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Manichini
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E-book174 pagine2 ore

Manichini

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Info su questo ebook

Un pomeriggio in famiglia si trasforma in una lotta per sopravvivere. SPARKS, un nuovo ipermercato, diventa improvvisamente scena del conflitto tra la vita e la morte. Tra umani e manichini. Samuel Stanford non avrebbe mai pensato che, varcata quella soglia, sarebbe stato così difficile uscirne vivo. Cercando il modo di fuggire da un dedalo di corridoi tutti uguali, la corsa di Samuel diventa una metafora della condizione umana. Cosa vuol dire essere umani? Una famiglia o un lavoro possono qualificarci come tali? Questo Samuel se l’è sempre chiesto. E, presto, otterrà una risposta.

Niccolò Palombo è nato a Genova il 5 settembre del ‘95. Laureato in giurisprudenza, attualmente lavora in uno studio legale occupandosi di diritto penale.
Fin da bambino è sempre stato appassionato alla letteratura fantastica e dell’orrore. Tra i suoi scrittori preferiti annovera H.P. Lovecraft e Clive Barker. Gestisce un blog, www.paroleepaura.it, nato per approfondire i temi della letteratura horror e le sue declinazioni attraverso la voce dei loro migliori autori.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2022
ISBN9791222010816
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    Anteprima del libro

    Manichini - Niccolò Palombo

    MANICHINI

    Niccolò Palombo

    immagine 1

    PARTE I

    quando la routine di Samuel Stanford si spezzò

    ​I

    SPARKS

    Non c’è molta gente per essere un sabato pomeriggio.

    Guardando fuori dalla vetrata opaca e immensa di SPARKS, il nuovo centro commerciale dove si era ritrovato quel pomeriggio assieme a moglie e figli, Samuel Stanford si era messo a pensare a chi diavolo glielo avesse fatto fare di trovarsi in un posto del genere in un sabato radioso come quello.

    Malgrado l’ipermercato fosse tappezzato dei soliti cartelli minacciosi – VIETATO FUMARE, VIETATO PORTARE CANI, VIETATO SOSPIRARE – a Sam non importava un granché essere richiamato da qualche guardia giurata o dagli altri sventurati clienti. Per questo motivo aveva attaccato voracemente il suo pacchetto di Marlboro rosse ormai prossimo alla fine e si era ritrovato a fumare seduto su di una panchina di plastica verde, lanciandosi di tanto in tanto qualche occhiata intorno per evitare brutte sorprese.

    Me lo devono. Eccome se me lo devono. Già devono ringraziarmi di essere qui a buttare via soldi e tempo.

    Ultimamente, Samuel aveva ripreso a macinare pacchetti su pacchetti in quantità industriale. Era ben consapevole che non fosse un bagno di salute. Solo che, per quanto provasse a resistere al richiamo suadente di una boccata di tabacco, si accorgeva di essere totalmente impotente.

    Per questo, quando sua moglie o qualcun altro glielo faceva notare, lui solitamente rispondeva con un’alzata di spalle. Ai più temerari, cioè a chi si azzardava a chiedergli il motivo di quel vizio ritrovato, rispondeva che non ne avesse idea.

    Bugia.

    Grossa bugia.

    La verità era che il suo lavoro, ossia il medico, lo aveva stufato. Come tutte le cose della vita, pensava il signor Stanford, anche le professioni che possono sembrare più nobili a un certo punto perdono il loro fascino e si trasformano in stress inutile. Non importa quanto qualcuno possa desiderare qualcosa, l’unica verità è che desiderio e apatia a un certo punto sono destinati a incontrarsi e andare a braccetto l’uno con l’altra nella stessa identica direzione.

    Possono essere i fini più nobili. I rapporti migliori.

    Le aspettative e le speranze migliori si trasformavano, con la monotonia, in un’unica cosa.

    Stress.

    Colleghi idioti, pazienti idioti, mogli rompicoglioni, sabati sprecati.

    Cartelli.

    Sospirò, buttando fuori un torrente di fumo denso che andò a perdersi in strane volute oltre la sua testa.

    Si era svegliato quella mattina con l’idea che il massimo sforzo che avrebbe compiuto quella giornata sarebbe stato andare al parchetto vicino a casa con i suoi figli. Invece eccolo lì, seduto su di una panchina con un mucchio di sacchi colmi di vestiti in un centro commerciale – è un ipermercato, Sammy – immerso in un oceano di parcheggi grigio asfalto, ben lontano dal suo divano e dalla sua TV.

    Quantomeno era tranquillo che la sua macchina, nel posteggio coperto al piano terra, non avrebbe patito i capricci di quel sole cocente. E che, soprattutto, nessuno di loro quattro sarebbe soffocato durante il viaggio di ritorno.

    Appena sveglio, Samuel Stanford aveva accolto la notizia che il pomeriggio tutta la famiglia avrebbe fatto un giro al nuovo ipermercato quasi come se fosse un lutto. La conseguenza era stata che, fino a quando non avevano messo piede in macchina, l’uomo aveva passato il suo tempo a imprecare a denti stretti. E a chiedersi perché Bonnie, sua moglie, non si fosse degnata a suo tempo di prendere la patente.

    Così ci sarebbe andata da sola, la stronza.

    Non mi sento sicura, Samuel. Non mi piace guidare, mi mette ansia.

    Sì, certo, l’ansia. Un mucchio di stronzate.

    «La prossima volta prenderà un taxi o farà un dannatissimo autostop, sissignore che lo farà» borbottava rivolto verso il nulla, constatando che anche quella sigaretta fosse durata davvero poco.

    Sbottonò un altro bottone della camicia con uno sbuffo; il sole filtrato dalla vetrata metteva in luce l’ondeggiare leggero del pulviscolo che infesta ogni luogo chiuso sulla terra, per quanto nuovo possa essere, e tutto acquisiva i caratteri di un forno rovente. L’ideale, pensava Samuel, per la sua emicrania. Andava e veniva da qualche giorno, senza un’apparente spiegazione. L’uomo aveva dato la colpa alla luce snervante e monotona del suo computer.

    «Papà, papà, dove è la mamma?» chiese Angela Stanford, guardando speranzosa suo padre. Era spuntata dal nulla, quasi facendolo trasalire. «Ho fame!»

    «Non lo so. Sarà a prendersi qualche vestito. Tu che ne dici? Strano, vero, in un posto che vende vestiti?» L’ultima cosa di cui aveva bisogno Sam era sentire la vocina stridula e fastidiosa di sua figlia Angela – per tutti Angie, Angie come nella canzone degli Stones. Mentre, con tutta probabilità, la bambina cercava di intuire dal tono della voce di suo papà se fosse stata presa o meno in giro, Sam buttò a terra la sigaretta e la schiacciò con la suola.

    Malcolm, l’altro suo figlio, si era appena staccato da una vetrina colma di videogiochi. Mentre si dirigeva verso la panchina dove era seduto Sam, mimò il gesto dello strangolamento, rivolgendosi verso suo padre. Samuel era consapevole che, a differenza di sua sorella, non gli sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di non farsi notare.

    «Papà, perché non la smetti di fumare? Lo sai che fa venire il cancro?»

    Sam guardò il figlio. La faccia da schiaffi l’aveva certamente ereditata da sua madre, non da lui. E su questo non c’era alcun dubbio. Non che il signor Stanford avesse mai picchiato sua moglie o i suoi figli, chiaramente. Però ogni tanto Malcolm aveva proprio una faccia da far prudere le mani a chiunque, soprattutto quando guardava dritto negli occhi i suoi genitori – chiunque, in realtà – con aria di sfida. Chissà cosa sarebbe successo quando sarebbe diventato adolescente?

    Stress.

    «Certo che lo so. Sono un dottore, no?»

    «E allora perché fumi?»

    «Ti hanno mai detto che a farsi gli affari propri si vive cento anni?»

    «Si vive cento anni anche senza il cancro, papà».

    Bene. Cosa voleva saperne un moccioso arrogante di neanche dodici anni del cancro? Sam tolse il berretto dalla testa di suo figlio e lo lanciò come un frisbee. «Andate a giocare».

    «E dove?» obiettò Malcolm.

    «Sì, dove? Non ci sono giochi per bambini qui» gli venne dietro Angela.

    «Di questo dovete lamentarvi con vostra madre. Fosse stato per me, col cazzo che mi sarei chiuso qui dentro».

    «Mamma dove è?»

    Cristo.

    «Non lo so, Malcolm. L’ho già detto a tua sorella. Si sarà rintanata da qualche parte per non avervi intorno».

    «Davvero?» Angela questa volta non si curò di palesare il suo dubbio ad alta voce. D’altronde non si stava parlando di papà, ma della mamma. La mamma.

    Malcolm invece alzò gli occhi al cielo.

    «Ti ricordo che hai ancora un berretto da raccogliere, campione. Sì, campione, come dicono i papà nei telefilm. Non vorrai mica che lo trovi un altro bambino prima di te, vero?»

    Per tutta risposta Malcolm sbuffò e si girò pestando i piedi per terra, poi corse dietro al suo amato berretto. Angie gli venne dietro.

    Stress.

    Mentre guardava i figli che bisticciavano qualche panchina più in là, constatando come – per fortuna – ai bambini non servissero per forza delle altalene per divertirsi, Samuel svuotò il contenuto di una bottiglietta d’acqua senza il minimo sforzo.

    Manco fosse il Sahara, questo cazzo di posto.

    Lasciando che le sue labbra secche tornassero a nuova vita grazie all’umidità, l’uomo guardò l’orologio lasciandosi sfuggire un altro sbuffo. Le lancette sul quadrante battevano le cinque e mezza passate, testimonianza che fosse chiuso lì dentro ormai da più di tre ore. Tutto perché Bonnie si era svegliata con un piede storto.

    No. Probabilmente erano giorni che pensava a quella bella gita fuori porta, solo che – chissà perché – o faceva tutto all’ultimo o non faceva proprio nulla.

    Dobbiamo prepararci per l’autunno, Sammy.

    Cosa diavolo vuol dire prepararsi per l’autunno?

    Sam immaginò lui e la sua famiglia: viaggiavano serrati in una lunga carovana con i carri rivestiti di pelli di bufalo, mentre cercavano di sopravvivere con tutte le loro forze alle intemperie degli autunni nevosi del Montana. Quest’immagine lo fece sorridere.

    Bonnie non era nuova a fare di tutto una tragedia. E la cosa poteva avere anche i suoi lati comici. Meglio scherzarci su, pensava sempre tra sé e sé l’uomo.

    Quando sua moglie ci si metteva davvero era quasi impossibile non farsi del sano nervoso e iniziare a litigare. E poi a innervosirsi di nuovo perché madre natura – questo Sam lo pensava da un po’, ma non l’avrebbe mai confessato ad anima viva nemmeno sotto tortura – a quanto pare non aveva dotato Bonnie di un cervello eccelso.

    Sam non tollerava il fatto che lei non capisse che quello era un periodo particolarmente delicato per lui. Aveva sentito parlare delle crisi di mezza età prima, ma ora ne stava sperimentando una in tutta la sua forza.

    Grazie a svariati anni di esperienza coniugale sulle spalle – ogni tanto li rimpiangeva, così come ogni tanto si sentiva in colpa di pensare certe cattiverie su sua moglie – il signor Stanford aveva sviluppato le sue armi di difesa per ogni evenienza. Anche per gli inutili allarmismi e le richieste di attenzioni.

    Chi è più capriccioso tra Bonnie e Angela?

    Ridacchiò .

    Oggi però non aveva la benché minima voglia di discutere con nessuno. Si pregustava già la partita che avrebbe visto una volta tornato a casa. E no, non ci sarebbe stato per nessuno. A loro rischio provare a importunarlo.

    Chi gioca? I Patriots contro i Bulls? O forse era Denver?

    Non si scervellò più di tanto, preferendo rimandare la sorpresa a casa, sul divano.

    Mentre Sam si accarezzava le guance con la mano callosa, rimuginando sul fatto che avrebbe dovuto farsi la barba a breve, vide Bonnie Stanford uscire da un negozio.

    La donna si guardò un po’ in giro, allungando il collo. Chiunque avesse visto quella scena – i pensieri di suo marito erano subito andati in quella direzione – avrebbe senza ombra di dubbio pensato a Nessie che esce dal lago di Lochness. La donna aveva sempre avuto un collo particolarmente lungo e, tutte le volte che lo metteva in mostra, sembrava una specie di sauro preistorico.

    Un brontosauro. O una giraffa.

    Brontosauro o giraffa, non faceva grande differenza.

    La signora Stanford non era una bella, ma neppure brutta; era una donna di quasi mezz’età che passava perfettamente inosservata dovunque decidesse di andare – certe volte anche in casa sua – e che rappresentava perfettamente il prototipo della mediocrità offerta dalla Gravesbury High School.

    Un naso appuntito era evidenziato da sopracciglia scure e capelli corvini, fisico asciutto e corpo slanciato, ma senza particolare volume. E no, davvero non era brutta: se qualcuno avesse voluto descriverla in un aggettivo, forse avrebbe utilizzato il termine banale.

    Fu esattamente così che era apparsa a Sam la prima volta che l'aveva vista appoggiata al muro di un corridoio della loro vecchia scuola e fu nuovamente così che gli apparve ancora, a distanza di anni, mentre avanzava verso di lui con due sacchetti colmi di vestiti per braccio e un paio di ballerine lucide ai piedi, eccezionalmente lunghe per trattarsi di scarpe da donna. Camminava con aria soddisfatta, senza nemmeno guardare dove metteva i piedi.

    Quali delizie ci propinerà adesso?

    Bonnie sorrise a suo marito e lui ricambiò. «Dove sono Angie e Malcolm?» domandò poi con una punta d’ansia nel tono di voce.

    «Stanno giocando laggiù» rispose distrattamente Sam indicandoli con il pollice, senza manco voltarsi a guardarli. «Quindi?»

    «Come?»

    «Quindi, cosa hai comprato?» Non che gli interessasse veramente saperlo. Quella era la classica domanda di rito che faceva tutte le volte a sua moglie dopo che comprava qualcosa: d’altronde voleva – a essere più precisi,

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