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John Martin il trombettiere di Apricale
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E-book198 pagine3 ore

John Martin il trombettiere di Apricale

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Info su questo ebook

Quando Giovanni Battista Martini partì alla volta dell’America nel 1865, mettendo tra sé e la sua vita precedente un oceano intero, mai avrebbe potuto immaginare quale sorprendente sorte ci fosse in serbo per lui. Secondo quanto risulta dagli archivi comunali, era nato ad Apricale il 16 marzo 1841, da Giacomo e Giovanna Barberis, e nel 1860 aveva preso in moglie Caterina Rossi Craveta, che nel luglio dell’anno successivo gli aveva dato un figlio, Leonida. Le cose tra i due, però, non dovevano andare molto bene, dal momento che nei registri della popolazione residente, compilati dal 1865 in avanti, i coniugi Martini risultano separati: la moglie e il bambino sono registrati presso i nonni materni, mentre, riguardo a Giovanni, un’annotazione lo segnala come trasferito in America.
Da allora Giovanni Martini di Apricale scomparve lasciando il posto a John Martin, un nome il cui destino si sarebbe compiuto il 25 giugno 1876, entrando nella storia come “il trombettiere del generale Custer”, l’unico superstite della battaglia di Little Big Horn, durante la quale il Settimo Cavalleria fu sterminato dagli indiani Sioux e Cheyenne guidati da Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
Personaggio celeberrimo, al limite della leggenda, ammantato di quell’aura di mistero che rende la vicenda ancor più avvincente ed intrigante: le notizie storiche sul suo conto, infatti, sono scarse e contraddittorie.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2014
ISBN9788869430053
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    Anteprima del libro

    John Martin il trombettiere di Apricale - Claudio Nobbio e David Riondino

    Prefazione

    Quella che avete sotto gli occhi, nella scrittura di Nobbio, è la messa in racconto di una sceneggiatura da me scritta diversi anni fa, sceneggiatura che fu l’evoluzione di un mio trattamento che partiva da un soggetto elaborato appunto con Claudio Nobbio. La storia del trombettiere, nei suoi passaggi generali, la conoscevamo entrambi: capitò che Nobbio, generoso anfitrione, mi suggerisse di passare qualche giorno in un hotel di Venezia che aveva la ventura di dirigere, onde potersi dedicare finalmente alla stesura su carta di quella idea che vagava da tempo in aria. Così feci. Scrivevo, parlavo con Claudio, scrivevo, e via dicendo. Non mi sarei mai fermato tre giorni in quell’hotel se non per scrivere la storia: e non l’avrei mai scritta se non per metterla in scena. Non è, insomma, di quelle storie che si scrivono per mestiere. Diventava, mentre la definivo, la storia dei musicisti anonimi: Martini, per la sua indefinitezza, per il fatto di non lasciar tracce, suggeriva l’idea dell’Anonimo Musicante, portatore più o meno sano di musica di terra in terra, condizione della sensibilità musicale del Novecento, degno di un monumento perlomeno quanto ne è degno il Milite ignoto. Misi quindi in evidenza il fatto che accompagnasse, o sfiorasse, importanti figure e fatti della Storia senza entrarci in relazione più di tanto né tantomeno capirne il significato: e cercai di definire un carattere scapestrato, eroticamente sensibile, da Candide musicale: ogni capitolo ha la sua avventura erotica, ogni avventura erotica si conclude con una fuga, ogni fanciulla è un tipo diverso di rovescio sentimentale, in ogni avventura il passaggio di Giovanni è casuale, appunto come quello di Candide. Insomma, una macchina narrativa con i tempi e i modi della commedia, dedicata alla celebrazione del Musicista Anonimo, da mettere in scena a memoria di tutti noialtri, ed occasione per un’assemblea di tutti i musicisti possibili. La sceneggiatura fu presentata alle commissioni cinema, con la mia firma ed il soggetto appunto mio e di Nobbio, che la sua parte l’ebbe di certo: nel processo creativo è bene essere in due, ed è utile che qualcuno ascolti e commenti. In questo caso l’ascoltatore e commentatore era Nobbio, che aveva del trombettiere soprattutto l’idea che dovesse essere di Apricale, e che in qualche modo facesse parte di un pantheon di figure apricalesi che aveva a cuore di celebrare. Di fatto, la solerte commissione cinematografica, interpellata da un produttore, disse sì ma forse, disse correggete, disse in sostanza trovate anche altri sceneggiatori. A malincuore li trovai, e per quanto bravo il secondo sceneggiante, Luca di Fulvio, che spostò il tiro rendendo la vicenda meno Candide e più torbidamente ottocentesca, nicchiarono ancora, i famosi Commissari (intanto erano cambiati, ed avevano credo in antipatia il produttore). Compresi rapidamente che il viaggio di questo trombettiere era complesso, in cinema: la storia faceva gola a molti, ma che tristezza venderla a qualcuno – come era capitato di capire che si potesse fare – e vederla raccontata chissà come, con chissà che attore famosicchio, trascinando l’eroe anonimo, che aveva per me qualcosa di sacro, nelle danze del sottobosco cinematografico. Dove volevi andare, illustre trombettiere? Lo interrogai, e lo seguii. Voleva andare a teatro, o meglio in una direzione contaminata tra teatro e video. In quel di Lioni, verso sud, divenne uno spettacolo, oggetto di riprese di un corso di formazione video. Io raccontavo, il nobile ed allora poco conosciuto attore Bolo Rossini agiva la figura dell’eroe, e molti musici lo accompagnavano nel musicale viaggio: il tutto veniva ripreso, e variamente commentato da immagini filmate, che inserivano brani d’epoca, come se fosse una specie di Serata Martini, raccolta poi in una sorta di docufiction: il Trombettiere cominciava a trovare la sua forma. Ibrida, come doveva essere. Mista tra assemblea musicale, memoria del passaggio bocca a bocca dei temi musicali e del suo nome: ignorante e colta allo stesso tempo, con le interviste al cantante nonché storico Franzina, che a volte in scena a volte in video commentava. Con le indagini in video dello storico di Sala Consilina che rivela il documento che ne fissa la nascita nell’anagrafe dei figli di genitori ignoti. Con le partecipazioni musicali illustri, come quelle di Rava e di Bollani, che al trombettiere dedicarono alcuni brani bellissimi in una prima messa in opera del racconto, ove mi accompagnava Antonio Catania, più o meno nello stesso periodo delle rappresentazioni di Lioni. Insomma, il trombettiere imponeva per la propria rappresentazione un racconto strano, che tutelasse l’anonimato più che esibirne la figura, temendo la macchietta, il folklore, soprattutto detestando l’idea di esser commiserato come emigrante di questo o quel borgo: addirittura il nostro eroe diventava uno stalliere di Talamone, e incontrava i vari Martini di Apricale o Sala Consilina lungo il viaggio, e ne assumeva l’identità, gioco reso possibile dal fatto che il cognome Martini è ed era tra i più diffusi della penisola. Sostanzialmente, il trombettiere voleva esser trattato da musicista, voleva essere l’emblema del musicista anonimo, il padre putativo del jazz e della sensibilità contemporanea: invisibile ma riconoscibile a tutti i musicanti, perché condizione del loro dna; improvvisatore, sempre pronto a svanire davanti a troppa luce e poi riformarsi altrove: ubiquo, direbbe il geometra. Eccolo dunque chiedermi di indagare ancora, e si scopre che nel 1898 va a Tampa, in Florida, da dove i soldati partivano per Cuba e per la guerra ispano-americana. Nello spettacolo, che prosegue gloriosamente e di anno in anno riemerge dall’ombra, lo vediamo nei canaveral dell’isola misteriosa, sottoposto a misteri magici che ne faranno nientemeno che il padre di Compay Segundo: il quale nasce ai primi del Novecento, e in quei tempi il trombetta era in servizio, e niente vieta che fosse proprio a Cuba. E oltre a Compay, niente vieta che fosse padre di altri musicisti figli di padre ignoto, i quali sono la gran parte dei musici della prima onda del jazz. Vedete come leggenda e realtà si fondono: son più che convinto di aver trovato in Martini la parola e la figura di un mito fondativo, quello del musicista anonimo, che era rimasto uno dei pochi miti non trattati del tempo moderno. Comprensibile, quindi, questa nascita misteriosa, intrecciata, oscura come oscuro è il personaggio. Bene. Di anno in anno abbiamo, con Bolo l’attore e con altri musici, ripreso il tema: girato in costume parti della storia, tra tombe etrusche, ponti di navi e case contadine in stile Ottocento; infine ho composto un trattamento della materia in forma di docufiction che vado a presentar presto ai Ministeri, scommettendo sul fatto che la forma economica del documentario con inserti narrativi costi assai meno di un film, e somigli di più all’indagine sull’invisibile che il personaggio suggerisce: vedremo le nuove commissioni, gli antichi rituali. Intanto, di tasca mia e degli attori, si va avanti, perché sarebbe sciocco far cose come questa solo se pagano: altrimenti, che anonimo è? Le cose, i racconti, le figure, hanno una luce solo se saltano a piè pari i tradizionali modi della produzione del mercato delle idee. La vita è assai diversa, le giornate si intrecciano alle telecamere, alle penne, ai computer, alle chiacchiere... questo artigianato antico a volte entra in relazione con industrie e distribuzioni, che ne rendon conto maluccio, e come possono. Attraverso la storia dei prodotti, ben oltre il prodotto, si può intuire la vita che c’è stata: e in questo caso è stata molta. Insomma, per chiudere il racconto del trombetta, scoprii infine come dovesse esser raccontato su carta in modo che potesse poi risonare nel documento filmico futuro: andava fatto un romanzo sì, ma in versi. Questo lo scoprii leggendo l’autobiografia di Violeta Parra, in decime; e me lo confermai interrogando improvvisatori di Cuba come Alexis Pimienta, chiedendo a bruciapelo cosa faceva il trombettiere a Cuba e sentendomi rispondere in decime perfette cose assolutamente credibili. La storia andava scritta in versi, e commentata come fosse un poema ritrovato. E quindi in versi l’ho scritto, e presto lo pubblicherò, ritenendo che sia quella la forma che il soggetto, che come vedete ha una lunga storia, deve avere.

    Ci chiederemo a questo punto cosa c’entra questa versione del trattamento messa in prosa da Nobbio. Niente, direi. Infatti ho sconsigliato il Nobbio dal pubblicarla. Ma lui mi pare convinto, e quindi credo che corrisponda a una qualche necessità interiore che non posso contrastare, sia perché non è mia abitudine, sia perché magari il trombettiere vuole che sia esposta tanto per cominciare la sceneggiatura, la trama primaria del viaggio: sia perché firmammo insieme il soggetto, e questo è un fatto indiscutibile. Ma credo fosse necessario raccontarvi delle evoluzione del trombetta, appunto per evitar di pensare che fosse solo una figurina: è diventato un’ombra, un riferimento, un’occasione di studiare l’Ottocento popolare e musicale, di riflettere sull’improvvisazione, sulla trasmissione dei temi di porto in porto, sull’opportunità di nascondersi, di non apparire, sul poco che si vede e sul molto che sta dove non guardiamo, e che ci sta anche volentieri. Il trombettiere è diventato davvero il monumento all’Anonimo. E adesso è pronto a uscire in versi, a manifestarsi in video, a prender volti in prestito. Diciamo che questo di Nobbio è il numero zero, l’eco dei discorsi fatti in quell’hotel di Venezia, la struttura narrativa di base, l’intreccio della trama. Diciamo che è uno scherzo del trombettiere, la sua tignosità ligure. O una finta: perché come dice lui medesimo in intervista e come si rivela nel registro degli esposti (ossia dei figli di nn) di Sala Consilina, il Giovanni Crisostomo Martino classe 1852 venne nominato e adottato in quel medesimo borgo. Altri Martini, come si sa, vi furono: a Castelbolognese, in Apricale, in Roma... diciamo che il Martini che qui vedete è il frutto del desiderio degli apricalesi, un po’ come Ercole lo vediamo agire e compier danni in molti luoghi diversi, per non dire di Ulisse. Il che mi rafforza nella convinzione che sia, per l’appunto, un mito molto forte, quello del musicista anonimo, e l’inizio di un’epopea. Che nasce inseguendo gli altri personaggi del poema: che fine ha fatto Norina? E gli anarchici? Ognuno di loro merita un racconto. Ho concepito il Martini come un ciclo epico: forse allora questa scrittura del prologo al capitolo primo che avete tra le mani, un piccolo senso ce l’ha.

    David Riondino

    Prologo

    Valle del Little Bighorn,

    Stati Uniti d’America,

    estate 1876

    John Martin non ha più la sua tromba.

    Si volta a guardare la figura di Lunaluz il cui profilo scuro si staglia sul tramonto in cima all’altura. L’indiana è avvolta nella coperta con la lucertola nera cucita sopra e continua ad agitare in aria la mano che tiene la tromba. Gliela doveva, la sua tromba, e poi era ora di farla finita. John Martin la guarda e sorride, poi sprona il cavallo e sparisce nella notte che si avvicina.

    Ora non ha più la sua tromba.

    Non sente più il suo peso alla cintola. Una malinconia sottile gli attraversa il cuore e lo fa ululare a uno spicchio di luna che spunta tra le nuvole. John Martin che cavalca veloce verso ovest si immerge in quella malinconia.

    Quanti posti aveva visitato e aveva dovuto lasciare, e quante persone e quante donne aveva conosciuto, e aveva voluto lasciare. Lui, che da bambino voleva solo stare con i cavalli, ora ha solo un cavallo a tenergli compagnia.

    Ma la decisione, la prima in vita sua, è presa.

    Basta con gli eserciti, basta con gli indiani, basta con i viaggi e basta con la musica. Ora è il tempo di trovare un buon posto dove fermarsi.

    Ripensa a quando si chiamava ancora Giovanni, e al piccolo paese di Apricale, in Liguria, dove era nato, arrampicato in cima alla collina, con i suoi carruggi stretti lastricati di pietre antiche che si avvitavano attorno al castello del marchese della Lucertola. Quante corse, quante fughe nei vicoli contorti e per le ripide scalinate, nei suoi giochi di bambino.

    Ripensa a quando lo zio Antonio gli mise in mano per la prima volta una cornetta. Al secondo tentativo era già riuscito ad emettere un suono e lo zio gli aveva detto: – Hai della stoffa, ragazzo! – Per anni e anni quella vecchia cornetta era stata arnese di lavoro e compagna fedele, rifugio alle nostalgie e strumento di seduzione.

    Imparò allora a legarsela con una corda attorno alla cintola, con un doppio nodo che bastava un dito per scioglierlo.

    John Martin galoppa per distese immense sotto un ampio cielo e si ricorda di quando dovette scappare dal paese di notte, in fretta e furia, per non dover sposare quella ragazzetta che aveva disonorato, portandosi dietro solo la tromba e una coperta del marchese, tutta gialla con quella lucertola nera cucita in un angolo.

    Che ne sapeva lui di come andavano le cose tra un uomo e una donna!

    Si trovò quasi senza accorgersene sopra a quella ragazzetta che non faceva altro che stuzzicarlo e scherzarlo.

    – Sei mica un uomo... – le diceva. – Sei un bambinetto... vediamo che sai fare... – e giù a tocchignarlo dappertutto. Stufo di sentirsi prendere in giro, la inseguì fin dentro il fienile dove fu lei a lasciarsi prendere, fu lei a farlo sprofondare in un letto di fieno, a calargli le braghe con due manine svelte e...

    Ma che ne poteva sapere lui di quel che stava facendo!

    Ricorda il tenente sabaudo che lo aveva accolto nella sua brigata e ricorda ancor meglio la moglie del tenente, la bella Francesca, che gli faceva gli occhi dolci ogni volta che lui suonava.

    La bella Francesca lo adescò e si lasciò andare in una notte di luna piena, in riva al fiume. Quella volta Giovanni sapeva bene quello che doveva fare e lo sapeva così bene che le acute urla di gioia della bella mogliettina scivolarono sull’erba, scossero i rami, smossero le fronde, risvegliarono gli uccelli e non sarebbero bastate cento miglia di distanza per sfuggire all’ira del tenente. – Ti prenderò prima o poi, diavolo d’un trombettiere, dovessi attraversare l’oceano! – aveva urlato al vento il povero cornuto.

    Ripensa al suo arrivo nel Granducato di Toscana e al piccolo paese di Talamone, adagiato tranquillo su quella rocca a picco sul mare, che gli diede rifugio senza fare troppe domande. C’era altro a cui pensare in quegli anni tumultuosi.

    Anche lì un marchese, anche lì i cavalli e lui che trovò lavoro come stalliere, proprio nelle scuderie del marchese.

    Nel silenzio della notte, John Martin si scopre a cantare una vecchia marcia di paese e ripensa a quando il suo amico e capo della banda musicale di Talamone, il sarto Castellani, lo aveva chiamato perché cercava un bravo trombettiere per il concerto in occasione della festa del patrono.

    – Ma se ti fai distrarre dalle donne, giuro che ti spacco la tromba in testa! – gli aveva detto minaccioso il sarto, che conosceva l’animo umano.

    Il cavallo rallenta il passo. È stanco. Sono stanchi entrambi.

    John Martin si ferma a guardare l’orizzonte. Il sole è tramontato, ma il suo bagliore dipinge ancora di rosso il profilo dolce delle colline. Davanti a lui solo praterie e silenzio. Forse laggiù, lontano ad ovest, troverà un posto dove fermarsi per sempre, un posto dove inventare un bel finale.

    Al diavolo tutto! – pensa. – Al diavolo le nostalgie

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