continuato a vivere, e tornano ora alla luce grazie al bagno vivificante di una veste editoriale, e lo splendido colore amaranto del lori nuovo abito, le restituirà ai lettori.
MURA E IL DUCE
Di Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri, in arte Mura, nata nel 1892 a Bologna e morta prematuramente nel 1940 a causa di un incidente aereo, rimangono oggi pochissime tracce nel mondo editoriale.
Giornalista, tenne rubriche su diverse riviste, in particolare su Illustrazione Italiana. Scrisse molto, tra libri per l’infanzia, reportage di viaggio, commedie, ma guadagnò notorietà soprattutto come scrittrice di romanzi rosa per la casa editrice Sonzogno. Nel 1919 fu pubblicato Perfidie, romanzo d’esordio apprezzato da Marinetti, storia di un’amicizia femminile che vira decisamente verso una relazione saffica, e dopo due anni Piccola, che le diede popolarità ed al quale seguirono più di 30 romanzi.
Definire i suoi romanzi rosa
non ne esaurisce interamente la peculiarità, se non teniamo conto che, tra i due filoni che possiamo individuare all’interno del genere, quello più tradizionale e quello più trasgressivo, Mura si colloca senza dubbio nel secondo, e non è casuale che Liala, massima rappresentante del primo, fu per la Volpi la nemica
, al punto che quest’ultima ne ostacolò il percorso. Lo stesso pseudonimo scelto dalla Volpi – Mura - è una specie di dichiarazione di intenti, visto che fu adottato dalla scrittrice bolognese in omaggio al soprannome della contessa Maria Tarnowska, che in un processo di grande risonanza mediatica internazionale avvenuto nel 1910 fu condannata a otto anni e mezzo di reclusione per aver favorito un omicidio commesso dal suo amante, e descritta dai giornali dell’epoca come una Circe o una donna-vampiro.
La passione per i viaggi e le atmosfere africane molto in voga a Parigi (dove Mura conosce Joséphine Baker, probabile ispiratrice nel libro del personaggio di Jo) sono probabilmente all’origine di una novella, dal titolo Niominkas, amore negro, che Mura pubblicò nel 1930 sulla rivista mensile Lidel. La novella, in cui si narrava l’amore tra una ricca vedova romana ed un ingegnere di origine africana, erede di un capotribù, formatosi in Italia e, apparentemente, pienamente integrato, si concludeva col matrimonio dei due innamorati e non ebbe alcuna risonanza o attenzione dal regime. Il libro Sambadù, amore negro, pubblicato da Rizzoli & c. nel 1934, poco prima della campagna di Etiopia del '35 e delle leggi razziali del '38, scatenò invece le ire di Mussolini, probabilmente a causa della copertina, in cui veniva raffigurata una donna bianca languidamente abbandonata tra le braccia di un nero vestito impeccabilmente all’occidentale. L’effetto scandalo fu così dirompente da essere utilizzato probabilmente come pretesto per portare ad un inasprimento della censura. Abbiamo testimonianza della reazione di Mussolini alla vista del romanzo (in particolare della copertina) alla presenza del capo della Polizia Arturo Bocchini e del capo di gabinetto del Ministero degli Esteri, barone Pompeo Aloisi. Non sarebbe da escludere che fosse stato proprio Bocchini a mostrare la scandalosa copertina al Duce durante i loro incontri giornalieri. Il barone Aloisi annotò l’episodio nei suoi diari. È probabile che Mussolini non avesse letto il libro, altrimenti si sarebbe accorto di come la parte aggiunta alla novella pubblicata su Lidel, relativa alla crisi matrimoniale a ridosso della nascita del primogenito, non fosse apertamente in contrasto con l’ideologia fascista. La protagonista, infatti, dopo la nascita del bambino, è ossessionata dal meticciato, dall’idea che il sangue del bambino sia inquinato
da un’altra razza. Proprio in quelle settimane Mussolini stava definendo i piani di invasione dell’Etiopia e doveva pertanto essere molto sensibile sull’argomento: da qui l’ordine al capo della Polizia di sequestrare tutte le opere. Con rapidità estrema, nel giro di due ore, venivano varate nuove misure preventive. Ogni Prefettura avrebbe dovuto fornire al Ministero dell’Interno due copie di ogni pubblicazione. Il giorno successivo, 3 aprile 1934, una circolare firmata da Mussolini stabiliva in modo ancora più preciso le modalità di controllo sulle nuove edizioni a stampa. Ogni Prefettura avrebbe controllato che le case editrici fornissero tre copie di ogni nuova pubblicazione: una sarebbe rimasta alla Prefettura e due sarebbero state inviate a Roma, rispettivamente alla Direzione generale della Pubblica Sicurezza e l’altra all’ufficio stampa del capo di governo. La circolare pertanto limitava in modo significativo l’autonomia degli editori, perché pur mantenendo una relativa libertà di stampa sui libri da pubblicare, senza un’autorizzazione preventiva gli editori rischiavano comunque che quanto veniva stampato venisse bloccato ancor prima di essere messo in vendita e diveniva pertanto per loro economicamente più conveniente sottoporre ad approvazione preventiva quanto intendevano stampare.
Per quanto riguarda il romanzo di Mura, l’ira del Duce ne provocò ovviamente il sequestro, una diffida all’illustratore della copertina (erroneamente a Marcello Dudovich, che in realtà aveva realizzato solo le illustrazioni interne, tra l’altro molto più in linea con la propaganda fascista poiché suggerivano graficamente la superiorità della razza bianca
) ed addirittura il sequestro delle copie in edicola della Voce di Mantova dell’8 aprile 1934, perché aveva positivamente segnalato il romanzo alle lettrici.
Come riporta Bonsaver nei suoi fondamentali studi sulla censura fascista, il fascicolo negli archivi della polizia politica, chiamato Mura, scrittrice
, conteneva tre informative che rivelavano come l'autrice di Sambadù fosse sotto la lente della polizia già alcuni giorni prima del sequestro del romanzo. La prima informativa anonima, ma attribuibile a Mariangela Nuvoletti (direttrice del periodico L'araldo della stampa) è infatti del 27 Marzo 1934, mentre la seconda del 23 aprile del '34, probabilmente dalla stessa mano, riferiva delle inquietudini di Mura proprio a causa delle vicende che avevano riguardato il romanzo. L'autrice dell'informativa prende le difese di Mura, mentre si attribuiscono le responsabilità dello scandalo ancora una volta alla copertina. Dall'informativa si ricava anche che Mura si era recata a Roma tentando di ottenere udienza da Mussolini, riuscendo però a incontrare solo Galeazzo Ciano, responsabile dell’ufficio stampa del capo del governo. Ciano, secondo quanto riferisce l'informativa, l'aveva fermamente invitata a non smuovere ulteriormente le acque. Più interessante il terzo rapporto del 2 ottobre del '34, forse di mano diversa, in cui si fa riferimento ad una possibile relazione sentimentale di Mura con il segretario personale di Mussolini, Alessandro Chiavolini: tra le righe si suggerisce che Mura, grazie a questa relazione, fosse entrata in possesso di documenti compromettenti su alcuni gerarchi fascisti.
In realtà la vicenda del romanzo non segnò alcuna battuta d'arresto nella carriera di scrittrice di Mura, che continuò a scrivere e pubblicare romanzi fino alla morte avvenuta prematuramente in un incidente aereo, di ritorno da Tripoli, dove si era recata per fare delle ricerche.
Il romanzo, che rivede la luce in una edizione a stampa dopo essere stato a lungo dimenticato e che sicuramente porta con sé il peso di un titolo oggi disturbante, in un contesto linguistico giustamente attento al portato ideologico delle parole, rimane però un documento culturale interessante e liquidarlo solo come un romanzo di consumo (quale indubbiamente era) o come veicolo di una cultura incentrata sulla difesa della razza, non gli rende probabilmente giustizia. Pur rilevando i limiti di un genere che guardava essenzialmente al mercato ed una fruizione finalizzata all’evasione, il romanzo di Mura offre, oltre ad un primo piano di lettura del tutto in linea con l’ideologia della superiorità della razza bianca, degli improvvisi bagliori che illuminano una visione della donna e dei suoi diritti, non così poi rispondenti a quell'ideologia. Il personaggio della protagonista, Silvia Dàino, narratrice autodiegetica, ha scelto di vivere in albergo dopo la morte del marito, trentotto anni più anziano di lei, che però l’ha fatta sentire amata e rispettata. L’incipit del romanzo, anche attraverso l’uso del tempo di narrazione al presente, immerge il lettore in medias res, nel momento immediatamente successivo ad un incidente capitato alla protagonista nella stanza da bagno, con conseguente intervento salvifico del vicino di stanza Sambadù, che irrompe nella camera dopo aver buttato giù la porta e si prede amorevolmente cura di lei, con un pudore che sembra voler chiedere perdono di tutto, anche di esistere "Lui cosí nero, di fronte alla mia presenza bionda, e di osare gesti che non sono abituali tra persone che non si conoscono". Motivo ricorrente, nei passaggi iniziali sono infatti proprio i contrasti cromatici percepiti dallo sguardo di Silvia "la cornea di smalto bianchissimo" e le mani assolutamente nere sul dorso
e violacee nel cavo, il bianco del pigiama e la vestaglia rossa, con la conclusione che il vicino di camera è un autentico negro, e tale rimarrà nonostante la mia illusione
. Lui, che Silvia ha sempre considerato "come un selvaggio", mostra una delicatezza e levità non consuete per mani maschili, ed è questo il primo stereotipo che comincia a vacillare, ancora prima del pregiudizio sul selvaggio, che Silvia ben presto ammetterà, dicendo a Sambadù di aver sempre temuto gli africani "Mi pareva che fossero selvaggi refrattari a qualsiasi forma di civiltà: mi pareva che non potessero sentire, ragionare, vivere come noi: la differenza di razza, di lingua, me li aveva resi talmente estranei da non pensare di poterli comprendere anche se mi avessero parlato in italiano. Ora sono stupita e turbata anche. Tutte le mie convinzioni sono sconvolte". Certamente, ad essere straniante è quanto afferma Sambadù di lí a poco quando, dopo aver ricordato che gli uomini neri in Italia o sono servi o artisti, prende le distanze dalle sue origini:
"Io sono un ingegnere, un uomo orami fuori dalla mia razza, e la mia pelle nera non ha più nulla a che fare con i miei pensieri, con il mio cuore, con la mia sensibilità.
Tutto quello che ho lasciato dietro di me, fuggendo bambino, l’ho dimenticato".
Silvia all’inizio cerca di opporre resistenza al sentimento che non vuole ammettere nei confronti di un uomo che sente così diverso: Apparentemente, sí, dà l’impressione di aver dimenticato di essere negro, ma sostanzialmente deve essere rimasto un selvaggio
, ma poi comincia a difenderlo, ancor prima di abbandonarvisi, dai pettegolezzi scherzosi e malevoli degli amici, rivendicando che Siamo tutte creature di Dio con un’anima e con un cuore. Il colore della pelle non conta.
Quando, dopo un’avventura della protagonista con lo spavaldo corteggiatore Marisi, il matrimonio che dovrebbe coronare i sogni di Silvia si avvicina, le cose cominciano a cambiare. Lei stessa, mentre assiste ad uno spettacolo teatrale, accorgendosi che l’orchestra è "composta di negri attraversa una specie di incubo angosciante sostituendo il volto di Sambadù, che per un attimo ha perso quel
marchio di nobiltà che lo rende diverso dagli altri, ad ognuno degli orchestrali, rassicurata poi dallo steso Sambadù che ribadisce di non aver nulla in comune con il
clan dell’arte varia". L’idea di un figlio, che comincia subito a prendere corpo nelle parole degli amici e dello stesso Sam (come lei chiamerà d’ora in poi il marito), apre subito una crepa nell’idea vaga di futuro di Silvia:
"…penso a questo figlio che questo amore non potrà fare a meno di concepire, ad un piccolo bimbo che si aggrapperà al mio seno bianco con le sue manine […], e questa visione mi fa rabbrividire. Il sangue del mio bambino sarà inquinato dal sangue di un’altra razza…".
Il tono da padrone di Sambadù, che chiude in camera Silvia quando va a comprare le sigarette, prende a sgomentare la protagonista, che rimane assorta in un’idea di schiavitù e padronanza
che le provoca sofferenza e disagio. La gravidanza acuisce il malessere di Silvia, che si scopre a cullare l’assurdo sogno di una creatura tutta sua, bianca e bionda come lei. Pian piano, ancora prima della nascita del bambino, il matrimonio comincia a spegnersi. La protagonista non riesce più a vedere Sam come quando lo ha conosciuto, dice che man mano che si sono abituati l’una all’altro, lui ha perso lo stile, ciò che lo rendeva un europeo civilizzato. Ma abitudini e gesti che lei non sopporta ed attribuisce ad un riemergere di abitudini incivili e comportamenti innati che appartengono alla vita selvaggia (mangia carni sanguinanti, si aggira nudo per casa), raccontano piuttosto le prime incompatibilità tra coniugi. Silvia, dopo la nascita del bambino, vive circondata dall’adorazione del marito che l’ha stretta in un rapporto di sudditanza ("Non è più semplicemente mio marito, è il mio padrone. È il mio padrone. È il padrone di tutto e tutti, ed è impossibile sottrarsi al suo dominio"). Potremmo forse rilevare che questo scivolamento verso una percezione soffocante di uno stato di subordinazione da parte di Silvia, sia stata troppo accelerata dall’autrice, ma quanto emerge tra le righe è l’idea di una insofferenza verso qualunque forma di controllo e dominio del genere maschile all’interno del rapporto di coppia e del matrimonio, condizione che certamente non doveva all’epoca attribuirsi solo alle diversità culturali tra bianco e nero, se invece consideriamo le