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Sangue caldo
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E-book479 pagine6 ore

Sangue caldo

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Info su questo ebook

Dopo il grande successo de I cospiratori, il nuovo thriller coreano di Un-Su Kim.

Nella città dominata dalle gang, Huisu è il braccio destro di un boss della mafia di Busan. Arrivato a quarant'anni si trova a fare il bilancio della sua vita tra attività illecite, carcere ed esecuzioni per conto di altri, ed è deludente: vive in una stanza squallida, solo, indebitato e nel suo orizzonte esclusivamente notti al casinò a sperperare denaro. Sarà il suo sangue caldo a spingerlo a sconvolgere tutto e le cose andranno fuori controllo.

LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2022
ISBN9788830542587
Sangue caldo
Autore

Un-Su Kim

UN_SU KIM è nato nel 1972 a Busan, nella Corea del Sud, ed è autore di numerosi romanzi di successo. Ha vinto il Munhakdongne Novel Prize, il premio letterario più prestigioso della Corea, ed è stato nominato per il Grand Prix de Littérature Policière nel 2016.

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    Anteprima del libro

    Sangue caldo - Un-Su Kim

    Parte prima

    Primavera

    GUAM

    Nel quartiere di Guam, i balordi non andavano in giro in giacca e cravatta.

    Negli altri quartieri di Busan, la più grande città portuale sudcoreana, i balordi in grande spolvero erano numerosi quanto i container ammassati sui dock. Era noto che quegli uomini, senza preoccuparsi delle necessità di mogli e figli, si facevano un punto d’onore nello sfoggiare un completo senza una piega fuori posto. A volte, per farsi lustrare le scarpe, stavano un giorno intero a stomaco vuoto.

    I balordi di Guam, invece, non saltavano i pasti per un po’ di lucido. Semplicemente, non avevano giacche. E neanche qualcosa da lucidare.

    Dal quartiere di Haeundae a quello di Gwangalli, dalle terme a Seomyeon, tutti i balordi di Busan se ne andavano in giro con i loro completi da beccamorto. Quelli del porto di Gamcheon, invece, impeccabilmente vestiti, aspettavano i mercantili russi carichi di merci di contrabbando, rubando un po’ del calore sprigionato dai fuochi accesi nei bidoni arrugginiti; mentre quelli della stazione centrale, sfruttatori di vecchie prostitute nei vicoli bui, si pavoneggiavano nei loro smoking; e quelli dei quartieri periferici, dopo avere cazzeggiato tutto il giorno guardando le anatre sul fiume Nakdong, la canna da pesca lanciata con noncuranza al di là della diga, al tramonto uscivano di casa tutti eleganti, sorseggiando champagne con l’unica compagnia di qualche lampione solitario; i balordi di Guam, loro, non andavano in giro in giacca e cravatta.

    Non c’era nessun motivo particolare per cui i malviventi dovessero essere eleganti; di fatto, per gente di quella risma sarebbe stata eccessiva anche una tuta da ginnastica. Allora come spiegare che tutti quelli di Busan si pavoneggiavano in completi a tre pezzi tranne quelli di Guam? Secondo alcuni, questi ultimi condividevano una visione responsabile della vita, tipo: «Chi se ne frega come vai vestito, se la tua donna e i tuoi ragazzini non hanno niente da mettere sotto i denti. Se hai i soldi per la tintoria, meglio che li spendi in roba da mangiare». Altri ipotizzavano che in loro si fosse sviluppata abbastanza presto la coscienza filosofica della propria condizione: dato che il compito principale dei balordi era cazzeggiare, che senso aveva farlo in giacca e cravatta? Finché si trattava di un giorno o due, passi, ma tutti i giorni… poteva dirsi degno di un essere umano? Facendo una sintesi di queste due spiegazioni ugualmente ridicole, bisogna concludere che se i balordi di Guam disprezzavano l’eleganza era sia per una consapevolezza della loro insignificante posizione sia per un’accettazione della realtà, tanto dolorosa quanto perspicace. Anche se il sospetto della presa per i fondelli rimaneva insopprimibile.

    In mancanza di meglio, l’ipotesi più convincente era che a Guam fosse diffusa la superstizione secondo cui un balordo in giacca e cravatta va in prigione più in fretta e ci resta più tempo di uno in tuta: chiaramente, chi fa i suoi traffici con un vestito elegante non passa inosservato, sembra ancora più deplorevole e ha quindi maggiore probabilità di finire in prigione.

    Zio Sohn, proprietario dell’hotel Mallijang e capo del clan di Guam, aveva pronunciato un discorso poi diventato celebre sul modo di vestirsi di un balordo: «Quando un paese attraversa un momento difficile, siamo noi quelli che soffrono più di tutti. È sempre stato così, e gli ultimi cinquant’anni sono stati difficili. Una sciagura dopo l’altra: l’occupazione giapponese, la guerra, i colpi di Stato... Vi rendete conto della quantità di mani in cui è passato il nostro paese? Ci sono stati i giapponesi, i russi, gli americani, i militari... E ogni volta che è cambiato il potere, noi siamo stati le prime vittime. Come dice il proverbio, chi ha cagato riceve un cuscino di seta, ma chi ha fatto una scorreggia si becca un sacco di legnate. Merda! Prima ci acchiappano, poi ci rifanno i connotati.

    «È dai tempi dell’occupazione giapponese che osservo come vanno le cose, e i primi che si fanno beccare sono quelli in giacca e cravatta. Era con loro che se la prendevano gli sbirri. Lo stesso quando c’erano gli americani. E non è tutto. Quando è salito al potere Park Chung-hee e si è messo a ripulire la società, chi sono quelli che si sono fatti beccare l’uno dopo l’altro? Quelli come noi.

    «Dopo il colpo di Stato, Chun Doo-hwan ha cominciato anche lui a dare la caccia ai delinquenti per ripulire la società. E chi sono stati i primi a cadere? Quelli in giacca e cravatta. Di recente Roh Tae-woo, quando ha dichiarato guerra al crimine o qualche cazzata del genere, ha messo dentro qualcuno dei nostri. E in coda davanti alle stazioni di polizia, ho visto solo quelli tutti agghindati!

    «Avete presente Chilbok, quello di Ami-dong? Quanto gli piaceva farsi bello. Ogni volta che lo incrociavo cercavo di farglielo capire. L’eleganza dura un attimo, ma in galera si sta tutta la vita. Ma lui, sempre a fare di testa sua. Non so se ci avete fatto caso, ma quelli della sua banda si sono presi un anno, due, massimo quattro, ma a lui gliene hanno dati quindici! Tutta colpa di come si vestiva. Se uno si fa arrestare con la tuta da ginnastica, per forza è un pesce piccolo, ma se si fa beccare in doppio petto con un coltello da sashimi in tasca, finisce dritto tra gli assassini, i delinquenti, i cattivi che guastano la società. O pensate che le bande che se ne vanno in giro tutte vestite di nero come liceali in uniforme non si facciano notare dagli sbirri? E i nostri cari governanti che hanno tanto a cuore le sorti del nostro paese, non pensate che si incazzino un pochino vedendo questi gruppi di balordi vestiti a festa?

    «È da una vita che ve lo ripeto, la cosa migliore per quelli come noi è volare basso, fare il topo morto. A che servono lo stile e la fama? Se vi piace apparire sui giornali, c’è un solo posto dove potete finire: in galera. Dopotutto, noi dobbiamo solo cazzeggiare, e allora a che serve andare in giro tutti in tiro?».

    Il discorso di zio Sohn non era fatto per piacere agli amanti delle griffe, ma un giorno si sarebbe rivelato prezioso per la loro sopravvivenza. Perché lui era sopravvissuto.

    Aveva fatto il suo ingresso in quel mondo a diciotto anni, aveva sgobbato a Guam per mezzo secolo: pappone, contrabbandiere, ladro, direttore di bische clandestine, mandante di omicidi, era riuscito a uscirne vivo. Aveva resistito al regime autoritario di Park Chung-hee e ai campi di educazione di Chun Doo-hwan. Quando Roh Tae-woo aveva dichiarato guerra al crimine organizzato, tutti i padrini della Corea del Sud erano stati condannati a pene dai dieci ai quindici anni, schiacciati da capi d’accusa terribili, ma zio Sohn se l’era sfangata un’altra volta. In totale, si era fatto otto mesi per prossenetismo e appropriazione indebita, reati piuttosto ridicoli per uno come lui.

    Veterano del maledetto mare di Guam, zio Sohn non si stancava di ripetere al suo braccio destro Huisu, che gestiva l’hotel Mallijang: «Dimmi se c’è qualcuno ancora vivo tra quelli che hanno cominciato con me. Sono schiattati tutti, vero? Che siano stati accoltellati, fatti a pezzi o morti di indigestione in cella. E secondo te, perché sono crepati? Te lo dico io: a furia di agitarsi senza un briciolo di cervello. Quando uno inizia a pavoneggiarsi, non passa molto che scompare nel nulla. Non dimenticare che la nostra vita è una passeggiata sulle sabbie mobili, o su un lago appena gelato. Bisogna fare attenzione a ogni passo. Se vuoi sopravvivere in questo mondo, tieni un profilo basso, come un topo morto. Chi si riempie di più lo stomaco è chi mangia di nascosto. I nostri vecchi dicevano: Pancia piena, bocca chiusa. E già che ci siamo, lascia che ti dia un consiglio. Ai tuoi figli, di’ di non farsi fare dei tatuaggi. Non capisco perché vada tanto di moda, con tutto che fa pure male alla pelle. È come dire ai quattro venti di essere dei balordi. Non è meglio tenersi la pelle bella pulita che ci hanno dato i nostri vecchi? Non è molto meglio non dover essere in imbarazzo quando si va al bagno pubblico?».

    HOTEL MALLIJANG

    Nel novembre 1990, quando eravamo nel pieno della guerra contro il crimine organizzato, ecco come un giovane procuratore di provincia denunciò le vere attività dell’hotel Mallijang durante una delle comparizioni di zio Sohn: «Vostro onore, tutte le attività criminali di Guam vengono decise all’hotel Mallijang. E questo signore ne è il proprietario da trent’anni».

    Per quanto ambizioso, il giovane procuratore purtroppo non era riuscito a produrre la minima prova di quanto denunciava. Eppure, se fosse riuscito a dimostrare anche uno solo degli innumerevoli delitti organizzati al Mallijang, avrebbe potuto spedire in carcere zio Sohn per almeno trent’anni. O anche trecento, mettendoci un po’ di buona volontà.

    Tra i tanti capi di imputazione che lo minacciavano – numerosi come i peli sul dorso di una vacca – i due su cui il giovane procuratore aveva potuto raccogliere qualcosa di concreto riguardavano una generica attività di prossenetismo e qualche caso di appropriazione indebita.

    L’hotel Mallijang, noto anche come il palazzo dalle diecimila stanze, si trovava al centro della grande spiaggia sabbiosa di Guam. Era un edificio a due piani, la cui mezzaluna seguiva la curva della spiaggia. Con il suo nome ridicolmente pomposo, era stato costruito nel 1913, quando alcuni giapponesi, conquistati dalla bellezza di questo tratto di costa e dalla lussureggiante foresta di pini che la circondava, fondarono un’associazione del tempo libero e attrezzarono la prima spiaggia dello Joseon. A parte qualche ammodernamento postbellico – la struttura in legno, tipicamente giapponese, era stata sostituita da una in cemento armato – l’edificio aveva conservato l’aspetto che aveva all’inizio del XX secolo, quando i proprietari erano alcuni yakuza.

    Era uno strano periodo in cui, in seguito all’occupazione della Corea, i giapponesi vennero a installarsi in massa nella penisola; nella sola Busan ce n’erano sessantamila. Questo hotel non era quindi destinato agli svaghi dei coreani, ma a quelli dei giapponesi che facevano capo alla vicina città.

    A detta di tutti, fu l’epoca d’oro di Guam. I giapponesi installarono una funivia tra la scogliera di Guam e l’Isola della Tartaruga, costruirono un trampolino a tre piani proprio sulla spiaggia e un ponte sospeso tra questa e uno dei vicini isolotti rocciosi. Negli anni Venti a Busan non c’era neanche un tram, e quella funivia in continuo movimento, sospesa sul mare, consentiva un panorama mozzafiato. Durante l’estate, circa trecentomila persone venute da tutta la Corea si ammassavano sulla costa di Guam. Anche i notabili dovevano allungare qualcosa sottobanco al gestore dell’hotel Mallijang, se volevano una stanza in alta stagione. Per quanto insozzata dai rifiuti dei ristoranti di sashimi, dei bordelli e delle bidonville, sulla spiaggia non c’era un centimetro quadrato libero.

    Sapendo che far gestire l’hotel a un giapponese avrebbe potuto creare dei problemi, gli yakuza scelsero un prestanome, tale Sohn Heungsik, nonno di zio Sohn. Sohn Heungsik non era mai andato a scuola ma era intelligente e sveglio, e gli yakuza si fidavano di lui. Nel 1945, dopo la disfatta, i giapponesi tornarono in gran fretta a casa loro, e zitto zitto Sohn Heungsik si prese l’hotel. Furono tanti i coreani che, approfittando della confusione, si accaparrarono le aziende o i fondi segreti dei loro padroni.

    Grazie ai nuovi metodi imparati dai giapponesi, Sohn Heungsik fece fortuna. E mentre gestiva l’hotel come se fosse suo, acquistò bar, bordelli e case da gioco che fino a poco tempo prima erano stati dei giapponesi. Così, un po’ per volta, si allargò fino a controllare il traffico delle merci di contrabbando che arrivavano nel porto. Durante la guerra di Corea, quando il governo fu trasferito provvisoriamente a Busan, fece un sacco di soldi intercettando armi e rifornimenti destinati alla base americana di Hialeah. Gli anni tra il 1945 e il 1960 gli sorrisero. Duecento balordi stazionavano all’hotel ventiquattr’ore su ventiquattro: un vero esercito. Era così influente che si diceva che di giorno il presidente fosse Rhee Syngman e di notte Sohn Heungsik.

    Ma poi arrivò il 13 febbraio 1960. Quando il suo regno era all’apogeo, alle tre di notte Sohn Heungsik fu arrestato. Per tre giorni e tre notti venne pestato in un sotterraneo. Tornò a casa pieno di sangue e morì dopo due giorni. Si era beccato tante botte che quando lo lavarono per avvolgerlo nel sudario, constatarono che aveva braccia e gambe rotte e che la sua pelle era completamente coperta di lividi. Questa inaudita violenza nasceva dal suo conflitto con Lee Gibung, numero due del governo. Il torto di Sohn Heungsik era stato di non ringraziare con sufficiente munificenza gli alti papaveri all’ombra dei quali aveva costruito la sua fortuna. E Lee Gibung se l’era legato al dito: tutto qua. All’epoca, Lee preparava la scalata alla vicepresidenza e aveva un gran bisogno di soldi – come sempre, le elezioni erano faccende molto costose. Ma a troncare anzitempo la vita di Sohn Heungsik non fu un atto di superficialità da parte sua. Al contrario, fu la sua lungimiranza. Poiché era convinto che ormai Rhee Syngman avesse i giorni contati, ne aveva dedotto che avrebbe trascinato con sé anche Lee. E quindi, anziché mettere i suoi soldi in un sacco logoro, aveva preferito metterli in uno nuovo. E questa fu la sua rovina. Durante i tre giorni e le tre notti in cui venne pestato nei sotterranei di una stazione di polizia, la sua famiglia non poté fare nulla. Le relazioni che aveva coltivato per tutta una vita, sia negli ambienti politici sia in quelli economici, non gli furono di nessun aiuto. Poco meno di un mese dopo la sua morte, il 15 marzo 1960, Lee Gibung venne eletto vicepresidente grazie a un broglio grossolano. Un mese più tardi si rifugiò insieme alla sua famiglia nella sala numero 36 della residenza presidenziale. Il partito liberale crollò in seguito alla rivoluzione del 19 aprile. Privo di alternative, suo figlio maggiore Lee Gangseok, tenente dell’esercito, sparò un colpo in testa al padre, alla madre e al fratello minore prima di rivolgere l’arma contro se stesso.

    Dopo la morte assurda di suo nonno, zio Sohn, anche se molto giovane, capì che pure il boss più celebre e influente non valeva nulla di fronte al potere della politica, e che chi faceva l’arrogante finiva come un chiodo piantato dentro un muro. Da questa lezione dolorosa ricavò la sua teoria del basso profilo e del topo morto.

    Il padre di zio Sohn, Song Jeongmin, era un pezzo d’uomo grande e grosso. Come tanti altri della provincia di Gyeongsang, voleva bene ai suoi amici e gli piaceva bere e sperperare i suoi soldi. Se un suo amico era nei guai, si sentiva coinvolto in prima persona e non esitava a correre ad aiutarlo. Purtroppo morì prima di compiere trent’anni, nel bel mezzo della Gwangbok-dong, in seguito al duello con un soldato americano. Le testimonianze discordano quanto alla causa. Secondo alcuni, l’americano stava molestando una giovane coreana in mezzo alla strada e, mentre i passanti restavano a guardare, Song Jeongmin ne aveva preso coraggiosamente le difese; secondo altri Song, che non sapeva l’inglese, si era messo di mezzo come un babbeo, senza capire che la coreana era la ragazza dell’americano e che il loro era un normale litigio. Fatto sta che la sua scomparsa alimentò le illazioni: per alcuni era un sacrificio eroico, prova del valore degli uomini di Busan; per altri era una morte stupida provocata dall’ignoranza, e mostrava che si doveva conoscere l’inglese se si teneva alla propria pelle. Quanto all’opinione di zio Sohn sulla morte di suo padre, era molto semplice: «È morto come un idiota per fare lo splendido. Quando uno di noi se la tira, se lo prende subito in quel posto».

    IL MAGAZZINO FANTASMA

    Nel magazzino ronzavano tre ventilatori giganteschi. Tre manovali vietnamiti scaricavano sacchi di peperoncino cinese in polvere dal camion che era arrivato fin lì attraverso i vicoli. Subito dopo entrarono in azione quindici donne armate di palette con cui mescolavano il peperoncino d’importazione con quello autoctono. In un batter d’occhio il magazzino si riempì di odore di spezie.

    Fatto di ardesia, questo magazzino a due piani non era stato costruito per ospitare delle attività lavorative. Rispetto agli spazi, le rare finestre erano ridicolmente piccole e, dato che non c’era né aria condizionata né riscaldamento, le operaie si lamentavano spesso, soprattutto d’inverno. Ma grazie alla sua posizione, al tempo stesso appartata e vicino al porto, zio Sohn aveva preso l’abitudine di usarlo per confezionare il suo olio di sesamo falso o per trasformare aringhe californiane in aringhe coreane. Lo chiamava il magazzino fantasma.

    Il magazzino serviva anche per il transito delle merci di contrabbando arrivate via nave. A volte c’erano prodotti di lusso: vodka e pellicce russe, vino europeo, apparecchi elettronici giapponesi. Ma il più delle volte vi finiva ammassata roba meno raffinata e remunerativa e che per questo aveva bisogno di essere lavorata: come acciughe secche e il citato peperoncino.

    Huisu criticava il modo di lavorare di zio Sohn. Nel contrabbando, chi non risica non rosica. Ma per zio Sohn la regola numero uno era la prudenza. Non solo non voleva sentire parlare di armi e di droga, ma evitava accuratamente di trattare qualsiasi prodotto sottoposto a controlli doganali speciali. Di suo non era mai stato un cuor di leone, ma dopo essere stato in prigione, qualche anno prima, era diventato una mammoletta. A suo dire, se ti beccavano per contrabbando di peperoncino o di aringhe, potevi sempre sostenere che lo facevi per necessità, e te la cavavi con qualche mese; mentre se ti beccavano con un carico di armi, potevi chiudere bottega.

    Con il fazzoletto davanti al naso, Huisu guardò infastidito il peperoncino sospeso nell’aria insieme alla polvere. Quello che non veniva aspirato dai bocchettoni dell’aerazione saliva fino al soffitto per poi scendere lentamente. Zio Sohn sembrava non farci caso e osservava soddisfatto le operaie che mescolavano la polvere rossa.

    «Vedi? Te l’avevo detto che questo era l’anno del peperoncino. Il suo prezzo è schizzato alle stelle negli ultimi tempi. Secondo me possiamo guadagnarci cinque volte di più» annunciò con orgoglio.

    «E ti piace così tanto togliere il pane a quei poveri contadini? Non ti senti un po’ un verme?»

    «Certo, un po’ mi secca. È per questo che lo mescolo con il peperoncino coreano. Renditi conto, c’è gente che ne mette il dieci per cento, mentre noi ne mettiamo il venti. Ho sentito che a Masan c’è chi ne mette solo il cinque. Che crudeltà! Non so come fanno a essere così disonesti. Come possono sopravvivere, i nostri agricoltori?»

    Sconcertato dalle parole di zio Sohn, Huisu si lasciò scappare una risata. Cinque o dieci per cento, sai che differenza. Il fatto di aggiungerci del peperoncino coreano era soltanto un pro forma per poter mettere quella roba sul mercato. Che poi il resto venisse dalla Cina, e pure di contrabbando, ovviamente non lo andavi a dire.

    «Cos’è, ti fa ridere?» sbottò zio Sohn, infastidito dall’atteggiamento di Huisu.

    «Prego?»

    «Mi stai prendendo per il culo?»

    «Ma no. Ti sbagli.»

    «Questo lo dici tu. Devi avere più rispetto per il tuo capo. Altrimenti anche gli altri cominciano a fare lo stesso.»

    Zio Sohn prese una manciata di peperoncino in polvere, la esaminò soddisfatto e poi si diresse verso il suo ufficio, seguito da Huisu. Quando aprì la porta il corpulento guardiano, che stava mangiando una ciotola di jjajangmyeon, sobbalzò.

    «Scusatemi, non sapevo che eravate arrivato» disse, pulendosi con il dorso della mano la bocca sporca di salsa.

    «Guarda che ti pago per vedere chi arriva, mica per mangiare. Quante volte ti ho detto di stare attento quando consegnano la merce?» ribatté zio Sohn irritato.

    Confuso, il guardiano chinò la schiena e si affrettò a sgombrare il tavolo, su cui c’erano, oltre alla ciotola con una doppia porzione di jjajangmyeon, un piatto di maiale fritto, uno di ravioli e uno di verdure saltate in padella, oltre a una bottiglia di soju. Su una parete quattro schermi mostravano le immagini delle telecamere di sorveglianza appena installate sul cancello, sul retro, nel parcheggio e all’ingresso del magazzino.

    Il guardiano era soprannominato Dieci Secondi. Quale rapporto ci fosse con i suoi centotrenta chili restava un mistero. Forse era un’allusione alla sua scarsa resistenza durante l’atto sessuale. Comunque era così grasso che qualunque movimento lo sfiniva e lo faceva sudare copiosamente. Di carattere, tuttavia, era dolce e gentile, e se c’era da menare le mani era lentissimo e piuttosto inefficace. In sostanza, per il crimine organizzato era del tutto inutile. In passato la sua mole intimidatoria era stata messa a frutto come buttafuori in un locale: doveva solo stare in piedi e ostentare una faccia truce. Ma dopo essere stato operato a un ginocchio, non poteva più mantenere a lungo la posizione eretta. Era in quel giro da molti anni e avrebbe potuto vantare la sua anzianità, ma i giovani lo disprezzavano. Per tutti questi motivi zio Sohn lo aveva messo a fare il guardiano, gli aveva dato in custodia il magazzino. Se si muoveva poco, almeno avrebbe tenuto gli occhi aperti.

    «Che razza di imbecille. Se mettevo qui un gufo impagliato, stava più attento» disse zio Sohn.

    «Dovrà pur mangiare e andare al cesso, ’sto poveraccio. O vuoi che rimanga tutto il giorno incollato allo schermo?» intervenne Huisu. E poi, dando una pacca rassicurante sulla spalla di Dieci Secondi: «E tu, finisci pure il tuo pranzo».

    Il guardiano accennò un inchino a Huisu, ma zio Sohn gli lanciò un’occhiataccia. «Non ho mai proibito di mangiare a nessuno. Ogni tanto uno si può anche riposare. Ma quando arriva la merce bisogna stare sul chi vive.»

    «Mi spiace» disse Dieci Secondi.

    «Quand’è che avranno finito?»

    «Entro oggi.»

    «Bisogna caricare i camion stanotte. Cerchiamo di stare il meno possibile dentro il magazzino.»

    «Ricevuto.»

    «E portami un ssangwacha

    Dieci Secondi uscì dall’ufficio per andare a cercare l’infuso di erbe e radici. I suoi passi pesanti rimbombarono sulle scale di metallo.

    Zio Sohn scosse la testa. «Non ne combina una giusta, quello lì.»

    «Non fare il difficile» disse Huisu. «Si dà da fare come tutti, è solo che il corpo non lo segue.»

    Zio Sohn ghignò alla vista dei piatti sparpagliati sul tavolo.

    «Se uno mangia tutta questa roba, come fa il corpo a seguirlo? Ti sembra il pranzo per un’unica persona? Qui ce n’è almeno per quattro.»

    Ascoltando distrattamente zio Sohn, Huisu si versò un bicchiere di soju, lo trangugiò d’un fiato e prese delle verdure con un paio di bacchette. Zio Sohn lo osservò con aria di riprovazione.

    «Mi hai fatto venire qui appena sono sceso dal letto e non ho fatto neanche colazione» si giustificò Huisu.

    «Dormi di più. Passi le notti a giocare a baccarà da Jiho e poi il giorno dopo non ti reggi in piedi.»

    «Non ho giocato a baccarà.»

    «Balle. Mi dicono che grazie a te Jiho sta facendo dei bei soldi.»

    Huisu evitò di rispondergli e mangiò delle verdure. Poi bevve un altro bicchiere di soju, facendo una smorfia.

    «A che ora devi vedere quelli della dogana?» gli chiese zio Sohn.

    «Alle diciotto.»

    «Cerca di muoverti. Gli sbirri sono come i suoceri: a passare il tempo con loro non c’è mai niente da guadagnare.»

    «Credo che ci sarà anche il commissario Gu.»

    «E che ci viene a fare quel figlio di puttana?»

    «Dato che l’appuntamento è in un gogo-bar, vorrà bere a scrocco. Non gli tira più, ma gli piacciono sempre le ragazze.»

    Zio Sohn inarcò le sopracciglia con aria compiaciuta. «A Gu non gli tira più?»

    «Da un pezzo. Ormai le ragazze lo evitano.»

    «E com’è che uno tutto muscoloso come lui…?»

    «Di solito, quando a uno non gli tira più, si attacca alle corse dei cavalli, al golf o a non so cosa. Ma Gu è ben strano. È sempre appiccicato alle ragazze.»

    «Non è il primo a cui manca qualche rotella. Come a tutti gli esseri umani, se è per questo.»

    Huisu lasciò cadere le bacchette sul tavolo, guardò l’ora e si alzò.

    «Te ne vai di già?»

    «Devo passare a casa a lavarmi e cambiarmi.»

    «Bene. Allora buon lavoro.»

    Huisu però restò davanti a zio Sohn fissandolo. A sua volta, zio Sohn lo scrutò con aria interrogativa.

    «Che c’è?»

    «Dammi i soldi.»

    «Quali soldi? A quelli della dogana ho già fatto avere tutto.»

    «In un bar come quello mica posso pagare il conto con un assegno.»

    «E non puoi pensarci tu?»

    Continuando a lamentarsi, zio Sohn estrasse dal portafoglio due banconote da un milione di won. Huisu si limitò a guardarle con disappunto. Zio Sohn sfilò una terza banconota e solo allora Huisu si decise a prendere i soldi e metterli nella tasca posteriore dei pantaloni. Inchinò la testa e uscì dall’ufficio, incrociando Dieci Secondi che arrancava su per le scale, con due tazze di ssangwacha in mano. Aveva i vestiti inzuppati di sudore.

    «Ve ne andate di già, signor Huisu?»

    «Sì, ho delle cose da fare.»

    «Prendete l’infuso. Fa bene alla salute.»

    «Prendilo tu, che ne hai più bisogno di me.»

    Erano le quindici quando Huisu arrivò nel parcheggio dell’hotel Mallijang. Mancavano ancora tre ore all’appuntamento. Aveva la bocca secca e si sentiva a pezzi. Troppe notti in bianco, e per di più non aveva mangiato nulla a parte le verdure di Dieci Secondi. Di lì a qualche ora avrebbe dovuto recitare la parte dell’ospite perfetto davanti a una tavola imbandita. Doveva mettere qualcosa sotto i denti, farsi una doccia, cambiarsi, schiacciare un pisolino. La cena si preannunciava faticosa, tanto più se c’era gente come il commissario Gu.

    Huisu controllò l’ora e rifletté un momento, tamburellando con le dita sul volante. Non c’era tempo per mangiare e tutto il resto. Riaccese il motore e partì diretto alla bisca di Jiho.

    All’ingresso un tipo massiccio sonnecchiava su una sedia. Huisu si avvicinò, ma l’altro non sembrava avere intenzione di svegliarsi. Huisu gli afferrò una spalla. L’uomo aprì gli occhi e si affrettò a salutarlo.

    «Buongiorno, fratello maggiore Huisu.»

    «Fammi entrare.»

    Il tipo mormorò qualcosa all’interfono e la spessa porta si aprì con un suono stridente. Un’altra porta blindata si trovava in fondo alla scala che portava alla bisca. Erano state messe per rallentare i raid della polizia, in modo da consentire l’evacuazione del locale attraverso un’uscita di emergenza. Erano così spesse che ci sarebbero voluti almeno venti minuti di fiamma ossidrica per venirne a capo. Ogni volta che scendeva quei gradini freddi e umidi, Huisu aveva l’impressione di cacciarsi in una catacomba. Arrivato in fondo, suonò. Qualcuno lo controllò dallo spioncino e aprì.

    Malgrado fosse il primo pomeriggio, la bisca era talmente affollata che era difficile muoversi. Huisu lanciò un’occhiata alla sala. Tutti i tavoli erano al completo. Jiho saltò fuori dal suo ufficio e si inchinò davanti a Huisu.

    «Fratello maggiore Huisu, qual buon vento…?»

    «Niente, avevo solo un po’ di tempo libero.»

    «Vi preparo un tavolo?»

    Jiho scrutò il volto di Huisu, cercando di anticiparne i desideri. Quest’ultimo avrebbe voluto sedersi a un tavolo dove si puntava pesante, ma quel giorno non aveva abbastanza soldi. Così indicò a Jiho il tavolo dove si stava sotto il milione di won. Jiho diede un colpetto sulla spalla a uno che vi era seduto. Questo si girò irritato, ma vedendo Huisu alle spalle di Jiho, si alzò rassegnato. Jiho spolverò con una mano lo schienale della sedia e invitò Huisu ad accomodarsi.

    Nella bisca di Jiho non si giocava a poker, alla roulette o a black jack: c’era solo il baccarà. Semplice come lo holjjak, tanto che chiunque poteva comprenderne le regole in dieci secondi, a meno che non avesse il QI di una capra. Le mani erano così veloci che permettevano di fare più di cento scommesse all’ora, creando una grande dipendenza. In teoria, le probabilità di vittoria di giocatore e banco erano più o meno alla pari: 49 contro 51. Ma alla fine era sempre il casinò a guadagnarci. Lo scarto dell’uno per cento si ripeteva all’infinito, le commissioni si accumulavano a ogni mano, e la gente finiva per trovarsi con le tasche vuote. E cercava di scoprire gli arcani del baccarà senza sospettare che, se perdeva, non era perché non aveva compreso il gioco, ma perché continuava a giocare.

    Jiho sapeva fare il suo mestiere. E con il suo senso dell’ospitalità sapeva mettere a suo agio la schiera di idioti che avevano buttato via la loro vita nel suo locale. I pezzi grossi di Guam apprezzavano Jiho. In generale, a quelli che usavano la forza, preferivano quelli come lui, che si conquistavano la clientela con modi gentili e facevano soldi con la propria sagacia.

    Huisu estrasse i tre milioni di won che gli aveva dato zio Sohn, ci aggiunse due milioni dei suoi, e li cambiò in fiches. Dall’altro lato del tavolo Hong, detto Cambiale, seduto come al solito al banco, lo guardò torvo, e lo stesso fece Changdo, il suo guardaspalle cinese. Huisu li ignorò ostentatamente.

    Huisu doveva dei soldi a Cambiale. A poco a poco, la somma aveva finito per raggiungere i trecento milioni di won. Ultimamente Huisu faceva fatica anche a pagargli gli interessi. Cambiale era uno strozzino. A Guam operava al di fuori del controllo di zio Sohn, e gli scagnozzi che lavoravano per lui non appartenevano alla criminalità locale. Evidentemente per lui era un problema affidare a gente del posto il disgustoso compito di far sputare soldi a persone che vedevano tutti i giorni, o che addirittura erano loro parenti. In ogni caso, Hong versava ogni mese una somma sostanziosa a zio Sohn per avere il diritto di far circolare le sue cambiali nei casinò, nei mercati e nei bar di Guam. In cambio zio Sohn chiudeva un occhio sulle vessazioni che subivano i balordi di Guam che avevano contratto dei debiti. Era stato molto chiaro: «Le questioni di soldi non sono un mio problema». Il loro patto di fiducia reciproca somigliava a quello tra coccodrillo e piviere.

    Gangster o sicari, chiunque prendesse in prestito soldi a Cambiale non aveva modo di sfuggirgli. Come tanti della sua categoria, Cambiale era un mostro, capace di spremere inchiostro da un calamaro secco. Da quando era entrato nel mondo della malavita, aveva buttato nella spazzatura il senso dell’onore a cui tanti ancora si appellavano. Di norma prestava a giocatori e a squillo, ma la sua specialità era un’altra: comprare dai creditori i debiti di pagatori recalcitranti per un tozzo di pane – il dieci o il venti per cento del dovuto – e poi esercitare pressione su tutta la loro famiglia, compresi a volte i parenti lontani, per recuperare fino all’ultimo centesimo non solo del capitale iniziale, ma anche degli interessi. In breve, era un maestro del recupero crediti, e utilizzava metodi a cui anche i peggiori cravattari avevano rinunciato. Era così meticoloso, sordido, tenace, e al tempo stesso così scaltro e intelligente, che chi aveva avuto a che fare con lui poi tremava quando lo sentiva nominare. La crudeltà ce l’aveva stampata in faccia. Se uno ci teneva a finire nella bara con gli arti intatti e con tutte le membra che aveva dalla nascita, era meglio che non prendesse in considerazione l’idea di non saldare un debito contratto con Cambiale.

    Huisu gli doveva trecento milioni di won, interessi esclusi. Eppure continuava a frequentare la bisca e a cambiare contanti in fiches sotto gli occhi di Cambiale, come per sfidarlo: «Eh sì, i soldi li ho, ma mica per te. Cos’è, ti girano le balle?».

    In realtà, Huisu non aveva intenzione di farlo arrabbiare. Non gliene fregava niente dei metodi con cui Cambiale conduceva i suoi affari. Semplicemente aveva voglia di giocare. E poi trecento milioni, diciamocelo, non erano una somma che uno potesse guadagnare lavorando, neanche spezzandosi la schiena. Qualche mese prima, al baccarà, aveva vinto trecentoventi milioni. Come se fosse in trance, ogni carta che girava era quella che aspettava. La fortuna gli sorrideva, ma il demone del gioco sembrava essersi appostato sulla sua spalla. Se fosse riuscito a fermarsi in tempo, avrebbe potuto passare un colpo di spugna sui suoi debiti. Trecentoventi milioni. Non erano abbastanza per porre fine a una vita da cani come la sua e ricominciarla puro come un bambino appena nato, ma erano abbastanza per metterla in ordine e renderla più semplice. Quel giorno la fortuna lo aveva lasciato arrivare a quota trecentoventi milioni, poi però era iniziata la caduta libera. E non solo aveva perso tutto ciò che aveva vinto, ma aveva peggiorato la situazione perdendo altri cento milioni, che aveva dovuto chiedere in prestito a Jiho. A breve Cambiale avrebbe rilevato il debito a un prezzo di favore, e a quel punto Huisu gli avrebbe dovuto quattrocento milioni. Per una somma del genere, chiunque altro si sarebbe trovato con braccia e gambe spezzate in almeno dieci punti.

    Le carte turbinavano. Per mantenere il sangue freddo, Huisu cercò di controllare il respiro. Cinque secondi di inspirazione, cinque secondi di espirazione; cinque secondi di inspirazione, cinque secondi di espirazione… Al baccarà, come in qualunque altro gioco, se ti viene l’affanno sei finito. Mai eccitarsi quando capitano le carte buone e mai innervosirsi quando non ne viene una. Bisogna planare sulle proprie emozioni. E Huisu cominciò a fare le sue puntate con tranquillità. Inspirazione, espirazione, inspirazione…

    In meno di un’ora aveva perso cinque milioni di won, tutto quello che aveva con sé. Esitò un momento prima di chiedere in prestito dei soldi a Jiho, ma poi guardò l’ora e si alzò.

    «Andate già via?» chiese Jiho.

    «Sì, ho degli impegni.»

    Jiho si guardò in giro ed estrasse un rotolo di banconote da una tasca interna della giacca. A occhio poteva essere un milione in pezzi da diecimila.

    «E questo cosa sarebbe?»

    «Un piccolo aiuto, omaggio della casa. Il ras di Guam non può andarsene con il portafogli vuoto. Accettatelo, se non vi spiace.»

    Jiho cacciò le banconote nella tasca di Huisu che, simulando imbarazzo, finì per accettare.

    «E buon proseguimento.»

    Mentre Huisu si dirigeva verso l’uscita, Changdo, la guardia del corpo di Cambiale, gli bloccò la strada. A parte che fosse di origine cinese, Huisu non sapeva altro di lui, né da dove veniva né che cosa avesse fatto prima. Sul suo conto non correva alcuna voce. Ma che un codardo come Cambiale se lo portasse sempre dietro la diceva lunga sulla sua ferocia.

    «Il capo vuole parlare con te» disse Changdo in un coreano stentato.

    Huisu controllò un’altra volta l’ora e si diresse verso Cambiale, che stava bevendo un whisky. Huisu prese una sedia e si piazzò davanti a lui.

    «Favorisci?» disse Cambiale brandendo la bottiglia, ma Huisu fece cenno di no.

    «Qualcosa che non va?»

    «E perché me lo chiedi? Da quando in qua sei mio amico?»

    Huisu fissava Cambiale impassibile e distratto, come se stesse vedendo un film per la centesima volta. Spiazzato, Cambiale ghignò.

    «Sei pieno di debiti fino al collo e fai lo sborone?»

    «Cosa vorresti, che mi mettessi a piangere?»

    «Quando uno è in cattive acque, prima di mettersi a giocare dovrebbe perlomeno saldare gli interessi. È la regola. A te non ho chiesto nessuna ipoteca, Huisu, ma se cominci a mancarmi di rispetto, finisce che perdo la pazienza e mi incazzo sul serio.»

    «E io con cosa mangio? Se ti pago gli interessi, non posso più comprarmi neanche le sigarette.»

    «Sta’ zitto, cazzo. Ti sei appena bevuto cinque milioni in pochi minuti.»

    Huisu guardò

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