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Dopo il 6 febbraio
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E-book498 pagine7 ore

Dopo il 6 febbraio

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Info su questo ebook

Un padre con un passato moralmente grigio, quale eredità lascia ai suoi figli?

Un ritrovamento di un manoscritto apre universi fino ad allora impensabili sulla vita di Giulio, padre di Michele. La storia si insinua negli anni di piombo e della strategia della tensione, gli anni '70 e le trame contro la democrazia, le stragi di Stato e il terrorismo.

Michele, il protagonista di questo romanzo, dovrà fare i conti con un'eredità morale di un

padre con un passato con vaste zone d'ombra. L'amore con le donne della sua vita, la sua carriera universitaria, il suo coinvolgimento nella lotta armata.

Michele ripercorre a denti stretti quello che sa della vita di suo padre. Il romanzo parla di

famiglia, storia, amore e perdita. Una serie di eventi vedranno il protagonista e il suo amore liceale, intrecciarsi alla ricerca di una verità ma un tragico evento cambierà il verso e l'epilogo di questa storia…
LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2022
ISBN9791221400724
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    Anteprima del libro

    Dopo il 6 febbraio - Roberto Pelo

    Michele/1

    I

    Piove a gocce rade e fredde sulla piccola folla ammassata nello stretto corridoio che divide le due lunghe file di loculi. La primavera sembra ancora lontana, nonostante sia marzo: a tratti il vento ha un sapore pungente, come di mare e salsedine. Ma a tratti: il resto è ancora inverno. Il marmoreo silenzio del Verano è incrinato solo dalle scarne parole che si scambiano gli operai impegnati nella tumulazione: la bara è stata appoggiata sul piano metallico di una gru gialla; il loculo è al terzo livello. Là, tra i fiori secchi e i lumini perpetui degli altri fornetti, c’è un buco vuoto, un’assenza dolorosa: la vecchia lapide è stata rimossa e ora è a terra, in un angolo, capovolta. Ci sono sopra le fotografie di un uomo e di una donna, i nomi, le date. Accanto, in ginocchio, il marmista lavora un impasto grigiastro a base di cemento e leviga con un panno piccoli blocchetti di pietra chiara. Gli altri tre continuano il loro lavoro, con perizia e mestiere, frutto di lunga esperienza, di gesti ripetuti, di anomalie incontrate e risolte. La pioggia ha già imperlato il mogano lucido, i bracci meccanici della gru, i pioli della scala a telescopio; lavorano in uno spazio angusto e ostile: nel tempo, al centro del corridoio, sono state erette una dozzina di tombe di peperino scuro, che la pioggia rende man mano più cupo.

    Tre donne seguono con sguardi attenti il lavoro degli operai. Sono vicine, sembrano insieme, ma è solo la forzata prospettiva che le tiene una accanto all’altra. Tra di loro non un gesto, né una parola.

    La più vecchia, dagli occhi celesti e i capelli ramati – forse un tempo di un rosso naturale-, la pelle chiara del viso screziata di piccole efelidi, regge l’ombrello con mano sicura. Ha una bellezza perduta che le illumina il volto, il cui pallore risalta dal bavero rialzato del suo impermeabile nero. Indossa guanti di pelle, neri anch’essi, come la borsa di cuoio lucido che tiene nell’incavo dell’altro braccio. I suoi occhi seguono i movimenti degli operai, che ora stanno fissando ganci attorno alla bara, per evitare che scivoli.

    Dietro di lei, avvolta in un leggero piumino blu scuro, accostata il più possibile alla parete per schivare la pioggia, c’è Angela. Sente il peso della situazione, ma non riesce a provare dolore: quando ha chiuso il rapporto- sbagliato sotto tutti i punti di vista – con suo marito, ha rotto i ponti con tutta la famiglia di lui, lasciando socchiuso soltanto l’uscio delle buone maniere. Per i figli, perché continuassero ad avere buoni rapporti, inesorabilmente necessari, con il padre e i nonni. Mostra di meno dei suoi floridi quarant’anni e lo sa: ogni tanto si volta verso gli archi d’ingresso del settore, come a controllare che non venga nessuno. Ha scambiato appena poche parole con la sua ex suocera, che ora le volta le spalle, nel suo silenzio vestito di nero. Qualche frase sui nipoti, nulla più. Non hanno avuto nemmeno il tempo di capirsi e conoscersi, per tante ragioni: ma Angela non ne soffre, perché quella donna con le tenui efelidi sul viso ha imparato a conoscerla attraverso gli occhi e le parole del figlio.

    La terza è la più vicina agli operai al lavoro. L’ombrello che tiene in una mano ha una stecca piegata e mostra una gibbosità: ha provato più volte a farla sparire ma poi ha rinunciato. È poco più vecchia di Angela, ma è molto dimessa. Tiene un fazzolettino bianco in una mano e si asciuga costantemente gli occhi e il naso, arrossati per il troppo piangere.

    Accanto a lei c’è Leandro Manchesi: alto, forte, con la barba bianca e folta a incorniciargli il viso. Un bell’uomo ancora, la cui vecchiaia è tradita solo dal bastone che tiene nella mano destra e sul quale si appoggia pesantemente. Porta un cappello a larghe tese, un loden verde: ogni tanto si china all’orecchio di Claudia e bisbiglia parole inudibili, cui lei assente con mestizia, per poi tornare a seguire l’opera di sigillo di una vita, con penosa attenzione.

    Dall’altra parte, là dove sta lavorando il marmista, due uomini che sembrano fratelli, seppure tra loro corrano diversi anni: impermeabile color sabbia, una sciarpa al collo, senza ombrello né cappello, leggermente calvi, la faccia ossuta con gli zigomi sporgenti, le guance scavate, una barba non rasata che ne ingrigisce l’aspetto. Non si conoscono, però sono vicini e seguono la meccanica cerimonia con partecipazione: non parlano, hanno silenziato i telefoni cellulari. Uno dei due, quello più giovane, è fisso sulle attività meticolose del marmista: l’impasto grigio scuro ora ha una consistenza giusta e l’uomo aspetta il suo momento: apre uno scatolone serrato da fettucce metalliche bianche e ne estrae mattoni. Con gesti misurati, senza rumore.

    Tutte e due sono stati, in tempi diversi, colleghi di Giulio Morelli, che ora giace nella bara bagnata dalla pioggia. Non avevano mai avuto occasione di incontrarsi e hanno scoperto da poco di aver condiviso la sua amicizia, separatamente. Quello più giovane è anche collega di Claudia e ogni tanto - attraverso la struttura della gru, i movimenti continui degli operai, la pioggia fredda - le lancia lunghi sguardi pieni di rancore, tristezza e pietà di se stesso.

    Fisso al buco nero del loculo vuoto nella parete di fronte, Michele sente la pioggia battergli sul viso, bagnargli i capelli. Nella vacuità oscura vede le immagini degli ultimi giorni – quelli precedenti gli estremi e terribili dell’agonia e della morte- quando ha visto suo padre.

    Era venuto a Roma per stare con i figli, come fa da anni un paio di volte il mese. Era andato da Angela, a prenderli, direttamente dalla stazione, in taxi, che aveva fatto attendere al portone e poi, come sempre, erano andati a casa del nonno, dove avrebbero passato il fine settimana.

    Erano stati due giorni di buona allegria, tutto sommato, e i bambini erano tornati dalla madre, la domenica sera, stanchi e soddisfatti. Solo Giulio sembrava prostrato, da quei due giorni di passeggiate nella pineta, cinema, gelati fuori stagione, partite a carte sconclusionate e giochi a palla in salone. Il rituale dei suoi incontri con i nipoti.

    Michele aveva trovato il padre dimagrito.

    «Hai perso peso?»

    «Due o tre chili» aveva risposto asciutto Giulio, che aveva aggiunto: «Alla mia età, meglio tre chili di meno che tre chili di più.»

    «L’inconveniente» aveva ripreso più tardi, quando sembrava che il discorso fosse morto e sepolto, «è che il metabolismo cambia e anche tre o quattro chili modificano il tuo equilibrio e ti stanchi più facilmente. Ti dispiace se vado a letto prima, questa sera?»

    Partendo, il lunedì mattina, gli aveva detto come sempre di riguardarsi e di non eccedere con la dieta. Si erano abbracciati e baciati, come sempre.

    Una tristezza sconfinata gli invade l’anima, ma non ha lagrime. Michele non piange da più di trent’anni.

    Da quando la madre aveva deciso di lasciarli, lui e il padre, per un’altra vita. L’ultimo anno passato a Londra, dove era nato sette anni prima, era stato il calvario di un bambino che aveva visto svanire attorno a sé la vita: la madre, un pomeriggio d’inverno, gli aveva detto sulla porta di casa ‘Torno presto, non piangere’, mentre il tassista sistemava le valigie nel portabagagli. Ed era svanita. Più che l’abbandono, non le aveva mai perdonato quella torbida bugia. Di quell’addio ricordava solo la liscia e verde superficie del canale di Camden, che correva proprio di fronte alla loro casa.

    Era stata una infanzia dominata dal silenzio. Suo padre e sua madre parlavano poco, non solo tra loro, ma anche con lui: il loro rapporto, sembrava a Michele, era fatto di gesti, segni, sguardi più che di parole. Si parlava delle cose di tutti i giorni, con informative brevi e concise, dei piccoli programmi per il week end, del lavoro e della scuola, di quello che aveva detto nonna, quando aveva telefonato. Per il resto era un silenzioso fluire dei giorni. Ricordava la casa sul canale, la liscia superficie di acqua verdastra, solcata dal vagare delle anatre e dai remi dei vogatori del vicino circolo. La sera si sentiva il gracidare delle rane. Andrew, il suo migliore e forse unico amico, abitava nella casa accanto. Giocavano assieme, spesso. Era lui che andava a casa di Andrew, il più delle volte: una famiglia grande, rumorosa e organizzata. Andrew aveva due fratelli e due sorelle, tutti più grandi: una ininterrotta baraonda di gente che piangeva, strillava, litigava o rideva a crepapelle, giocava, si divertiva. Niente di più lontano e diverso dalla sua. Anche la casa rifletteva questa diversità: colori, confusione, un caos dolcemente tollerato, rispetto alla penombra dominante di casa sua, interrotta o, meglio, evidenziata dalla macchia di luce della lampada sulla scrivania della mamma, che passava un paio di pomeriggi a settimana a preparare la lezioni dei giorni successivi al college, dove insegnava storia dell’arte. Non sapeva scegliere, Michele, tra la baraonda confusionaria della casa di Andrew e l’ordine silente di casa sua. Ammirava la perenne attività di quella casa, ma gli piaceva tornare all’ordine discreto, alle parole calme e convincenti di suo padre e sua madre, ai mobili di mogano massicci e imponenti, alla libreria traboccante di volumi, che tracimavano sulle scrivanie, sui tavoli, ovunque.

    Suo padre tornava con regolarità tutte le sere poco prima delle sei. Il lavoro di bibliotecario, non lontano dal Holborne, non lo obbligava a orari difficili. Quando la stagione o le giornate lo permettevano, uscivano assieme, Michele e il padre. Andavano a fare delle spese a Camden oppure se ne andavano al parco o a camminare lungo il canale, o in bicicletta. Poi sua madre era andata via. Era rimasto sorpreso: non aveva mai visto o sentito i suoi genitori litigare, alzare la voce, discutere. Fosse stato così, avrebbe capito, forse. Ma il buco nero di quell’addio senza una spiegazione era troppo grande per lui. ‘Torno presto, non piangere’ e, invece, aveva rivisto sua madre solo tre o quattro mesi dopo. In quei lunghi giorni di solitudine aveva pianto, tanto e da solo. Era stato suo padre a spiegargli perché la mamma se ne era andata: le solite cose, che il tempo passa, l’amore si affievolisce, e così via. Anche nonna Alison, con il suo viso pieno di efelidi che gli rincordava tanto sua madre, gli aveva parlato con dolcezza. Era venuta a stare con loro per quasi due mesi, all’inizio, e un po’ lo aveva aiutato. Non riusciva a capire come sua madre avesse potuto lasciarlo, lui che l’amava senza riserve. Amare ed essere riamati, era stato da allora il suo problema. Erano passati dieci lunghi mesi, poi un giorno suo padre gli disse che sarebbero tornati in Italia. Michele non aveva mai visto l’Italia. Fu quasi una bella notizia.

    I bracci della gru si tendono, con un ronzio uniforme: ora la bara è all’altezza del loculo. Dalla scala vicina uno degli operai rimuove i ganci e con una leggera pressione la fa scivolare lungo il piano inclinato: a mano a mano il mogano lucido è inghiottito dalla profondità senza luce del fornetto. Rimane solo una parte a sporgere ancora nel vuoto. La gru si abbassa, è spostata e portata fuori dal corridoio, oltre gli archi d’ingresso. Anche un altro operaio sale sulla scala scorrevole che corre lungo tutto il perimetro e assieme al suo compagno, con silenziosa fatica, spinge la bara dentro. Non si vede più niente, il loro lavoro è finito. Adesso tocca al marmista.

    Manchesi si stacca da Claudia e va verso gli operai, che stanno raccogliendo le scorie del loro lavoro. Confabula con loro, mentre si allontanano, tenendosi penosamente sul bastone. Estrae il portafogli, dà loro una mancia, li saluta con strette di mano e pacche sulle spalle.

    Il quadro si è frantumato, la scena è cambiata.

    Per tutti la cerimonia è finita: si avvicinano i due uomini in impermeabile beige. A turno stringono la mano a Michele, gli dicono parole di conforto e poi si allontanano. Quello che sembra più giovane si ferma sotto gli archi e aspetta. Aspetta che Claudia si muova: torneranno in ufficio insieme, come sono venuti.

    Tra Claudia e Michele c’è la fila delle tombe, i vasi con le piante sempreverdi, i mazzi e i vasi di fiori: freschi, di plastica polverosa, rinsecchiti dall’inverno. I loro occhi s’incrociano e lei, tra le lacrime, gli manda un timido sorriso affranto. Lui annuisce. La donna si allontana, asciugandosi le lacrime.

    Si avvicina anche Manchesi.

    «Ti fermi?»

    Michele rimane sospeso. «Sì, mi fermo almeno qualche giorno.»

    «Be’, fatti sentire. No, anzi, ti chiamo io tra due o tre giorni. Magari andiamo a mangiare qualcosa assieme». Non aspetta risposta, gli fa una carezza e se ne va, imponente e zoppicante sotto la pioggia che si è fatta più insistente.

    «Monterà anche la lapide, oggi?»

    Il marmista, che in cima alla scala sta cementando i mattoni in file sovrapposte per chiudere il loculo, si volta appena verso Michele.

    «No, devo aspettare che il cemento si asciughi, almeno un po’. Ci vorrà tre o quattro giorni, una settimana, forse, se questa pioggia non smette.»

    «Allora io vado. La chiamo tra una settimana e poi mi dice come dobbiamo regolare il pagamento.»

    «Non c’è fretta. Ci sentiamo quando è comodo.»

    «Arrivederci, allora.»

    «Arrivederci.» Dà uno sguardo alla lapide capovolta e appoggiata in un angolo, e poi si muove verso l’uscita. Vanessa Cowley e Angela lo guardano allontanarsi. Poi, questa s’incammina per raggiungerlo, mentre Vanessa rimane al suo posto, a seguire il lavoro del marmista, a controllare. Non ha fretta, anche perché deve concedere a Michele e Angela tempo e spazio.

    Angela lo raggiunge sulla scalinata sconnessa e mangiata dall’erba che porta al vialetto di cipressi. Gli è vicina, ma non parla. In realtà non ha niente da dirgli. Sa che, se provasse a pronunciare qualche parola di conforto, creerebbe solo problemi. Tace, scendendo le scale al suo fianco.

    È lui che si ferma per parlare. Il tono è quello usuale, calmo contenuto gelido.

    «Perché non hai portato i bambini?»

    «Un cimitero e una tumulazione non sono il posto migliore per bambini di sette e nove anni». Si aspettava il rimprovero, ed è pronta. Pochi minuti di rabbia trattenuta, di livore represso e poi sarà libera: è il prezzo che, già sapeva, avrebbe pagato. Presto tornerà nel fortificato recinto dei rapporti formali.

    «Non è un funerale. È il funerale del loro nonno. Portano lo stesso cognome. Te l’avevo chiesto, ma hai fatto come sempre di testa tua, per imporre le tue idee e le tue scelte agli altri. Senza rispetto per nessuno, tantomeno per me. Che sei venuta a fare, tu, da sola?»

    «Lo conoscevo anch’io, anche se sembra che te ne dimentichi sempre, e gli volevo bene: ecco perché sono qui.» Un po’ finge, un po’ è vero. Scende gli ultimi gradini e dal vialetto gli manda l’ultimo messaggio: «Se ti fermi a Roma e vuoi vedere i bambini, chiamami con anticipo, per cortesia.»

    Va via, con passo svelto e sicuro.

    Michele rimane a guardare la prospettiva del viale di cipressi: in fondo scorge Leandro che annaspa sulla via del ritorno. Sente la presenza della madre, alle spalle: si volta. Vanessa lo fissa con uno sguardo acquoso e spento. Anche lei non ha lagrime.

    «Ti fermi anche tu a Roma? Vuoi venire a casa con me?»

    Lei scuote la testa e allunga la mano guantata per trovare un appoggio che la aiuti a scendere quelle scale viscide e sconnesse. Lui la sorregge, lei gli passa l’ombrello e s’incamminano.

    «No, non mi fermo. Riparto subito. Se non ti dispiace, accompagnami a Termini.»

    Tacciono, ciascuno nei propri pensieri. Solo quando sono in macchina, lei si lascia andare a una domanda: «Ti fermerai molto? Hai molto da fare, qui a Roma?»

    «Non lo so, ancora. Dipende da quel che c’è da fare. Mi sembra molto, ma non so…»

    «Avrai da sistemare un sacco di faccende burocratiche. Bene o male tuo padre t’ha lasciato qualcosa. Hai un piano in mente?»

    «Che cosa vuoi sapere con precisione, al di là di tutte queste domande generiche? Vuoi sapere che ne farò della casa?»

    Il silenzio di lei è una conferma.

    «Non lo so, pensavo di venderla.»

    «Venderla? e perché mai? Non ci pensi ai tuoi figli?».

    La guarda con una punta di divertito disgusto: «Tu, dico tu, ti preoccupi dei miei figli? Sei spettacolare.»

    Non c’è più niente da dire.

    Parcheggiata la macchina, attraversano la piazza che porta alla stazione, nel magma di autobus affollati, semafori intermittenti, clacson, folle di pedoni, mendicanti buttati in terra, questuanti, turisti bagnati e felici.

    «Come farai ad arrivare a casa da Siena?»

    «No, scendo a Chiusi. Verrà a prendermi Antonio.»

    La lascia al binario numero 7. Il treno partirà a minuti e lei ha voluto che lui se ne andasse. Senza un saluto, un bacio, una carezza.

    II

    Le nuvole si sono aperte e un sole intenso e inatteso investe Santa Maria Maggiore, filtra tra i rami ancora spogli dei platani di via Merulana, invade i ruderi austeri di Caracalla; quando al bivio con la Pontina, dopo l’EUR, continua sulla Colombo, i riflessi sul parabrezza sporco e macchiato dalla pioggia diventano accecanti. Ci sono pozzanghere negli avvallamenti, cumuli di aghi di pino, ma il traffico è rado e in un quarto d’ora è a casa.

    Parcheggia l’auto nella rimessa. L’erba del giardino è imbevuta di pioggia e gocciole d’acqua brillano sui fili d’erba: una coppia di merli sguazza tra le polle e il sole, con le piume arruffate.

    Lo aspetta il silenzio della casa. Un silenzio nuovo ed eterno, non il solito tedioso silenzio di quando tornava da scuola e suo padre era ancora al lavoro; né il silenzio fatto di piccoli gesti e lievi rumori di Marina prima, Esther poi e infine di Carmelita, le donne che venivano a rassettare la casa e cucinare un po’. Un silenzio definitivo, senza appello.

    Per la prima volta avverte la fisicità della sua solitudine e l’assenza di suo padre.

    Si stende sul divano, accende il televisore, per avere un minimo di rumore e scacciare l’immanenza del silenzio.

    Quando si risveglia, il sole è andato via e la sera è imminente. Spegne il televisore e chiama Carmelita. Dove avesse trovato suo padre una peruviana in quel mare di rumene, filippine e moldave era un mistero. Grassa e piccola, sta in quella casa da più di vent’anni. Quando sente la sua voce, la donna comincia a piangere: è lui che la consola. Verrà domani, porterà da mangiare qualcosa, cominceranno insieme a lavorare per chiudere la casa.

    Rimane seduto sul divano con il cellulare in mano, a guardare il giardino di là della veranda. Il telefono squilla: è Maria Paola, la sua assistente.

    «Ciao Michele, come va?»

    «Né bene né male. Va…E lì?»

    «Tutto sotto controllo. Senti, ha chiamato il Presidente, voleva tue notizie ma non ti ha telefonato, per non disturbarti. Te lo passo? Poi noi ci sentiamo con calma, magari domani.»

    Rimane in linea ascoltando la musichetta di intrattenimento. Dopo un po’, la voce del Presidente.

    «Ciao Michele.»

    «Ciao, Presidente.»

    «Non ti sto a fracassare i marroni su come stai o come non stai, tanto lo so che stai male.» È un uomo scarno, fisicamente e nei modi, forse anche nei sentimenti, ma hanno un buon rapporto, di stima reciproca. «Ascolta a me, neh: prenditi tutto il tempo necessario, possiamo fare senza di te, o almeno», sogghigna, divertito, «possiamo resistere anche senza di te, per un po’. Non farti scrupoli. Cerca di riprenderti: ci sentiamo tra una decina di giorni, poi decidiamo. Va bene?»

    «Ti ringrazio, ma credo siano troppi.»

    «Se sono troppi o pochi lo vediamo dopo. Un consiglio: pensa a te e non stare a telefonare per sapere come procedono i progetti. Procedono e se non procedono, peggio per loro. Dài, ti abbraccio: chiama tu, quando sei pronto.»

    Ora deve cominciare a fare i conti con la nuova realtà. Accende la luce della lampada vicino alle scale, sale al piano di sopra. Chiudere una casa, chiudere una vita.

    Fa un giro delle stanze, apre gli armadi, i cassetti del comò. Deve darsi una guida, predisporre un piano: non è difficile, è il suo lavoro. Ma è stanco, non ha più risorse, dopo una settimana: ha bisogno di non pensare.

    Squilla di nuovo il telefono: è Angela. Non vuole parlare con lei, ma risponde.

    «Ciao papà». È Eleonora, invece, che chiama dal telefono della madre.

    «Ciao, amore. Come stai?» Una sorpresa piacevole, che lo aiuta un po’.

    «Io bene papà, anche Tommaso sta bene. Ma tu?»

    «Bene, piccola, bene. Ci vogliamo vedere? Chiedi alla mamma se per sabato prossimo ci sono problemi». La sente che parla con la madre, che evidentemente è lì, vicino a lei.

    «Mamma dice di sì…cioè che no, non ci sono problemi. Dice pure se dormiamo con te sabato sera.»

    «Dille che le mando un messaggio, domani. Ci vediamo sabato, allora.»

    «Buona notte papà. Anche Tommaso dice buona notte.»

    Scende in cucina. Trova delle gallette salate, un pezzo di formaggio un po’ ammuffito: lo pulisce, si prepara un piatto, apre una bottiglia di vino e mangia davanti al televisore, guardando una partita di basket americano. Il vino lo aiuterà.

    III

    Quando Carmelita arriva, si è appena alzato e sta sorbendo un caffè dal sapore metallico e con un retrogusto salato, che si è preparato con la macchinetta automatica.

    Come lo vede, la donna comincia a piangere. Michele le impone di smettere, anche un po’ bruscamente.

    «Non piango io, non piangi nemmeno tu.»

    «Ma yo volevo bene a tuo padre», implora Carmelita.

    «Anch’io», taglia corto lui. «Piuttosto, cerchiamo di organizzarci. Intanto devi incominciare a cercarti un nuovo lavoro. Non ho ancora deciso se la casa la vendo o no – potrei farlo anche domani, perché mio padre l’ha intestata me- però in ogni caso andrà chiusa. Non preoccuparti per i soldi: ti pagherò una buonuscita.»

    «Que es una buona uscita, Michele?» Nonostante i venti e più anni in Italia, infarcisce le sue frasi di spagnolo.

    «Significa che verrai adeguatamente pagata per tutto il tuo lavoro con noi. Chiaro? Bene: allora, cominciamo. Disfa tutti i letti, prepara le lavatrici. Sistema solamente il mio, in mansarda: mi fermo qualche giorno.»

    Lei posa in cucina la busta con il pranzo che ha preparato la mattina, prima di venire. Si cambia le scarpe e il vestito, come fa sempre, e si mette silenziosamente al lavoro.

    Michele si chiude nello studio del padre, avvia il portatile e abbozza un quadro di ciò che deve fare: prima di tutto le priorità; poi i grandi gruppi di oggetti/ricordi di cui bisognerà disfarsi. Priorità: svuotare la casa, nel più breve tempo possibile. Gruppi di oggetti: mobili, quadri, tappeti, libri.

    Le nuvole bianche e sfilacciate, che si compongono e si sfaldano con moto perpetuo, creano sbalzi di luce, che entra dalla finestra con una continua evoluzione: il sole corre sulle cime dei pioppi, sui pini, sulle siepi di lauro ceraso e di gelsomino, che limitano i giardini; sugli ulivi magri e le magnolie rinsecchite, che si alzano, qua e là, tutt’attorno. Rimane incantato e soprappensiero, come gli accadeva trent’anni prima, quando studiava nei lunghi pomeriggi da solo, in quella casa. Poi si scuote e va avanti.

    Comincia a fotografare, a uno a uno, tutti i mobili di antiquariato e i tappeti. Li metterà su qualche sito on line, per venderli all’asta. La giornata passa così, perché non tutte le foto sono venute bene e, riversandole nel computer, se n’è accorto e deve cominciare da capo.

    Quando Lita dalla porta lo saluta, si rende conto che è quasi il tramonto. È stata tutto il giorno in casa, silenziosa come un’ombra, operosa come un’ape. Soltanto all’ora di pranzo l’ha chiamato ed hanno condiviso – seduti in cucina, al vecchio tavolo di marmo grigio- i peperoni ripieni di riso e spezie piccanti che aveva preparato, la sua specialità.

    «Ti accompagno a casa, Lita.»

    «No, no. Vado da sola: tra cinque minuti arriva el bus. Vengo, domani?»

    «No, meglio dopodomani.»

    «Bien. Claro. Ciao, Michele.»

    Si guarda attorno: i quadri ammonticchiati, in un angolo; i pochi libri che ha salvato e che porterà con sé, in uno scatolone che ha trovato in cantina; gli oggetti di un certo valore, che spedirà a parte, a Milano, e che farà vedere a un antiquario suo amico, forse interessato, sistemati sul tavolo da pranzo, in fila, uno appresso all’altro.

    Si lava le mani e si guarda nello specchio del piccolo bagno per gli ospiti. Decide di uscire, camminare un po’, rompere con la malinconia di quegli oggetti.

    C’è un’aria fresca e trasparente lungo i grandi viali che si snodano nel quartiere: le illuminazioni dei giardini e i lampioni stradali sono già accesi ed è un susseguirsi di pozze di luce e zone d’ombra. Cammina senza scopo, solo per il gusto di camminare, lungo le grandi aiuole spartitraffico, che dividono le carreggiate. Il vento della sera smuove le fronde dei lecci, fa oscillare i rami nervosi dei grandi eucalipti, scuote le corolle dei pini. A occidente, verso Ostia, lunghe strisce rosa cupo lambiscono gli orli delle nuvole. C’è già qualche stella e, pur non vedendola, perché nascosta dagli alberi, sente la presenza di una fragile luna.

    Michele è un uomo solo, spesso triste. A volte ha la sensazione di essere lui la causa di questo suo perenne stato di solitudine e tristezza. Per anni è stato convinto, dentro di sé, che sua madre se ne fosse andata per colpa sua. Se ne era andata, perché lui non la meritava. Ne aveva pianto, spesso. Una volta, quando aveva una quindicina d’anni, lo aveva detto al padre, che aveva sorriso, carezzandolo su un braccio, dicendo: «Non dire fesserie». E pure, nonostante questa assicurazione, gli era rimasto dentro il dubbio per anni, fino a quando, ormai adulto, aveva capito finalmente chi fosse sua madre e quali fossero i meandri confusi della mente di lei.

    Anche della fine del matrimonio con Angela sente su di sé tutte le colpe. Dopo la separazione ha passato il primo anno rinchiudendosi tutte le sere in casa, da solo, a pensare ai figli, al suo fallimento, a tutti gli errori che aveva compiuto.

    Era stato la vigilia dell’Epifania, nel 2003. Aveva festeggiato Natale e il primo dell’anno con il padre. Erano andati in Scozia a passare una settimana in un faro. Freddo e vento, onde alte e spumose, violente. Avevano visitato i pochi musei e le cantine di whisky della vicina cittadina, mangiato e bevuto in tutti i pub e le trattorie della zona, camminato al vento e alla pioggia, lungo la costa martoriata e sotto un cielo di grandi e cupe nuvole blu, letto libri. Avevano brindato al nuovo anno.

    Il 2 gennaio era tornato a Milano, in azienda. Amava il suo lavoro e la concupiscente armonia dell’ufficio. In tutti erano una cinquantina, in alcuni periodi anche sessanta, con gli stagisti e i precari presi a progetto: ristrutturazioni aziendali, una società di consulenza. Tanto lavoro, ma anche soddisfazioni. Lavorava lì da due anni, appena dopo laureato. Ma era entrato subito nelle grazie di Gregorio Ferretti, presidente e proprietario della società, assieme ad altri due soci, che però non avevano incarichi operativi e non si vedevano quasi mai in azienda. In due anni era diventato uno dei capi settore e aveva una bella squadra che lavorava con lui.

    Nel pomeriggio era passato in ufficio anche Ferretti. Qualche telefonata, una chiacchierata con Biagini, responsabile dell’amministrazione e finanza e suo indiscusso braccio destro, e poi era andato via. Uscendo, si era fermato da Michele. Sulla porta, con la mano sulla maniglia gli aveva detto:

    «Visto che te la sei svignata e hai saltato il party di Natale, il 5 sera sei a casa mia. Non è un invito: sei precettato. E non sono ammessi neanche i certificati medici: siamo in dieci e tu sei il decimo. C’è rimasto un posto a tavola da maschio, giacché mia figlia ha invitato una sua amica, scoppiata – nel senso che è senza uomo- e ci serve chi tappa il buco. Tu sei quello.» Non si riusciva mai a capire dove finisse lo scherzo e cominciasse il cinismo di Farelli. Nonostante avesse solo quarantacinque anni, aveva una figlia coetanea di Michele – si era sposato a vent’anni scarsi, quando la sua compagna di banco e attuale moglie si era scoperta incinta. Nonostante questo, si era laureato in ingegneria e aveva messo su il suo piccolo impero.

    «Sei libero? Hai voglia di passare la vigilia della Befana, come dite voi laggiù, con il tuo Presidente?» continuò con un enigmatico sorriso sulle labbra sottili.

    Michele annuì.

    «Hai fatto bene a dire di sì: primo, perché al Presidente non si dice mai di no; secondo, perché mi hai risparmiato il fastidio di doverti licenziare. Ciao», chiuse la porta.

    Alla cena, oltre ai futuri consuoceri di Ferretti, ai promessi sposi e a uno dei soci della società, con la moglie, c’era Angela, una ragazza di Roma trasferitasi da poco a Milano, dove lavorava all’Agenzia delle Entrate.

    La cena fu ravvivata dal cinismo sfrenato di Ferretti, che punzecchiava continuamente suo genero: ma tutto in un’aria leggera, un po’ sboccata, dal vago senso di salotto borghese. Nel dopo cena la figlia di Ferretti e il fidanzato avevano proposto ad Angela e Michele di uscire e andare a bere qualcosa fuori. L’idea piacque a tutti, anche a quelli che rimanevano a casa.

    Michele e Angela, dopo quella sera, si videro molte altre volte, poi un giorno lei andò a casa di lui e dormì lì una notte. Si sposarono in giugno, l’anno successivo.

    Michele amava di Angela il senso pratico associato a una naturale inclinazione all’ottimismo, velato da un indecifrabile fatalismo. Lei aveva trovato in quel ragazzo alto e un po’ curvo, per il troppo tempo passato a parlare con gente più bassa di lui, quella calma che lei spesso non aveva e che mascherava con un ottimismo di facciata: ma era divorata dall’ansia e la calma riflessiva di Michele le serviva.

    Ma era troppo poco, da una parte e dall’altra, per costruire una vita insieme. Anche se ci avevano provato.

    Smette di pensare e si guarda attorno.

    Un crepuscolo al carboncino si sta impadronendo dei viali: passano corridori in tuta, ragazzi e ragazze con cani al guinzaglio, poche automobili. È vicino al piccolo supermarket, non lontano da casa. Deve comprare qualcosa per cena, il latte e i biscotti per l’indomani mattina, le arance. Entra nella pozza di luce giallognola del reparto gastronomia: poche persone. Un paio di muratori , ancora con le tute sporche di calce e vernice, parlano tra loro in romeno, mentre ogni tanto interloquiscono con il banconista, che sta affettando una quantità immensa di prosciutto; un signore anziano in un lungo paltò nero chiede all’altro commesso informazioni sempre più dettagliate su quello che è esposto in vetrina: l’altro risponde con tranquillità, in attesa di una decisione finale; una donna con i capelli bianchi, piccola ma eretta, ben vestita, attende composta il suo turno. Nell’attesa Michele sceglie nello scaffale una bottiglia di vino. Sta in fila, con calma. Finalmente il vecchio signore prende il suo pacchettino e se ne va. I muratori ne avranno per molto, pensa Michele.

    «Chi c’è, ora?» chiede il commesso.

    La donna dai capelli bianchi si volta verso Michele, per controllare di non passare avanti a nessuno, mentre alza il dito e dice «Io!». Incrocia lo sguardo di Michele, che le fa un sorriso di cortesia, sussurrando un debole «Prego». Lei, con voce chiara, ordina diversi tipi di formaggio e il pane. Il commesso esegue, con la solita tranquillità.

    La donna si volta ancora verso Michele e lo fissa, con insistenza. Sono a meno di un metro l’una dall’altro e lui non può fare a meno di guardarla.

    I capelli grigio-bianchi a caschetto le incorniciano il viso. Dietro le lenti di occhiali dalla montatura sottile gli occhi sono grandi e azzurri. Ha una specie di sorriso sulle labbra, ma non è sicuro.

    «Michele!»

    Sentendo pronunciare il suo nome, Michele ha un riflesso condizionato: fissa ancor di più la signora piccolina e ben vestita, perché deve cercare di capire. Vedendo la scarsa reattività dell’uomo che ha davanti, la donna ha un gesto di scusa, con le mani, come a dire: lasci perdere, sono io la strana.

    «Mi scusi, l’avevo scambiata per un'altra persona. Scusi, scusi di nuovo.»

    Michele ha capito chi è: «No, Signora Milani, sono io, sono Michele.» Quanti anni sono passati? venti, forse ventidue.

    «Oh, Michele, meno male che sei tu! Ho sempre paura di fare delle brutte figure! Come stai? Che fai qui a Roma? Sei tornato?» Come quando ha ordinato, dice tutto assieme, in una volta sola.

    «Problemi di famiglia» concede brevemente Michele.

    «Niente di grave, spero.»

    «Insomma. Mio padre…è morto pochi giorni fa.»

    La signora Milani ha un gesto di dolore: si porta le mani al petto, come per bloccare la stretta al cuore, incredula: «Oh, Signore mio!»

    Michele ordina le poche cose che gli occorrono e assieme vanno verso la cassa. Appena fuori del minimarket Orietta Milani si ferma davanti a Michele e gli fa le condoglianze. Un lungo discorso di amore e capacità di sopportazione. I grandi occhi azzurri le se inumidiscono, le labbra le tremano. Non riesce più a parlare.

    «Cinque anni fa se ne è andato anche mio marito. Erano solo quattro mesi che era in pensione…» Le emozioni e i ricordi le tolgono il respiro. Tace, asciugandosi le lagrime con la punta delle dita. Poi si riprende, anche se sembra ancora persa nei suoi pensieri o nei suoi ricordi. Si avvicina a Michele, lo bacia sulle guance. S’allontana, mestamente: la figurina eretta non c’è più. Ora, una piccola donna curva per il dolore s’incammina lentamente nella sera.

    Tornado verso casa, Michele ripensa a quell’incontro, tanto fortuito quanto pieno di ombre, al di là delle parole d’affetto. E si chiede perché nessuno l’abbia nominata. Orietta ha parlato di tutto, ma non l’ha mai nominata. Per pudore, forse. Oppure perché il così tanto tempo passato ha reso irrilevante quegli anni, quei giorni, quei discorsi. In fondo era l’ultimo anno del liceo.

    Ma si chiede anche, Michele, perché non abbia chiesto lui: sarebbe stato semplice chiedere: «E Vittoria come sta?» Oppure, come la chiamavano in casa e gli amici, Titti. Solo informarsi, mandarle un saluto. Un saluto a Vittoria, perché lui la chiamava così.

    Ma non lo aveva fatto, stupidamente e non riusciva a darsi una spiegazione. Sono anni che non gli torna alla mente, Titti. È il periodo delle mancanze, deve scontare la sua distanza dal mondo: il padre, la madre, i figli, il lavoro. E ora Vittoria.

    IV

    Lo spedizioniere è venuto a fare il preventivo e la stima del tempo necessario per il trasloco. Ma alla fin fine c’è poco da traslocare: alcuni quadri, qualche mobile, pochi libri da mandare a Milano. Il resto lo venderà, anzi lo deve vendere al più presto, perché i giorni passano.

    Torna a Milano, in azienda, deve parlare meglio con Ferretti: si è reso conto che ha bisogno di più tempo.

    Alla stazione Centrale aspetta per mezz’ora un taxi sotto una pioggia torrenziale. Sembra un monsone, perché l’aria è tiepida. C’è traffico intenso e per arrivare a Porta Romana impiega quasi un’ora. Lascia i bagagli a casa e va in azienda, in zona Garibaldi. I colleghi che incontra gli si fanno attorno: una stretta di mano, due baci sulle guance, parole di circostanza anche se sincere: sente un certo calore attorno a lui. Gli fa piacere. Va nel suo ufficio: la scrivania è piena di carte, pacchi, faldoni.

    Arriva Maria Paola: «Se vuoi ti faccio la relazione completa.»

    Le fa cenno di no. Lei si avvicina, lo abbraccia. «Come stai?»

    «Più o meno come prima: questa morte ha solo messo a nudo la mia solitudine. Adesso si vede, ma io già lo sapevo che c’era, quindi non cambia nulla.»

    Maria Paola lo guarda da dietro i grandi occhiali rotondi e non risponde. Non è bella, ma è brava: una madre e una moglie che non si lamenta mai del lavoro - a volte caotico e forsennato, fatto apposta per essere contro una madre e una moglie. Almeno con Michele.

    Esce, chiudendosi la porta alle spalle. La riapre: «Il Presidente c’è, se ti interessa.» Scompare, sempre presente e silenziosa, sempre informata, pronta. Michele l’adora e anche lei vuole bene a Michele.

    Controlla il pacchetto dei messaggi: il 70% lo butta nel cestino. Apre le buste. Sono quasi tutte riviste specializzate o libri. Cestina le buste e infila libri e riviste nella sua cartella di cuoio testa di moro. Rimane sulla scrivania solo un grande faldone: ‘MOSCATI SpA’. C’è un post-it sopra: ‘ Parlare’, con la sigla di Ferretti.

    Prende il file, il quaderno degli appunti, la penna. Controlla se ha gli occhiali e il cellulare, e si avvia verso la stanza di Ferretti, che è in fondo al corridoio a elle, alla estremità opposta del suo ufficio.

    Ferretti è come sempre al telefono: passa il novanta per cento del suo tempo al telefono. Michele rimane in piedi presso una grande finestra che si affaccia sulla strada: piove e dall’alto vede decine di ombrelli che scivolano sul manto lucido dell’asfalto; il brillio dei trolley dei tram quando incrociano le intersezioni dei cavi elettrici; le insegne sfocate dal vapore della sera improvvisa che è calata su Milano.

    Ferretti lo chiama. Entra nel suo ampio studio, arredato con gusto anche se con eccessiva tendenza, pensa Michele. Ferretti esce di dietro la scrivania, gli va incontro e lo abbraccia, stringendolo con calore tra le braccia nervose e forti.

    «Allora?» gli chiede.

    «Allora…be’, non troppo male, tutto sommato: anche se non me lo aspettavo. Non mi aveva detto niente, ma erano sei mesi che sapeva di avere il cancro. Mah…Lo avevo visto cambiato: ma, sai, quando ti vedi una volta al mese e poi coi bambini…».

    «Hai già fatto tutto quello che dovevi fare, a Roma?»

    «No.»

    «E allora perché sei tornato?»

    «Per questo.» Gli mostra il grosso file che ha in

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