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Milano il mondo non cambia: Omicidi, politica, criminalità sotto la Madonnina
Milano il mondo non cambia: Omicidi, politica, criminalità sotto la Madonnina
Milano il mondo non cambia: Omicidi, politica, criminalità sotto la Madonnina
E-book416 pagine6 ore

Milano il mondo non cambia: Omicidi, politica, criminalità sotto la Madonnina

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Info su questo ebook

Don Rocco Alfieri non è più quello di un tempo, i pensieri lo stanno tradendo e dal suo feudo nell’hinterland sud di Milano sta perdendo il controllo sugli affari criminali della Società. Il figlio prediletto Domenico, detto Micu Bang Bang, si trova in carcere; il secondogenito, Antonino, non è pronto per ereditare il bastone del comando. Poi ci sono i Procopio, la cosca satellite relegata da generazioni a fare il lavoro sporco, che cerca di alzare la testa alleandosi con la mafia albanese e la mala egiziana. Filippo Barone è un consulente milionario. Ripulisce denaro, pilota appalti e fa da cerniera tra il mondo di sotto, dove si muovono grandi casati malavitosi e narcotrafficanti internazionali, e quello di sopra, popolato da ricchi imprenditori, senatori corrotti e broker senza scrupoli. Barone vive una torrida storia con Bianca Viganò, una modella e influencer dai lunghi capelli castani, legata profondamente all’amico d’infanzia Leonardo Ferrari, un bravo ragazzo di quartiere che spaccia cocaina tra le panchine di Piazza Prealpi. Il loro mondo non cambia mai. Li tiene uniti in una tragedia moderna e senza pietà, dove nessuno si salva e dove, dai grattacieli di CityLife ai nightclub di Corso Como, si sovrappongono i mille volti della criminalità multietnica di Milano, i sogni di successo dei ragazzini cresciuti ascoltando trap nei casermoni popolari della periferia, gli affari sporchi dei faccendieri che muovono milioni di euro dagli uffici open space con vista sul Duomo. Tutti insieme, nell’amore e nell’odio, accomunati da un unico destino. Perché il mondo non cambia, ma l’Apocalisse è alle porte.

Thomas Melis è nato a Tortolì, in Sardegna, nel 1980. Ha studiato presso le Università di Firenze e Bologna concludendo il suo percorso accademico nell’anno 2008. Nella vita si è occupato di progettazione su fondi comunitari e consulenza aziendale. Ha scritto per diverse riviste on line, dedicandosi ad analisi di politica interna e degli scenari internazionali. Attualmente gestisce un’attività commerciale, lavora come copywriter, crea contenuti per aziende attive sul web e, dal 2017, collabora con il sito di critica letteraria MilanoNera. Nel 2014 ha pubblicato A un passo dalla vita, opera d’esordio, seguito l’anno successivo dallo spin off Platino Blindato e, nel 2018, da Nessuno è intoccabile. Milano. Il mondo non cambia è il suo primo romanzo per Fratelli Frilli Editori
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2022
ISBN9788869436321
Milano il mondo non cambia: Omicidi, politica, criminalità sotto la Madonnina

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    Anteprima del libro

    Milano il mondo non cambia - Thomas Melis

    ATTO PRIMO

    L’intermediario

    Quattordici mesi prima dell’Apocalisse

    Indico quindi in primo luogo come inclinazione generale dell’umanità un perpetuo e irrequieto desiderio di potere dopo potere, che cessa solo in morte.

    Thomas Hobbes

    Il denaro c’è ma non si vede: qualcuno vince, qualcuno perde. Il denaro di per sé non si crea né si distrugge.

    Semplicemente si trasferisce da una intuizione ad un’altra, magicamente. Il capitalismo al suo massimo.

    Gordon Gekko in Wall Strett

    CAPITOLO 1

    Un messaggio chiaro

    Un uomo crivellato dai proiettili, disteso su un marciapiede. Dalla bocca spalancata fuoriusciva un sottile lembo di seta viola. Filippo Barone cliccò un’icona sullo schermo del cellulare di fabbricazione israeliana e visualizzò il messaggio criptato che recava allegata l’immagine.

    La foto gli era stata recapitata attraverso l’applicazione Signal, assieme a uno stringato resoconto dell’accaduto, dal cellulare di un dondina a libro paga che lavorava negli uffici della Questura di via Fatebenefratelli. Alle sette del mattino una telefonata anonima aveva dato l’allarme dopo l’esplosione di una serie di colpi d’arma da fuoco in Via Camaldoli. Un giovane agente, in servizio presso il commissariato di quartiere, aveva catturato l’istantanea di quel corpo senza vita che contrastava ferocemente con il silenzio della strada alberata a pochi passi dalle rive del fiume Lambro, inoltrandola al collega. Un favore tra sbirri, insomma.

    Gli esecutori dell’agguato avevano scelto un giorno di pioggia battente per minimizzare le tracce sulla scena del delitto. Secondo le prime testimonianze si erano fermati con un furgone giallo da corriere postale davanti al portone della vittima che si apprestava a lasciare la sua villetta a bordo di una BMW M6 coupé. Sceso dal veicolo, l’uomo si era avvicinato agli assassini per sottoscrivere la consegna di un pacco.

    Era stato freddato con un colpo di revolver al cuore e due alla testa. Un’esecuzione in piena regola. Il killer aveva quindi infilato nel cavo orale del cadavere il tremendo segnale: una striscia di tessuto setoso larga due centimetri e lunga una decina.

    Filippo Barone conosceva l’uomo che giaceva sotto la pioggia in Via Camaldoli e comprendeva il codice connaturato alla teatralità di quell’epilogo definitivo. Il dannato si chiamava Giovanni Frigerio, aveva cinquantadue anni e fino a quella mattina era stato titolare di un gruppo di imprese edili attivo nella realizzazione di opere pubbliche e private in mezza Milano. I suoi problemi erano nati quando, sordo ai consigli degli amici, si era voluto affacciare all’altra metà della città, determinato ad aggiudicarsi gli appalti milionari destinati allo sviluppo dei progetti di riqualificazione urbana nell’area meridionale della metropoli.

    Il messaggio – quella lunga lingua di seta vellutata, introdotta in bocca con violenza – serviva a rendere chiaro quale fosse il rischio che si correva a spifferare alla madama cosa accadeva nei cantieri degli inabili a campare che rifiutavano di sottostare alla regola.

    Filippo Barone vedeva il fatto per quello che era: un errore madornale. Una follia. Uno sbaglio fuori tempo massimo, controproducente e foriero di imprevedibili complicazioni. Un vincenzo sottoterra per una medievale dimostrazione di forza significava esclusivamente problemi: giornalate che strillavano titoli allarmati, uomini in divisa con le antenne alzate H24 e un fottio di sbattimenti inutili che avrebbero richiesto uno spreco di tempo incalcolabile. E tutti quei casini sarebbero ricaduti sulla sua agenda.

    Dalla finestra dell’attico affacciato sulla Darsena vide un tram che superava le colonne bianche di Porta Ticinese e s’insinuava nel cuore della città. Infilò la giacca doppiopetto grigia, abbinò alla camicia bianca una cravatta borgogna e strinse un robusto nodo Scappino, non come quei giargiana la cui massima espressione stilistica consisteva in anoressici cravattini acquistati al supermercato o, ancora peggio, come i tanti barboni di Quarto Oggiaro o della Barona che per darsi un tono si presentavano muniti di papillon a un colloquio di lavoro dove sarebbero stati congedati con un inesorabile: le faremo sapere.

    Dal tavolo in palissandro al centro del living prese in mano un secondo cellulare e impartì una serie di direttive tramite WhatsApp. Varcò la porta dell’appartamento, dirigendosi verso il suo ufficio situato in Zona 1.

    La missione quotidiana era quella di sempre: agire da ponte tra gli interessi di due mondi apparentemente lontani e aggiungere zeri ai conti correnti intestati a società fiduciarie, con sede a Londra, che proteggevano il suo grano nelle banche delle Isole Cayman.

    Abbandonò la 911 blu metallizzata in uno stallo del parcheggio sotterraneo di Piazza Meda e raggiunse un’elegante pasticceria di stretto rito ambrosiano sotto i portici di Corso Matteotti. La pioggia aveva smesso di cadere ma una combinazione di scighera e smog nascondeva il viso scarlatto della Basilica di San Babila.

    Seduto davanti a un tavolino, coperto da una tovaglia rosa antico, lo attendeva Matteo Palumbo, contabile e uomo di fiducia, per quanto fosse possibile quel sentimento nella mente di Filippo Barone. Intento in un’attività intermedia tra il leggere la Gazzetta dello Sport e il compulsare nervosamente sulla tastiera di un telefono cellulare, indossava il consueto outfit indecoroso: un dozzinale abito nero, a tre bottoni, troppo slim per le sue forme cadenti e mal distribuite in poco più di centosettanta centimetri d’altezza. Da una sedia di legno penzolava un impermeabile consunto in pieno stile sepoltò. Poco più che trentenne, il ragazzo nascondeva la calvizie attraverso un’infelice acconciatura realizzata con uno sproporzionato dispendio di minuti davanti allo specchio, tempo che avrebbe potuto utilizzare più coerentemente per occuparsi delle faccende di cui Barone intendeva parlargli.

    La notizia dell’incontro mattutino tra Caterina la secca e l’imprenditore di Ponte Lambro non doveva ancora essergli nota e per il momento non era il caso di illustrargli i dettagli della faccenda. Si sedette e ordinarono due caffè a un elegante ma attempato cameriere stretto in un completo marrone.

    «A che punto è la documentazione?», domandò Barone, aprendo una valigetta di cuoio.

    «È tutto pronto. Abbiamo preparato capitolati d’appalto su misura per le aziende controllate dagli Alfieri. Nel pomeriggio consegnerò personalmente la pen drive all’assessore ai lavori pubblici. La prossima settimana pubblicheranno la documentazione in una sezione introvabile del sito del Comune e faranno in modo che la notizia venga nascosta nelle ultime pagine di qualche quotidiano locale. Se ci muoviamo come sappiamo, la gara è blindata.»

    «A quanto ammonta l’Ambaradan?»

    «Quattro milioni tra opere, forniture e consulenze.»

    «Figa, perfetto.»

    Matteo Palumbo rovesciò una bustina di zucchero dentro la tazzina di caffè e la svuotò in un sorso. Dopo qualche secondo di silenzio sollevò lo sguardo e disse:

    «Capo, ti posso fare una domanda delicata?»

    «Lo stai già facendo», rispose Barone, sfilando una banconota dal portafoglio e poggiandola su un piattino di ceramica abbinato al colore della tovaglia.

    «Ma che casino hanno combinato i calabri in Via Camaldoli?»

    Barone considerò per un attimo chi potesse aver passato la dritta al contabile ma soppresse sul nascere quella pessima abitudine a sottovalutarlo. Non era la prima volta che lo sorprendeva così dal nulla. A essere onesti, quando il gioco si era fatto serio, aveva sempre dimostrato di avere le skills necessarie per trasformare le chiacchiere in banconote da cinquecento.

    «La cosa ti stupisce? Quelli lì puoi pure agghindarli con il miglior abito di Armani ma la scritta selvaggi stampata in fronte mica gliela levi.»

    Filippo Barone avrebbe voluto definirli più correttamente terroni in cravatta, ma c’era il rischio di offendere anche il Palumbo, che nonostante parlasse con l’accento di uno nato e cresciuto a Lorenteggio aveva profonde e robuste radici foggiane.

    Dal momento che il discorso era stato introdotto, passò invece a organizzare le contromisure per disinnescare le conseguenze di quell’atto senza senso.

    «Adesso ci tocca risolvere il problema.»

    «Cosa intendi dire?»

    «Disinformatia. Appena arriviamo in ufficio assicurati che le testate online che controlliamo diffondano una voce: Giovanni Frigerio non era esattamente un santarellino, era uno a cui piacevano le donne, uno pieno di amanti che faceva regali principeschi e magari può aver infastidito qualcuno o qualcuna. Poi vai di persona dagli amici gialli in Via Paolo Sarpi e spiega loro che devono attivare centinaia di bot sui social network, in particolar modo su Twitter, per rilanciare i link delle notizie pubblicate dai nostri web magazine. Frigerio deve risultare per tutti un morto di corna, che qualcuno vorrebbe far passare per morto di mafia, quando invece lo sappiamo tutti: a Milano la mafia non esiste.»

    «Tutte ’ste robe ci costeranno parecchi K.»

    «Tel chi, l’animo del ragioniere. Quanti K?»

    «Non meno di dieci.»

    «Diecimila euro? Roba da niente. Il servizietto addebitalo agli Alfieri. Trova un modo per infilare i costi in qualche fattura e vedi di fartela liquidare il prima possibile. Sem minga chi a fà balà la scimmia.»

    Le braci ardevano dentro il grande caminetto che riscaldava il salone della villa-bunker di don Rocco Alfieri. Adagiato sulla poltrona marrone, l’anziano capobastone osservava le fiamme e masticava le sfere di calia insaporite con olio e paprika che colmavano un recipiente di terracotta.

    Titolare di anni di Asinara e 41 bis, ‘u Fantasma era il boss più importante della struttura criminale chiamata Lombardia, la camera di controllo che coordinava le famiglie affiliate alla Società, attive pe Supra. Era stato tra i primi uomini d’onore a essere insignito della dote di Crociata, e quel soprannome se l’era guadagnato grazie alla leggendaria capacità di rendersi invisibile ai magistrati e agli sbirri, a dispetto delle delazioni degli infami, dei doppi giochi dei tragediatori e degli inevitabili soggiorni a base di sole scozzese che ogni tanto gli toccava trascorrere nei villaggi vacanze di proprietà della Repubblica Italiana.

    Don Rocco ‘u Fantasma non era sereno, non lo era da parecchie lune nuove. Nutriva ansie crescenti che taceva anche agli affetti più cari. In alcuni giorni il tormento sembrava dargli tregua, in altri incombeva come una nuvola nera prima di una grandinata.

    Un cristiano nella sua posizione non poteva mostrare debolezze. Anche tra i buoni amici battezzati e tagliati sul volto si celavano malacarne dalla lingua sporca, convinti di meritare più potere di quanto il buon senso raccomandasse di riconoscere loro. Erano gli eredi della Garduña, uomini di rispetto da secoli, l’élite dell’associazione di galantuomini che qualcuno chiamava Famiglia Montalbano, qualcun altro Fibbia, altri ancora Onorata Società o Picciotteria, quella che negli ultimi tempi era nota a molti come Santa, ma che tutti conoscevano con il nome di ’Ndrangheta. Se avesse permesso alle croci di emergere, diventando argomento di discussione all’interno di qualche cerchio formato, non ne sarebbe venuto bene alcuno. Per lui e per la cosca che capeggiava. Come in una partita a scacchi, i nemici avvolti dal buio avrebbero mosso i loro pezzi in accordo con le Locali pesanti di Giù per sfilargli lo scettro dalle mani e consegnarlo a qualche asso di bastoni più malleabile.

    Poi c’era il fatto di quella mattina: dare l’ordine di stutare l’uomo di Via Camaldoli era stato un dovere. Il serpente a sonagli voleva tagliare fuori le altre famiglie dalla spartizione e fottersi il riscatto dell’americano sequestrato in Piazza Farnese. Don Rocco ragionava su quella storia e naschiava con rabbia, ma poi sentiva un brivido risalire dallo stomaco e insinuare il dubbio nello spirito, perché no, la storia del nipote del petroliere miliardario, nascosto per mesi dentro una grotta, non c’entrava nulla con l’omicidio.

    Ci pensava e ripensava e finalmente tutto gli sembrava chiaro: aveva dato luce verde all’ammazzatina per vendicare la morte di Micuzzu, suo figlio primogenito… E invece no, no, e ancora no, mannaja ‘u Santissimu. Domenico non era morto, era ospite della Legge in una cella del carcere di Opera, quello morto era suo fratello Giuseppe, ma quando era stato assassinato Peppe? Nel ’74? O nel ’92? E da quanto tempo quel folle incubo senza memoria stava piegando la determinazione granitica di un uomo che dalle cime ricoperte di fame dell’Aspromonte aveva condotto una legione di sgarristi a conquistare le terre ricchissime sotto il cuore di Milano?

    Le telecamere installate a presidio della villa segnalarono movimenti sugli schermi ultrapiatti che proiettavano le immagini del perimetro protetto. Il cancello elettrico, affacciato su Via della Costituzione, si aprì e un’automobile superò il primo gruppo di uomini incaricato di sorvegliare l’ingresso. Don Rocco seguì l’azione passare da un monitor all’altro e vide scorrere la seconda barriera inferriata. Il veicolo varcò un successivo punto di vigilanza schierato militarmente, fermandosi davanti a un viottolo lastricato con pietre di fiumara.

    Dalla lunga berlina scura scese Antonino Alfieri, il secondogenito. Tony ‘u Dottori attraversò il vialetto alberato fino a una veranda che protendeva lo sguardo verso i filari di un vigneto congelato dal freddo. Salutò due picciotti lisci che piantonavano il portone della villa ed entrò nella casa paterna.

    Dirigendosi verso il salone intravide la madre avvolta in una casacca nera, decorata da rose tracciate con una tinta rossa. S’incontrarono a metà strada. Quando si avvolsero in un abbraccio lei gli sussurrò una frase inquietante: «Papà non sta bene. È peggiorato.»

    Gli rivolse un sorriso triste e proseguì verso la cucina. Si chiamava Caterina Malara e apparteneva anche lei. Veniva figlia a cristiani di rispetto e sapeva che era il momento dei discorsi tra uomini.

    Il capobastone si alzò dalla poltrona per accogliere il figlio.

    Antonino Alfieri lo osservò negli umili vestiti casalinghi che mai avrebbe indossato fuori da quelle mura: un maglione con una chiusura lampo, sotto cui s’intuiva una camicia a quadri, e dei pantaloni colore del muschio.

    Si baciarono sulle guance. Il profumo del dopobarba sulla pelle del secondogenito scatenò un sussulto che trapassò il cuore di don Rocco come una scarica elettrica. Improvvisamente ogni tassello tornò al posto giusto: il motivo dietro il servizietto di quella mattina, l’identità del sacrificato, la catena di azioni che aveva consegnato un nuovo nome alla lista cimiteriale.

    «Perché, papà?», domandò ‘u Dottori, poggiando gli eleganti occhiali da vista su un tavolino, accanto al contenitore di calia.

    «Perché, quello era sbirro nella testa… ‘ddu infami. Si è presentato in casa nostra senza invito, no ndi cercau ‘u permissu pe mi pigghia l’appalti e quando gli abbiamo ordinato di mettersi a posto è corso dalla Benemerita a raccontare i cazzi di nostra spettanza. Che dovevamo fare? Minaru tri botti e finiu ‘u problema

    «È mala nuova, papà. Da domani la nostra terra sarà piena di uniformi e giornalisti. Ccà Supra certi fatti non si risolvono finendo i giorni alla gente. Noi abbiamo il dovere di rendere conto al Crimine e i sanlucoti non le tollerano più queste esibizioni di ominità.»

    «Nella Società conta chi spara, figghiu. Questo lo sa la Mamma come lo sappiamo noi.»

    «Chi spara contro i soldati. Non chi spara contro i civili. Chi commette quell’errore finisce a fare vermi in galera» sentenziò Antonino Alfieri, con l’accento venato di piegature nordiche che lo contraddistingueva.

    Percorse due passi fiancheggiando una grande finestra. Vide il riflesso del suo profilo scarno allungarsi sul vetro. In lontananza risaltava il verde di una risaia senza confini.

    Le inquietudini che negli ultimi tempi le conversazioni con il padre gli avevano procurato erano cresciute in proiezione geometrica, volta dopo volta. Il cielo si stava girando a tempesta.

    «Che ne pensa compare Procopio di questa storia?» domandò.

    «Compare Procopio? Compare Procopio zitto e mosca, ché questa non è roba per loro. I rapimenti e i soldi dei riscatti li gestiamo noi. Loro accettano, per sì o per forza. Sono io il caposocietà… E poi dovevamo abbattere un albero d’ulivo per aggiustare il fatto di tuo fratello. Adesso siamo pari», rispose don Rocco con lo sguardo privo della fermezza che quelle parole volevano dimostrare.

    Ad Antonino Alfieri la frase parve venuta da un’altra realtà. La ascoltò provando un misto di terrore e disperazione. Avrebbe voluto chiedere all’uomo da cui aveva imparato tutto a quale follia si stesse riferendo, urlare a Dio che non era il modo, come non era il momento. Invece tacque, senza lasciar trasparire emozioni.

    Suo padre aveva imboccato una via rovinata, diretta al tramonto e costellata di sofferenza e angoscia. Era una tragedia e bisognava farci i conti, una disgrazia per l’intera famiglia, che apparteneva alla vita e apparteneva anche alla morte. Ma il problema era un altro, in quel momento, ed era ancora più serio: l’uomo davanti ai suoi occhi disponeva di truppe pronte a eseguire qualsiasi ordine senza discussioni. Aveva potere di vita e di morte su un esercito in armi composto da centinaia di affiliati.

    Un potere che non era più in grado di controllare.

    CAPITOLO 2

    Il mondo di mezzo

    Dalla finestra al settimo piano di un palazzo ottocentesco in Via San Paolo, Filippo Barone vedeva le guglie del duomo conficcarsi dentro un cielo grigio e carico di pioggia. Sul desk dallo stile minimale era aperta una cartella rossa di plastica lucida. Conteneva documenti sulla consulenza per un finanziamento europeo destinato a un importante centro dell’-hinterland. Non erano carte particolarmente rilevanti, il materiale che gli avrebbe permesso di fare il grano lo conservava nella tasca del blazer gessato, tra i file di una chiave USB preparata dal suo factotum Matteo Palumbo. Il contabile era la sola altra risorsa ad avere una stanza privata in quello studio openspace che si occupava di un coacervo indefinibile di attività: dall’assistenza tecnica al guerrilla marketing, passando per le campagne pubblicitarie virali, la comunicazione politica focalizzata sulla diffusione di fake news, il management di profili social, l’editoria marchettara in subaffitto ai pezzi da novanta della città e qualsiasi altro servizio intangibile funzionale alla sacra mission aziendale: incrementare il fatturato.

    Barone valutò l’adeguatezza dei risultati del quotidiano allenamento callistenico sui pettorali ancora doloranti. A quarantasei anni non poteva tralasciare nulla se voleva essere competitivo. La genetica gli era stata amica. Era alto, dotato di una muscolatura atletica che temprava con una determinazione severa lavorando al potenziamento della forza fisica e all’incremento della velocità. Da bravo ragazzo di quartiere, cresciuto al Giambellino, completava il workout con estenuanti sessioni di corda, sacco e shadowboxing. Aveva un viso armonico, segnato da zigomi pronunciati e occhi profondi di un colore ombroso quanto la sua mancanza di scrupoli. Alla cura dei capelli e alla rasatura provvedeva il giovane staff hipster del barber shop di fiducia che aveva scoperto tra i locali e i negozi alla moda di Via Savona.

    In una città come Milano la ricchezza era l’unica carta del mazzo che contava. Se poi la fresca si trovava custodita nel portafoglio di un uomo tanto fortunato da essere anche piacevole alla vista, beh, allora era tutta un’altra roba.

    Uscì dalla stanza e sorrise alle componenti del team femminile impegnato a produrre lavoro clean per conto di alcune delle aziende che avevano sede nell’ampio openspace. Si trattava di uno schema di scatole cinesi dove la società principale, chiamata Creia.Mi Consulting Srl, controllava le quote di un multiforme gruppo di imprese intestate a prestanome, come l’onnipresente Palumbo.

    Quella mattina doveva consegnare documenti confidenziali all’assessore Luciano Fumagalli, sgamato amministratore di un comune dell’area metropolitana, uno dei tanti con i quali lo studio lavorava, in un modo o nell’altro. Il fascicolo digitale, serbato nel dispositivo elettronico, serviva a turbare l’appalto per un progetto insignificante, a prima vista: le prestazioni di facchinaggio necessarie a ripulire un immobile di proprietà dell’ente pubblico, prima di destinarlo a una biblioteca. Era un lavoro da meno di centocinquantamila euro ma nel territorio in questione la voracità della famiglia Alfieri non aveva limite e, d’altra parte, le procedure con importi tanto contenuti erano le più semplici da manovrare. L’Ambaradan funzionava così: tre aziende partecipavano alla gara consegnando dei preventivi, una era controllata dai calabresi, le altre due erano alleate disposte a indicare una cifra abbastanza elevata da decretare la sconfitta della loro offerta tecnica. Quando poi non si trovava modo di mettersi d’accordo, allora s’iniziava a parlare con il linguaggio del fuoco. E, figa, quello lo capivano tutti.

    Imboccata Via del Senato la 911 blu costeggiò gli edifici liberty di Brera, lasciandosi alle spalle Via Fatebenefratelli. Il traffico perverso della mattina procedeva a singhiozzo ma Barone odiava mescolarsi all’umanità indistinta e multietnica che affollava i mezzi pubblici.

    Sovrastata dalla torre vermiglia del Castello Sforzesco vide una moltitudine di soggetti accalcata dentro gli stand bianchi di una manifestazione artistica che prometteva un’esperienza multisensoriale sull’abitare contemporaneo e sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Una coppia di americani, WASP e sovrappeso, scattava un selfie sullo sfondo del parco.

    Sotto l’ago d’acciaio e vetroresina al centro di Piazzale Cadorna correnti opposte di pendolari svuotavano e riempivano la strada, mescolandosi a cingalesi con mazzi di rose in mano e studentesse universitarie dirette alla Cattolica. Barone si prodigò in uno slalom tra mezzi pubblici, auto sportive e ciclisti con la cravatta sotto l’impermeabile, la caviglia esposta alle intemperie e il laptop dentro una custodia colorata. Scansò cantieri stradali dove, con tutta probabilità, lavoravano imprese collegate agli amici degli amici e terminò la circumnavigazione della Zona 1 parcheggiando di fronte a un caffè nelle vicinanze delle Colonne di San Lorenzo.

    Il Fumagalli, fedele all’origine del suo cognome, era un malnàtt dinamico e pieno d’inventiva. Si trovava dentro il bar da almeno un’ora, per evitare che nelle presumibili annotazioni di servizio OCP della madama comparissero elementi sufficienti a regalargli un soggiorno omaggio nell’albergo al numero 2 di Piazza Filangieri. Per la stessa ragione, prima di uscire dal suo ufficio, aveva abbandonato il telefono cellulare sulla scrivania.

    Barone attraversò un’ampia porta di vetro incastonata in una facciata ricoperta da lastre di marmo grigio. La sala era quasi vuota. Una donna con una pelliccia rosa e un angelo tatuato sotto il mento batteva le unghie smaltate sulla tastiera di un portatile bianco. Lampadari rettangolari di ferro battuto illuminavano un lungo bancone dallo stile postindustriale. Dietro, un manager dalla barba curata discuteva con un cameriere di origini orientali.

    L’assessore, in abito grigio abbinato a una cravatta blu a righe, sedeva su un divanetto verde pastello. Sorseggiava il consueto centrifugato di kiwi nella speranza lo aiutasse a bruciare la spropositata quantità di adipe che anni di cene di partito avevano lasciato depositare sui suoi fianchi flaccidi. Il cameriere orientale si avvicinò. Barone chiese caffè e conto, insieme.

    «Alùra, cum te stet?», domandò Fumagalli, allungando la mano.

    «Eh, tirèmm innànz», rispose Barone passandogli la chiave USB con una stretta. «Questa partita è chiusa. Non immagini quanti inutili sbattimenti mi sia costata, ma i calabri hanno la testa dura come il granito. E tu lo sai bene», continuò. «Vediamo di allinearci per la prossima. Figa, quella è una roba seria.»

    «Fammi capire un po’: chi deve entrare nell’affare? Gli Alfieri o i Procopio? Minga è istess

    «A questo giro tutti e due. Dai retta a me, è da parecchio che i Procopio si stanno allargando. Quelli non lo rispettano Antonino Alfieri, dicono che non è mai stato in galera e non è uomo abbastanza. Il Rocco ormai è vecchio e con quell’altro balengo del Domenico a Opera, i cugini poveri hanno finalmente l’occasione giusta per scavallare il giro ai nobili della famiglia.»

    «Basta che non facciano qualche altro casino dei loro. Te vist che roba in Via Camaldoli? Han fatto fuori quel povero ambrogio del Frigerio per quattro spiccioli. Roba da matti.»

    Aveva visto sì, Barone, il casino di Via Camaldoli. L’aveva saputo in anteprima assoluta, in dettaglio e con tanto di immagini del caro defunto che imbrattava il marciapiede. Ma non era quello il vero problema dell’assessore: nemmeno la quotidiana pratica di menzogna e dissimulazione riusciva a nascondere la preoccupazione per il ruolo che era obbligato a ricoprire nel business all’orizzonte.

    Il Fumagalli era stato eletto, lui e la giunta del suo comune, grazie ai voti marchiati Aspromonte. Ne aveva acquistati duemila dagli Alfieri, che avevano fatto lavorare a suo servizio anche i Procopio, il loro braccio armato, e gli altri clan che orbitavano intorno alla Locale su cui erano sovrani. Il prezzo iniziale era sceso da ottanta euro a voto fino a trenta. In cambio l’assessore aveva promesso di mettersi a disposizione. Il che significava che i calabri avrebbero bagnato il becco, come dicevano loro, in tutti gli appalti dove lui riusciva a infilare le mani.

    In futuro l’avrebbero appoggiato, in modo ancora più massiccio, per un posto al Pirellone, a Bruxelles o a Roma, così come avrebbero fatto in ognuna di quelle consultazioni con una pedina dello schieramento avverso, qualunque fosse la gamma di colori dell’arcobaleno elettorale. Questo in futuro, però. Per il momento ciò che importava era che Fumagalli facesse entrare le aziende capitanate dagli Alfieri nei lavori per la costruzione di un moderno quartiere chiamato solennemente Città Futura: una decina di isolati disseminati di palazzoni, villette multifamiliari, giardinetti e strutture sportive, con accesso diversificato a seconda della disponibilità di K nel conto corrente bancario dell’acquirente.

    «Come farete a dare ai terroni la loro fetta di torta senza mandare tutti quanti al numero due?», domandò Barone.

    «Opereremo sotto soglia. Divideremo l’intervento in quattro progetti da cinque milioni di euro per evitare i casini delle norme comunitarie e le rotture di coglioni delle procedure ANAC. Ci regoleremo con una quota di subappalto fino al quaranta per cento e un’aggiudicazione secondo il criterio del massimo ribasso. Se quelli lì si presentano con le società giuste, antimafiate e clean, abbiamo il pallino in mano.»

    «Liscio come l’olio, tel chi. In azienda faremo in modo di garantirvi bandi di gara a prova di bomba e capitolati scritti su misura. Se poi ci troviamo tra le palle qualche genio che non ha intenzione di scansarsi, allora deleghiamo agli amici della bassa Italia: quella è gente che sa come essere convincente.»

    Entrò nell’ascensore e premette il tasto per l’ultimo piano di Palazzo dell’Arengario. Le porte si riaprirono e Filippo Barone avanzò illuminato dall’intreccio tubolare di neon che adornava il soffitto della Sala Fontana. Era ora di pranzo ma Milano era vestita a festa: il Museo del Novecento aveva aperto le porte a un’infinità di ospiti da ogni parte del pianeta.

    Un drappello di anziani giapponesi, con badge appeso al collo, formava una perfetta fila indiana e attendeva di ammirare il panorama di Piazza del Duomo. Una ragazza francese, stretta in un trench nero, redarguiva il fidanzato per la scarsa qualità delle foto che le stava scattando con un cellulare Samsung.

    Barone si avvicinò a una delle vetrate. Le persone brulicavano sotto la cattedrale incipriata da una coltre di nebbia che aleggiava su pinnacoli e statue dall’anima gotica. Un maestoso albero di Natale, cosparso da migliaia di luci led color oro, fronteggiava la basilica come a volerle ricordare che il cuore della metropoli possedeva il passato ma la testa guardava verso il futuro: nessuno poteva immaginare la dimensione della catastrofe che in poco tempo avrebbe sconvolto la vita del genere umano.

    Prima di raggiungere il luogo dell’appuntamento si assicurò di non essere seguito. Entrò in bagno, fece un ultimo giro della sala. Discese una rampa di scale fermandosi ad ammirare statue di Martini e tele di De Chirico. Arrivato al primo piano vide Antonino Alfieri guardare un dipinto. Con un cappotto nero appeso al braccio osservava l’immagine di un esercito di braccianti che avanzava, anch’esso, verso un avvenire carico di illusioni.

    A Barone la figura snella ed elegante del calabrese appariva come un elemento fuori posto, imprigionato in un mondo a cui apparteneva, senza via di scampo, per un diritto che lo braccava fin dal giorno della nascita.

    Si avvicinò al quadro.

    I due rimasero immobili davanti alla tela.

    «Sapevi che i personaggi di quest’opera sono gli amici e i familiari di Pellizza da Volpedo?» domandò Tony ‘u Dottori.

    «Certo, quello al centro è il farmacista del paese. Il Pellizza ci perdeva le giornate a farsi grandi seghe mentali sul socialismo e sul futuro della classe operaia. La donna a destra, invece, è sua moglie. La poveretta è morta male all’inizio del Novecento dopo aver partorito il loro terzo figlio.»

    «Da oggi in poi, qualsiasi ordine che riguardi gli affari di famiglia deve superare la mia approvazione», disse ‘u Dottori. «Non importa come ti arriva la ‘mbasciata, chi te la comunica o da chi ti dicono che provenga. Si fa quello che dico io. Niente discussioni, niente minchiate, nient’altro. Capiscisti

    Antonino Alfieri osservò ancora una volta i dettagli del capolavoro.

    Senza attendere risposta si voltò e abbandonò la sala.

    ***

    Un’agente di polizia penitenziaria verificò i dati sul documento d’identità, accarezzandosi le sopracciglia marcate da una linea di matita nera. Antonino Alfieri vergò una firma leggibile tra le righe del fascicolo che registrava i nomi dei familiari ammessi a colloquio. Dietro le sue spalle un anziano che parlava un siciliano stretto, e vestiva una giacca di velluto a coste larghe, attendeva il turno nella fila.

    Il figlio di don Rocco fu condotto in una stanza laterale da due solidi secondini di sesso maschile. Uno di loro teneva al guinzaglio un pastore tedesco. Gli chiesero di spogliarsi e fecero annusare al cane gli abiti posati sul pavimento: non importava che la visita al camoscio si svolgesse dietro un vetro. All’esterno udì l’anziano siciliano urlare violente imprecazioni. Malediceva le guardie per quella che considerava un’inutile umiliazione.

    Uno degli uomini in divisa incrociò lo sguardo di Antonino.

    «Sono le regole, Alfieri», sottolineò, sganciando un mazzo di chiavi dal passante dei pantaloni.

    Inforcarono un andito illuminato da lampade giallastre. Scesero nei sotterranei del padiglione destinato all’alta sicurezza. Percorsero un labirinto, dominato da alti muri grigi, che si snodava senza un senso logico. Era stato progettato per disorientare il visitatore, impedendogli di memorizzasse la planimetria della struttura. Superarono sbarre e altre sbarre, porte blindate e altre porte blindate, fino a quando, in fondo a un corridoio, riconobbe la stanza dove ogni settimana, dietro una lastra di cristallo spessa cinque centimetri, incontrava il fratello. Varcò l’ingresso e si sedette davanti a un tavolo di legno che riemergeva dall’altro lato della barriera trasparente. Poggiò gli occhi sull’interfono nero appeso alla sua destra.

    Domenico Alfieri, inteso Micu Bang Bang, apparve dopo qualche minuto. Richiuse la porta che conduceva al padiglione dell’alta sicurezza. Svelò il bianco dei denti e si sedette di fronte al sangue del suo sangue.

    Micuzzu era allegro e ben curato, come abitudine e come si addiceva alla condotta di un affibbiato del suo peso. Dalla forza dimostrata nell’affrontare la detenzione dipendevano l’onore e il prestigio degli Alfieri in quanto ‘ndrina pesante, dentro la Società e fuori da essa. Portava un dolcevita nero che metteva in risalto il volto rasato, i capelli ondulati, e lo sguardo affilato che pareva attraversare le persone.

    Si trovava in seminario per un traffico di droga, una vecchia storia. L’avevano condannato assieme a una legione di altri imputati dallo stesso cognome. A lui erano toccati sette anni, ma il magistrato – un uomo che aveva sacrificato ogni gioia della vita all’obiettivo di distruggere gli Alfieri e ciò che essi rappresentavano – non era riuscito a provare l’associazione e a seppellirlo vivo dentro quelle quattro mura.

    Non si era arreso, il pubblico ministero. Negli ultimi mesi aveva armato una tragedia grazie alle delazioni di un parente stretto di niente che si era buttato

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