Il ricatto del gas russo: Ragioni e responsabilità
Di Alberto Clò
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Info su questo ebook
Ci è voluta una guerra per capire le sciagurate scelte
che ci hanno reso ostaggio del gas russo.
Quel che poteva evitarsi con politiche diverse.
Capirne le ragioni e individuarne
le responsabilità è doveroso.
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Anteprima del libro
Il ricatto del gas russo - Alberto Clò
Una dipendenza frutto delle nostre scelte
Col nuovo Millennio si apre una fase di grande abbondanza di offerta di energia nel mondo, tale da generare l’illusione che la tradizionale priorità assegnata dalla politica alla sicurezza energetica
dovesse lasciare il passo alla costruzione del mercato unico europeo, ovvero alla convenienza economica
dell’energia, come si andava incardinando nelle direttive europee di liberalizzazioni dei mercati.
A riprova di tale abbondanza è il fatto che l’invasione russa della Crimea nel 2014 si accompagnasse a un crollo dei prezzi del petrolio, grazie alla shale revolution americana e nonostante la forte riduzione della produzione nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa a seguito dell’esplodere delle primavere arabe
diffusesi con effetto domino via social network nelle piazze della Tunisia, Siria, Algeria, Egitto, Libia, Giordania, Yemen, Iraq, Marocco. Comune la causa: la rivolta delle popolazioni per l’impoverimento cui erano costrette dall’aumento dei prezzi di beni essenziali nonostante lo straordinario incremento delle rendite petrolifere dei regimi al potere¹.
Molti leader caddero: da Hosni Mubarak in Egitto a Zine Ben Ali in Tunisia a Mu’ammar Gheddafi in Libia. Da quei moti di piazza originò un groviglio di crisi mai osservato: con guerre civili nello Yemen, Sudan, Iraq, Siria, Libia; il diffondersi del terrorismo islamico. Nonostante tutto ciò nel 2014 i prezzi del petrolio crollarono² perché, scrisse Daniel Yergin: «Il surplus di rischi geopolitici era sovrastato da un surplus ancor più grande di petrolio»³.
All’evitata crisi petrolifera si aggiungeva però quella metanifera per la riconquista della Crimea da parte della Russia con rischi di contraccolpi sulle forniture all’Europa allora dipendenti per un terzo da quelle russe⁴. Non fosse stato per la stagnazione economica seguita alla grande crisi finanziaria del 2008; il conseguente crollo della domanda di metano; il forte surplus d’offerta internazionale, il corso delle cose sarebbe stato ben diverso e più drammatico. Scrissi allora: «Confidare che queste condizioni straordinariamente favorevoli siano irreversibili e tali da porre gli Stati al riparo da ogni rischio sarebbe tuttavia conclusione errata se non stolta»⁵.
Lo si fosse capito molti errori sarebbero stati evitati. Altre erano le priorità: favorire l’apertura dei mercati a chiunque volesse entrarvi, nel convincimento che ne sarebbe derivata una maggior concorrenza a beneficio di tutti, divenne la priorità delle politiche pubbliche. Al di là delle influenze ideologiche che ne erano alla base vi era il pensiero dominante che l’energia fosse una merce come tutte le altre, tale da non sollevare particolari interessi e obblighi d’ordine generale, «più di quanto – fu scritto – non sollevi il cibo»⁶ e che i mercati fossero in grado di risolverli da sé.
Da qui, la conclusione che non vi fosse più alcun valido motivo per sottrarre i sistemi energetici a regimi di piena concorrenza e di proprietà privata. Rendere i mercati efficienti era il residuo compito delle politiche pubbliche, seguendo il pensiero del ministro dell’Energia inglese Nigel Lawson nel governo di Margaret Thatcher secondo cui «the business of government is not the government of business». Quindi: fuori la politica dall’energia. È stata necessaria una guerra per comprendere quanto questo principio fosse errato.
Ne fu investito anche il settore del metano ove ENI operava come monopolio di fatto – e non di diritto come nel caso dell’ENEL – semplicemente perché le imprese private non avevano inteso investirvi. L’apertura al mercato del gas divenne la priorità assoluta, nonostante, scrisse Francesco Giavazzi, «Un mercato neppure esiste […] pensare di aprirlo alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile»⁷ o Domenico Siniscalco secondo cui «Il mercato del metano è intrinsecamente non concorrenziale»⁸. Era impossibile infatti avere concorrenza in un mercato dipendente da un oligopolio colluso che praticava i medesimi prezzi.
Alla crescita della domanda e delle importazioni di metano contribuiva per lo più la dotazione impiantistica esistente, gli investimenti (di fatto gli unici) in nuove infrastrutture realizzati da ENI⁹, i contratti di approvvigionamento che aveva sottoscritto. Poco o nulla invece dai nuovi entranti
privati, cui pure la liberalizzazione forniva grandi opportunità. La quasi totalità degli innumerevoli investimenti progettati o annunciati – tali da configurare uno scarto tra eccedenza virtuale di gas e sua scarsità effettiva – sarebbe rimasta lettera morta, almeno per un decennio.
Il processo di liberalizzazione si avviò con la Direttiva europea numero 30 del 1998, recepita nel 2000 col così detto Decreto Letta
. Come accaduto nell’elettricità, anche nel metano il nostro Paese sarebbe stato più realista del re
, recependo in modo molto più radicale le riforme europee all’opposto di quel che accadeva negli altri maggiori Paesi europei, segnatamente Francia e Germania, ove entrarvi era quasi impossibile per il perdurante dominio degli ex-monopolisti. L’entrata nel nostro mercato del gas fu comunque molto limitata nei segmenti a maggior intensità di capitale (costruzione di rigassificatori o di gasdotti), mentre fu massiccia in quelli a bassa intensità, come nel trading e nella vendita finale di elettricità e metano ove si conta una platea di molte centinaia di operatori che non si ritrova in nessun altro Paese europeo.
Una politica che non ha favorito, quel che più conta, la promessa riduzione dei prezzi che risultano ampiamente superiori a quelli degli altri maggiori Paesi¹⁰, diversamente da quel che accadeva prima delle liberalizzazioni. A dimostrazione del fatto che non è la numerosità delle imprese a garantire di per sé maggior concorrenza e che quel che conta nella fissazione dei prezzi finali dell’energia è l’andamento dei prezzi internazionali della materia prima e ancor più il mix di fonti utilizzate. Di cui può beneficiare la Francia col massiccio ricorso al nucleare o la verde
Germania con quello al carbone.
______________
¹ Nel 2011 il valore dell’export petrolifero era ammontato per l’insieme dei Paesi OPEC a circa 1.500 miliardi di dollari, contro i poco meno di 270 milioni di dollari di un decennio prima. Dati tratti da OPEC, Annual Statistical Bulletin 2015, Vienna.
² Cfr. Clò A. (2014), Verso un nuovo ciclo energetico?, in Energia
, n. 4, pp. 12-18; (2015), Energia tra economia e politica, in Energia
, n. 1, pp. 14-18.
³ Cfr. Yergin D., Oil gush keeps prices low as fear is high, Financial Times
, 17 ottobre 2014.
⁴ Per un’analisi dello svolgersi della crisi russo-ucraina si rimanda a Clò A. (2014), La crisi ucraina, la partita del gas, in Energia
, n. 1, pp. 14-17.
⁵ Cfr. Clò A. (2016), La sicurezza energetica: vero o falso problema?, in Massimo Nicolazzi e Nicola Rossetto (a cura di), L’età dell’abbondanza: come cambia la sicurezza energetica
, ISPI, pp. 15-41.
⁶ Cfr. Scarpa C. (1997), Opportunità e forme della concorrenza nel settore dell’elettricità, Relazione alla Conferenza Concorrenza e regolamentazione