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Colombo e altri navigatori
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E-book275 pagine3 ore

Colombo e altri navigatori

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Attento agli sviluppi della storiografia internazionale sull’età delle scoperte e delle esplorazioni, Codignola rilegge alcuni testi fondamentali di tale periodo. Proprio perché unici, egli mostra come tali testi siano spesso letti in modo acritico, come si trattasse di un’“enciclopedia della conoscenza”. Con una prospettiva critica certamente inusuale, lo storico genovese rilegge il diario di bordo della prima navigazione di Cristoforo Colombo, il resoconto del viaggio americano di Giovanni da Verrazzano, il manoscritto della pretesa spedizione di Samuel de Champlain alle Antille, nonché la corrispondenza originale di Laurens van Heemskerk relativa ai suoi progetti di esplorazione artica, spaziando dalla fine del XV secolo agli inizi del XVIII secolo. Da una parte, Codignola ribadisce l’interesse di tali testi tanto per la storia dell'espansione europea quanto per i primi rapporti tra europei e popolazioni aborigene d’America. Dall’altra, l’autore mostra anche quali trabocchetti fattuali e quali pericoli interpretativi siano nascosti in pagine così apparentemente descrittive. Insieme al saggio storiografico che li precede, le riletture di Codignola rimettono in discussione molti luoghi comuni della storiografia “nazionalistica” sulle scoperte e le esplorazioni, soprattutto quelli della storiografia italiana.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2014
ISBN9788875639785
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    Anteprima del libro

    Colombo e altri navigatori - Luca Codignola

    Prefazione

    Negli anni, mi è stato a volte chiesto di fare il punto su alcuni temi e problemi relativi alla storia delle scoperte e delle esplorazioni. I capitoli che seguono rappresentano alcuni risultati di tali indagini. Credo che il fatto di sapere l’italiano abbia influito su tali incarichi. Si è sempre trattato infatti di richieste che venivano dal mondo anglo-francese, e i temi e i problemi da esaminare presentavano invariabilmente un legame con la penisola italiana. Cristoforo Colombo era nato a Genova, Giovanni da Verrazzano era di origini toscane. Per quanto riguarda Laurens van Heemskerk, non credo che il capitano olandese abbia mai messo piede al di qua delle Alpi, ma in quel caso la documentazione da cui ero partito si trovava a Roma, così come si trovavano in Italia due dei tre manoscritti relativi a Samuel de Champlain. Anche Giovanni Caboto è un personaggio originario della penisola italiana. Altri spunti, soprattutto la rassegna storiografica nel suo insieme e l’intervista a David B. Quinn, sono successivamente nati dal mio desiderio di paragonare i diversi aspetti dell’espansione europea. Insomma, sta al lettore trovare, se c’è, un comune denominatore ai capitoli che seguono, ma la presenza dell’elemento italiano mi pare una delle loro costanti — e ciò nonostante la mia istintiva avversione per il roboante nazionalismo che ha caratterizzato gli studi sulla storia delle scoperte e delle esplorazioni (di tutti i paesi), per non dire dell’anacronistica moda di parlare di Italia prima di tempi molto recenti, e certamente posteriori al 1861.

    Tutte le volte che mi è stato chiesto, ho accettato con curiosità ed entusiasmo di leggere o rileggere dei testi fondamentali della storiografia dell’espansione europea (manoscritti o a stampa), che erano diventati, per la loro notorietà, delle vere e proprie opere di acritica consultazione. Nella mia rilettura ho cercato non tanto di ripartire da zero (il che, anche se fosse possibile, non sarebbe né utile per lo storico di oggi né rispettoso per gli storici del passato), quanto di seguire fino in fondo quella che ritengo la regola fondamentale del lavoro dello storico: la ricostruzione rigorosa di quel poco che possiamo conoscere del passato vissuto da altri, guardando a tale passato con gli occhi dei protagonisti di allora, e non con il filtro delle esigenze dell’oggi, quelle di chi seleziona i fatti del passato alla ricerca delle pretese origini di quanto oggi viviamo. Dunque, chi volesse sapere se Cristoforo Colombo fosse stato uno schiavista o un amico degli indiani, un colonialista o un liberatore, può anche chiudere subito questo libro e rivolgersi altrove, perché nei capitoli che seguono non troverà alcuna risposta alle sue domande. Chi invece volesse sapere chi sia l’autore del giornale di bordo di Colombo, quando questo sia stato scritto, a quale scopo, e quale fiducia possiamo accordargli per conoscere gli avvenimenti degli anni 1492-93, troverà nelle pagine che seguono degli spunti per le sue riflessioni.

    Due elementi di base (ritengo e mi auguro) informano questa rilettura di testi, prodotti da uomini i quali avevano in comune l’esperienza delle grandi navigazioni transoceaniche. Uomini notissimi come Giovanni da Verrazzano, o quasi sconosciuti come Laurens van Heemskerk, per non menzionarne che due. Il primo elemento è che il passato (così come peraltro il presente), rappresenta una realtà che è avvenuta davvero e che è conoscibile, anche se in forma sempre imperfetta. In questo senso, sono in disaccordo con coloro che sostengono che non ci sia alcun rapporto tra i fatti del passato e le parole che li descrivono. Questi studiosi affermano che tale rapporto si risolve in un discorso, in cui i testi vivono di vita propria e le persone ormai morte sono inconoscibili. Per arrivare alla conoscenza di tale passato, ritengo però che non ci sia altro modo se non quello dell’indagine rigorosa dell’investigatore che cerca quante più prove possibile, le verifica e le confronta, sceglie tra loro quelle che sono significative allo scopo dell’indagine (cioè il motivo di fondo per il quale la ricerca è stata intrapresa) ed elimina tutta la zavorra del superfluo. A volte la scarsità della documentazione (le prove) o la loro assenza rende tutto ciò semplicemente impossibile. L’indagine non approda dunque ad alcun risultato, né significativo né, tantomeno, certo.

    Il secondo elemento che informa questa mia rilettura è la convinzione che gli uomini e le donne del passato (così come quelli del presente) siano stati dotati di libero arbitrio e abbiano compiuto delle scelte coscienti, anche se all’interno di un arco di opzioni limitate. Ciò vale tanto per le questioni pratiche quanto per quelle ideologiche (valori, motivazioni, scopi, emozioni). Insomma, se van Heemskerk poteva scegliere di raccontare o non raccontare bugie circa le sue pretese navigazioni artiche, nella Baia di Hudson egli non poteva certo scegliere di andarci in aeroplano. E Colombo poteva forse tenere più a freno i suoi uomini, se lo avesse voluto, ma in nessun caso poteva evitare che i loro microbi nefasti si diffondessero tra gli indiani. Soltanto dopo aver ricostruito, nella misura del possibile, il susseguirsi degli avvenimenti, e dopo aver stabilito l’arco di opzioni pratiche e ideologiche che la persona su cui si indaga aveva a sua disposizione, lo storico può eventualmente (e se lo desidera) dare un suo giudizio morale sulla persona in questione, nella certezza che un assassino, un ladro, un violentatore, un fanatico, un bugiardo e un millantatore siano tali sotto qualunque latitudine e in qualsiasi tempo.

    I risultati di queste indagini sul mondo delle scoperte e delle esplorazioni di ambito americano, in un contesto cronologico che tocca soprattutto i secoli XVI e XVII, sono originariamente apparsi su pubblicazioni in lingua inglese e francese tra il 1987 e il 2005. Diciotto anni possono sembrare tanti, ma la storiografia della prima età moderna, e soprattutto quella relativa all’espansione europea, procede a passi molto lenti, per cui in realtà i punti di riferimento storiografici della fine degli anni 1980 non sono molto dissimili da quelli degli anni 2000. È per questo che, su invito della storica medievista e studiosa colombiana Gabriella Airaldi, ho deciso di tradurre in italiano e di riunire qui per la prima volta alcuni miei scritti che hanno nei primi navigatori europei e in alcuni loro testi fondamentali il loro comune motivo di interesse. L’Istituto di Storia del Medioevo e dell’Espansione Europea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, allora diretto proprio da Gabriella Airaldi, mi ha affidato dal 1990 al 1996 la cattedra di Storia del Commercio e della Navigazione, consentendomi così di approfondire quelle ricerche che ora sono alla base di questo libro. L’istituto si è poi trasformato in Dipartimento di Scienze dell’Antichità, del Medioevo e Geografico-Ambientali. Nel suo ambito ho avuto modo di dibattere di questi argomenti con alcuni colleghi che hanno affrontato temi vicini, fra i quali mi fa piacere ricordare Corradino Astengo, Silvana Fossati Raiteri, Marina Montesano, Sandra Origone, Antonella Rovere, Augusta Silva, Carlo Varaldo, e soprattutto Francesco Surdich (direttore del periodico specializzato Miscellanea di Storia delle Esplorazioni). Tra i miei collaboratori a vario titolo, ho un particolare debito di riconoscenza verso Matteo Binasco, Nadia Pardini, Cristina Pastore e Cristina Terrile.

    Le traduzioni in italiano, sia dei capitoli che delle citazioni che essi contengono, sono intieramente mie e appaiono qui per la prima volta. I capitoli che seguono sono molto vicini agli originali, ma sono stati appositamente corretti e integralmente rivisti per questo libro, a volte in modo significativo. Quando necessario o utile, tanto i testi quanto la bibliografia e le note dei vari capitoli sono state aggiornate. Gli anni di nascita e di morte di ogni persona menzionata, e di cui tali estremi siano noti, appaiono la prima volta che tale persona è citata nel libro. I dati bibliografici relativi ai luoghi in cui i capitoli che seguono sono stati originariamente pubblicati appaiono, invece, in fondo a ogni capitolo.

    Luca Codignola

    Genova, 12 ottobre 2006

    Scoperte, esplorazioni e anniversari: gli studi più recenti

    Negli ultimi anni, la storia delle scoperte geografiche e delle esplorazioni sembra essere passata di moda. Anzi, tra gli studiosi dell’America coloniale e del mondo nord-atlantico un tale soggetto di studio ha assunto un sapore antiquato, per non dire moralmente riprovevole. Perfino la parola scoperta e il suo sostituto in apparenza, più politicamente corretto, incontro, sono caduti in disgrazia, perché entrambi, come sostiene qualcuno, rappresenterebbero un punto di vista eurocentrista.1 Da una parte, come ha scritto la britannica Helen Wallis (1924-1995), la celebre storica della cartografia, tutti sono d’accordo sul fatto che un certo numero di storici abbiano messo a di­sposizione della comunità internazionale degli studiosi quei documenti relativi alla storia delle esplorazioni e delle scoperte che hanno consentito loro di valutare le imprese e distribuire a un tempo i meriti e a volte le colpe dei protagonisti. Tra questi storici, vengono immediatamente alla mente i nomi del francese Charles-André Julien (1891-1991), degli americani Carl Ortwin Sauer (1889-1975) e Louis André Vigneras (n.1903), dei britannici James Alexander Williamson (1886-1964), Charles Ralph Boxer (1904-2000), Raleigh Ashlin Skelton (1906-1970), David Beers Quinn (1909-2002) e John Horace Parry (1914-1982), nonché quello dell’italiano Paolo Revelli Beaumont (1871-1956). Senza la documentazione che essi hanno portato alla luce ed esaminato criticamente, come hanno scritto gli africanisti britannici Roy C. Bridges e Paul Edward Hedley Hair (1926-2001), non ci potrebbe essere alcuna interpretazione, valida o fasulla, e, in realtà, è la storia stessa che ci verrebbe a mancare. Dall’altra, però, alla luce del nuovo scetticismo nei confronti della storia delle scoperte e delle esplorazioni, ecco che l’affermazione di Quinn, forse il maggiore storico delle prime scoperte nell’area nordamericana, secondo il quale egli stesso riteneva di avere dato il suo meglio nella documentazione e della descrizione, piuttosto che nell’analisi, può oggi apparire quantomeno ingenua.2

    La parola chiave che sembra avere sostituito tanto scoperta quanto esplorazione è contatto. I suoi proponenti sembrano sostenere che tale parola meglio di altre sia in grado di dare ragione del punto di vista delle comunità che si incontrarono nelle varie parti del globo. Secondo Germaine Warkentin, una critica letteraria canadese che è anche una delle più autorevoli studiose della documentazione di viaggio, l’analisi culturale ha preso il posto dei generi dell’epica nazionale e/o del rapporto scientifico, i quali hanno rappresentato, fino all’inizio degli anni 1960, l’espressione più comune degli studi sulle scoperte e sulle esplorazioni.3 In conclusione, dovremmo dunque dividere gli studi sul contatto dagli studi sulle scoperte e sulle esplorazioni, e limitare questi ultimi a quei luoghi dove nessun essere umano ha messo piede prima dell’arrivo degli scopritori e degli esploratori? Una definizione così limitata è naturalmente possibile, ma la sua conseguenza sarebbe la limitazione del campo d’indagine all’Antartide, a buona parte della regione artica, a regioni montagnose e desertiche ancora inaccessibili e allo spazio siderale.

    L’origine di questo passaggio dagli studi su scoperte ed esplorazioni agli studi sul contatto può farsi risalire alla fine degli anni 1960. Tale passaggio si è successivamente esplicitato in maniera eclatante in occasione delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America nel 1992, quando, come ha notato Warkentin, quasi tutti gli assunti che avevano caratterizzato l’espansione europea [...] furono completamente rimessi in di­scussione e in molti casi ripudiati.4 Hair racconta come questo nuovo scetticismo verso l’espansione europea sia penetrato perfino tra i dirigenti della Hakluyt Society. Fondata a Londra nel 1846, la Hakluyt Society è senza dubbio la più illustre tra le associazioni scientifiche che hanno quale loro obbiettivo fondamentale l’illustrazione della documentazione delle navigazioni e dei viaggi via terra e della storia della coscienza e della conoscenza geografica del passato. Secondo Hair, oggi la documentazione pubblicata dalla Hakluyt Society viene usata principalmente per identificare e illustrare i pretesi disastri umani e ambientali causati dall’espansione europea e dall’incontro (encounter) tra le culture. Tutto ciò che per troppo tempo era stato con troppa enfasi lodato e magnificato, viene oggi di solito visto come vergognoso; ciò che era stato interpretato come positivo e utile al genere umano viene oggi comunemente (e con altrettanta faciloneria) definito negativo e causa di peggioramento collettivo".5

    Le più importanti riviste storiche non sono passate indenni attraverso questa tempesta reinterpretativa. Gli articoli sulle imprese di navigatori, esploratori e scopritori quali Giovanni Caboto (ante 1461-1498), Gaspar Corte Real (c.1450-1501?), Miguel Corte Real (fl.1502), Martin Frobisher (c.1535-1594), Alessandro Malaspina (1754-1810) e George Vancouver (1757-1798), così comuni ancora nella prima metà del Novecento, sono pressoché spariti dalle loro pagine. Le note critiche su personaggi di tale importanza sono di solito relegate a periodici specializzati, quali Mariner’s Mirror o Terrae Incognitae, organi ufficiali rispettivamente della Society for Nautical Research e della Society for the History of Discoveries, o ad altre pubblicazioni che si rivolgono a piccole comunità di aficionados. L’imbarazzo delle riviste storiche nei confronti degli studi sulle scoperte e le esplorazioni risulta anche dai loro repertori bibliografici, tendenzialmente così curati e onnicomprensivi. Per esempio, la sezione Recent Scholarship dell’americano Journal of American History trova posto per categorie di tutti i tipi, tranne che per le pubblicazioni sulle scoperte e sulle esplorazioni. Queste, quando ci sono, sono relegate in categorie più vaste quali Colonial and Revolutionary Period o Indians. In Canada, la sezione Recent Publications Relating to Canada della Canadian Historical Review ha effettivamente una categoria intitolata Discovery and Exploration, ma a ben guardare appare evidente che si tratta di una categoria nella quale vengono cacciati a forza tutti quei libri e quegli articoli che non si sa dove altro inserire. Sempre in Canada, l’equivalente francese della CHR, la Revue d’histoire de l’Amérique française, ha recentemente riorganizzato la sua Bibliographie su una griglia puramente cronologica. ecco dunque che gli studi su scoperte ed esplorazioni cadrebbero soprattutto nella categoria Avant 1600. Ma anche in questo caso un esame più attento mostra che le pubblicazioni su scoperte ed esplorazioni sono scelte quasi a caso e finiscono spesso nei luoghi più impensati all’interno di altre categorie.

    Nel 1995, lo storico americano James L. Axtell, uno dei pionieri dell’etnostoria (che è forse un modo più accurato di definire ciò che finora ho chiamato studi sul contatto), propose con notevole vigore la seguente affermazione:

    Se [le celebrazioni colombiane del 1992] ci hanno insegnato qualcosa, è che [...] non dobbiamo più restringere la nostra attenzione all’Ammiraglio del Mare Oceano [...] ma dobbiamo invece cercare di capire il mondo culturale e intellettuale dal quale egli proveniva e nel quale continuò a operare. Dovremmo in particolare occuparci delle conseguenze di breve e di lungo periodo dell’unificazione del mondo e degli incontri umani, biologici e culturali che egli ha inaugurato.6

    Come non essere d’accordo con Axtell? Il problema è che con tale affermazione lo storico americano altro non ci offre se non una ricetta per la storia globale che nessuno, o quantomeno pochissimi, sono mai riusciti a mettere in pratica. Lo stesso Axtell, nella sua rassegna della letteratura scientifica su quegli che egli chiama incontri colombiani (Columbian Encounters), non ha potuto fare a meno di suddividerle in non meno di undici categorie, tra le quali l’esplorazione e la progressiva definizione del mondo dopo Colombo. La scelta di Axtell appare dunque indicativa di questa tendenza degli storici di oggi di fare della storia delle scoperte e delle esplorazioni nient’altro che un’area di specializzazione minore all’interno di un ben più vasto contesto globale.7

    Nello selezionare i testi da esaminare in questo capitolo, mi sono posto il problema se limitarmi agli studi mirati in modo tradizionale al campo degli studi sulle scoperte e sulle esplorazioni, oppure abbracciare la scelta proposta da Axtell e allargarmi a una storia globale del contatto. La scelta non è stata facile. È effettivamente difficile scrivere di scopritori e navigatori inglesi e non menzionare gli articoli dello storico irlandese Nicholas P. Canny apparsi nella recente Oxford History of the British Empire, o Indians and English della storica americana Karen Ordahl Kupperman; o Canadian Exploration Literature, di Warkentin. Oppure trattare di incontro culturale tra europei e indiani e non esaminare Natives and Newcomers di Axtell, o Implicit Understandings dello storico americano Stuart B. Schwartz; o Transferts culturels et métissages degli storici quebecchesi Laurier Turgeon, Denys Delâge e Réal Ouellet. O ancora, mostrare l’effetto determinante delle malattie europee sulla designazione del vincitore dell’incontro/scontro senza richiamare gli studi del genetista americano (ma di formazione italiana) Luigi Luca Cavalli Sforza, o Germs, Seeds, and Animals dello storico americano Alfred W. Crosby, Born to Die del suo collega Noble D. Cook, o Africa and Africans dell’etnostorico americano John K. Thornton.8 Si tratta, in tutti questi casi, di opere cruciali alla comprensione del processo di scoperta e di esplorazione qual è emerso nel decennio qui esaminato. Ma da qualche parte bisogna tirare una riga, e alla fine ho optato per una via di mezzo. Pur tenendo presente l’impegnativo dettato di Axtell per una storia globale e l’esigenza rappresentata dagli studi sul contatto, mi sono concentrato sugli studi più tradizionalmente dedicati alla scoperta e all’esplorazione, anche se ciò ha portato con sé un certo disequilibrio nella rassegna, dovuto al fatto che il decennio qui esaminato ha visto apparire più studi relativi alla scoperta che all’esplorazione in senso stretto.

    Nonostante la desuetudine degli ultimi anni e l’oggettiva insofferenza per gli studi su scoperte ed esplorazioni, la curiosità scientifica ha continuato a stimolare la ricerca, aiutata in questo anche dall’arrivo di un certo numero di significativi anniversari seguiti alle sfortunate e deludenti celebrazioni colombiane. Queste nuove occasioni hanno fatto gola a uomini politici e operatori mediatici e hanno garantito ai ricercatori una certa base di finanziamento, mostrando fino a che punto tali anniversari possano avere importanti ricadute sulla ricerca scientifica. Uno degli anniversari che si è dimostrato più produttivo è stato quello relativo alle tre navigazioni compiute dall’inglese Martin Frobisher. Benché le sue tre navigazioni, effettuate nel 1576, 1577 e 1578, appartengano dal punto di vista della ricorrenza agli studiosi di una generazione orsono, è indubbio che i migliori lavori siano invece stati prodotti nel decennio qui esaminato.

    Nel 1974 Walter Andrew Kenyon (1917-1986), un archeologo del Royal Ontario Museum di Toronto, organizzò una visita a Kodlunarn Island.9 Si trattava della prima missione archeologica sui siti di Frobisher dopo quella guidata nel 1861-62 da Charles Francis Hall (1821-1871), un americano lui stesso archeologo dilettante, giornalista ed esploratore. Hall aveva correttamente identificato in Kodlunarn Island il sito dell’insediamento di Frobisher sulla base dei suoi ritrovamenti archeologici e della tradizione orale degli Inuit.10 Kenyon confermò la scoperta di Hall e la necessità di nuove analisi, che non poté effettuare per la brevità della sua visita. Contemporaneamente a Kenyon, a Washington, negli Stati Uniti, lo Smithsonian Institution aveva cominciato a esaminare seriamente un reperto che Hall aveva donato al museo nel 1863. Si trattava di un blumo, un pezzo di metallo parzialmente lavorato, di origine incerta, che sarebbe stato utilizzato da Frobisher. Affidandone la direzione al suo specialista della regione artica, l’archeologo William W. Fitzhugh, negli anni 1970 e 1980 lo Smithsonian Institution dedicò molta attenzione allo studio dei siti di Frobisher. La prima missione ebbe luogo nel 1981. Si trattò di un’impresa a grande maggioranza americana, alla quale il Canada contribuì con la presenza di Carolyn Phillips, una archeologa di Parks Canada/Parcs Canada. Nel 1990 e nel 1991 lo Smithsonian Institution organizzò due altre missioni. Anche

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