L'estraneo e altri racconti
Di AA. VV.
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Info su questo ebook
La paura regna sovrana e i creatori di questo libro hanno deciso di renderle omaggio con una selezione di racconti scritti da autori unici e famosi che hanno dato vita al genere horror, gotico e soprannaturale, in un viaggio emozionante a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento.
H. P. Lovecraft, Edgar Allan Poe, Saki, Bram Stoker, Robert W. Chambers e William Wymark Jacobs, con la loro maestria, terranno i lettori con il fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina.
Buoni brividi a tutti!
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Anteprima del libro
L'estraneo e altri racconti - AA. VV.
AA. VV.
L’ESTRANEO E ALTRI RACCONTI
(ANTOLOGIA DI RACCONTI HORROR)
Antologia di racconti dell’orrore.
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Halloween è la festa più occulta dell’anno: spiriti, fantasmi, streghe, poltergeist...
La paura regna sovrana e i creatori di questo libro hanno deciso di renderle omaggio con una selezione di racconti scritti da autori unici e famosi che hanno dato vita al genere horror, gotico e soprannaturale, in un viaggio emozionante a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento.
Buona lettura e buoni brividi!
Ho paura della paura.
Paura degli spasmi del mio spirito che delira, paura di questa orribile sensazione di incomprensibile terrore.
Ho paura delle pareti, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano di una specie di vita animale.
Ho paura soprattutto del disordine del mio pensiero, della ragione che mi sfugge annebbiata, dispersa da un’angoscia misteriosa.
(Guy de Maupassant)
L’ESTRANEO E ALTRI RACCONTI
HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT
lovecraft.jpgPassato alla storia come H. P. Lovecraft, l’autore nasce il 20 agosto 1890 a Providence, nel Rhode Island.
Entrambi i genitori sono caratterialmente instabili e a soli sette anni Lovecraft perde il padre, che muore internato in un ospedale psichiatrico: le conseguenze psicologiche del lutto si rifletteranno in tutte le sue opere.
Dopo la perdita del padre, è il nonno materno a prendersi cura del giovane autore e non appena si rende conto che il nipote è un piccolo genio (Lovecraft sapeva infatti già leggere dalla tenera età di tre anni) lo inizia alla scienza, all’astronomia, alla filosofia, alla letteratura greco latina, ai miti orientali e del mondo arabo.
Nel 1904, dopo la morte del nonno, la famiglia Lovecraft è preda di gravi difficoltà finanziarie, che la costringono a cambiare città.
Questo repentino mutamento porta Lovecraft a un esaurimento nervoso per il quale non è mai stato in grado di terminare gli studi.
Ma Lovecraft non si arrende: inizia a scrivere poesie e continua a studiare astronomia.
Dopo le prime pubblicazioni entra a far parte della National Amateur Press Association e inizia a pubblicare brevi storie fantasy.
È in questi anni che la madre cade vittima di un esaurimento nervoso e finisce in una clinica psichiatrica, dove muore nel 1921.
L’impatto del lutto è tremendo e spinge Lovecraft a cercare conforto fuori dalla solitudine.
È così che durante un convegno per giornalisti dilettanti a Boston incontra Sonia Haft Greene, un’ebrea russa di sette anni più vecchia di lui, e se ne innamora.
Vivono a Brooklyn per qualche tempo, si sposano nel 1924 e tutto fila alla perfezione fino a quando Lovecraft rinuncia a una pubblicazione per non trasferirsi a Boston, il negozio di cappelli di Sarah fallisce e la donna viene ricoverata in ospedale per diversi mesi.
Ridotti sul lastrico, i coniugi si separano quando Sarah accetta un lavoro a Cleveland.
Lovecraft ricade in una profonda depressione e ricomincia a isolarsi sviluppando anche una crescente avversione misantropica e a tratti xenofobica, e scrivendo racconti sempre più cupi.
Nel 1924 ritorna a Providence, città che gli mancava moltissimo e va a vivere dalle sorelle della madre.
Gli ultimi dieci anni della vita di Lovecraft sono anche i più prolifici.
Oltre a gestire l’impressionante mole di corrispondenza con amici e colleghi sparsi per tutti gli Stati Uniti, Lovecraft visita numerosi siti archeologici e scrive alcuni dei suoi indiscussi capolavori nonché numerosi saggi di economia, scienze e politica.
Nel 1936, quando rimane sconvolto dalla notizia del suicidio dell’amico fraterno Robert H. Howard, il creatore di Conan il Barbaro, Lovecraft scopre di avere un cancro all’intestino a uno stadio avanzato, tuttavia rifiuta di farsi ricoverare fino al 10 Marzo 1937.
Muore cinque giorni più tardi, entrando nella storia della letteratura Americana senza avere mai pubblicato un solo libro.
L’ESTRANEO
(Howard Phillips Lovecraft)
Quella notte il Barone sognò di molte disgrazie.
E tutti i suoi ospiti guerrieri, con ombra e forma di strega, e demone, e grosso verme da bara, sarebbero stati incubi a lungo.
(John Keats)
Infelice è la persona alla quale i ricordi dell’infanzia portano solo paura e tristezza.
Disgraziato è colui che torna col pensiero alle ore solitarie in tetri stanzoni dai tendaggi bruni e dalle esasperanti file di libri antichi, o alle timorose veglie crepuscolari nei giardini di giganteschi alberi grotteschi, carichi di rampicanti, che silenziosamente ondeggiano con rami contorti verso l’alto, distanti.
Un tale destino gli dèi hanno donato a me, a me, lo stupefatto, il deluso, lo sterile, lo spezzato.
Eppure stranamente sono soddisfatto, e mi aggrappo disperatamente a quei ricordi avvizziti, quando la mia mente per un momento minaccia di andare oltre, verso l’altro.
Non so dove sono nato, a parte il fatto che il castello era infinitamente vecchio e infinitamente orribile, pieno di passaggi bui e con alti soffitti su cui l’occhio poteva trovare soltanto ragnatele e ombre.
Le pietre nei corridoi fatiscenti sembravano sempre orrendamente umide e vi era un detestabile fetore ovunque, come di cadaveri accatastati di morte generazioni.
Non vi era mai luce, così a volte avevo l’abitudine di accendere delle candele e di fissarle immobile per confortarmi: nemmeno vi era sole all’esterno, dato che alberi tremendi crescevano alti al di sopra della più alta torre accessibile.
Vi era una torre nera che saliva più in alto degli alberi nello sconosciuto cielo esteriore, ma era parzialmente in rovina e non vi si poteva salire tranne che con una scalata quasi impossibile del muro a strapiombo, pietra dopo pietra.
Devo aver vissuto per anni in questo luogo, ma non saprei quantificare il tempo.
Qualche creatura deve aver badato ai miei bisogni, eppure non posso ricordare nessuno tranne me stesso o niente di vivo se non i silenziosi ratti, i pipistrelli e i ragni.
Penso che chiunque mi abbia nutrito debba essere stato sorprendentemente vecchio, dato che la mia prima concezione di una persona vivente era quella di qualcosa di beffardamente simile a me, seppure distorto, raggrinzito e in decomposizione come il castello.
Per me non vi era niente di grottesco nelle ossa e negli scheletri che erano disseminati su alcune pietre delle cripte, in profondità tra le fondamenta. Le associavo in modo fantastico agli eventi di ogni giorno, e li consideravo più naturali delle immagini colorate degli esseri viventi che trovavo in molti libri ammuffiti.
Da quei libri imparai tutto quello che so.
Nessun insegnante mi ha incoraggiato o guidato, e non ricordo di aver udito alcuna voce umana in tutti quegli anni, nemmeno la mia perché sebbene avessi letto della parola, non avevo mai pensato di parlare ad alta voce.
Anche il mio aspetto era una questione ugualmente impensata, perché non vi erano specchi nel castello, e avevo considerato me stesso puramente per istinto come simile alle figure giovanili che vedevo disegnate e dipinte nei libri.
Mi sentivo consapevole della giovinezza perché ricordavo così poco.
All’esterno, attraverso il fossato putrido e al di sotto degli oscuri alberi muti, avevo spesso giaciuto, e sognato per ore di ciò che avevo letto nei libri: con desiderio immaginavo me stesso in un’allegra folla nel mondo soleggiato al di là della foresta infinita.
Una volta tentai di fuggire dalla foresta ma appena arrivai oltre il castello l’ombra divenne più densa e l’aria piena di terrificante minaccia, così che fuggii freneticamente indietro per timore di perdere la strada in un labirinto di notte e di silenzio.
Così attraverso incessanti crepuscoli sognavo e aspettavo, sebbene non sapessi cosa stavo aspettando.
Poi nella solitudine piena di ombre il mio desiderio di luce divenne così febbrile che non potevo più attendere, e alzai le mani imploranti all’unica nera torre in rovina che si ergeva oltre la foresta nell’incognito cielo esteriore.
E alla fine decisi di scalare la torre, anche se fossi caduto, dato che era meglio intravedere il cielo e perire che vivere senza aver mai visto il giorno.
Nell’umido crepuscolo scalai le consunte e vetuste scale di pietra fino a raggiungere il punto in cui terminavano, e da allora in poi mi aggrappai pericolosamente a piccoli appigli rivolti verso l’alto.
Agghiacciante e terribile era quel morto cilindro di pietra senza scale: nero, in rovina, abbandonato e sinistro, con pipistrelli stupefatti le cui ali non facevano rumore.
Ma più agghiacciante e terribile ancora era la lentezza del mio progredire.
Per quanto mi sforzassi nella salita, l’oscurità sopra il mio capo diventava più spessa, e un nuovo brivido mi assalì come se forme stregate e venerande mi avessero assalito.
Rabbrividii mentre mi meravigliavo del perché non raggiungessi la luce, e avrei guardato in giù se ne avessi avuto il coraggio.
Immaginai che la notte fosse giunta rapida su di me, invano cercavo a tentoni, con una mano libera, la feritoia di una finestra, per poter sbirciare al di fuori e al di sopra, e tentare di giudicare l’altezza che avevo raggiunto.
All’improvviso, dopo un’infinità di grandiose e cieche contorsioni su per quel concavo e disperato precipizio, sentii che la mia testa aveva toccato qualcosa di solido e capii che dovevo aver raggiunto il tetto, o almeno un qualche tipo di pavimento.
Nell’oscurità sollevai la mano libera ed esaminai la barriera, trovandola di pietra e inamovibile.
Allora cominciò un giro mortale della torre, nel quale mi afferrai