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L'incredibile storia di Roma antica
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E-book800 pagine11 ore

L'incredibile storia di Roma antica

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Info su questo ebook

Segreti, condottieri, personaggi, sfide e grandi battaglie

La storia di Roma è la somma di tante storie epiche e memorabili, gesti disperati, eroici, spregiudicati, di protagonisti disposti a tutto pur di affermare la propria ambizione, ma anche il dominio sul mondo di una città capace di superare le più atroci disfatte e le difficoltà più estreme. Gli episodi accertati storicamente non sono meno straordinari di quelli prodotti dal mito, i protagonisti non meno passionali degli dèi che veneravano. Dalla cacciata dei re all’aggressione di Pirro, dalle Guerre puniche a quelle civili, da Cesare ad Augusto, passando attraverso le dinastie Giulio-claudia, Flavia, Antonina, fino alla crisi del III secolo, per arrivare alle innovazioni di Costantino e ai generalissimi barbarici dell’ultimo periodo: Andrea Frediani racconta, con voce da narratore, i momenti e i protagonisti cardine di un’epopea che ha prodotto eroi ed eventi meravigliosi, con una frequenza difficilmente riscontrabile in altre epoche.

Un autore da 1 milione di copie

Da Romolo a Cesare, da Augusto a Costantino 
Epica, memorabile, senza eguali
La storia diventa leggenda

«Frediani è un grande narratore di Roma antica.»
Corrado Augias

«Andrea Frediani accompagna i lettori a conoscere una civiltà straordinaria. Senza perdersi in luoghi comuni e tenendo fede alla correttezza della ricostruzione storica.»
Il Venerdì di Repubblica

Tra i grandi momenti raccontati:

• 753 A.C. LA FONDAZIONE • I SETTE RE • L’ETÀ GLORIOSA DELLA REPUBBLICA • LE GUERRE PUNICHE E LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE • LE LOTTE PER IL POTERE: MARIO E SILLA, GIULIO CESARE E POMPEO, OTTAVIANO E ANTONIO • AUGUSTO E LA NASCITA DELL’IMPERO • I GIULIO-CLAUDII, LA PRIMA DINASTIA • VESPASIANO E LA DINASTIA DEI FLAVI • DA TRAIANO A MARCO AURELIO AI SEVERI • DIOCLEZIANO E LA TETRARCHIA • COSTANTINO E L’AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO • I GOTI E LE INVASIONI BARBARICHE • ATTILA E LA CALATA DEGLI UNNI • I GENERALISSIMI: FINO ALLA DEPOSIZIONE DI ROMOLO AUGUSTOLO
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e Romani, Le grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma; 300 guerrieri, 300. Nascita di un impero e I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta, Guerra sui mari, Sfida per l’impero). L'ultimo pretoriano e L'ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788854199545
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    Anteprima del libro

    L'incredibile storia di Roma antica - Andrea Frediani

    Introduzione

    Mi chiedono spesso, pressoché in ogni conferenza o intervista, perché la storia di Roma antica attiri tanto pubblico. Non la storia in generale, ma quella di Roma. Col tempo, ho preso l’abitudine di replicare invitando l’interlocutore a chiedersi il perché di una domanda del genere. Di fronte alla sua espressione attonita, tengo a precisare che non mi avrebbe fatto una richiesta simile se a scuola gli avessero insegnato la storia come si deve: non come un insieme di date e dati, quindi, ma tenendo sempre presente il suo assoluto protagonista ovvero l’uomo.

    La storia è, prima di tutto, la narrazione delle vicende umane, delle passioni, delle ambizioni, degli odi, degli amori e degli ideali di quegli uomini che, spesso, sono stati in grado di mobilitare masse e paesi interi con la loro determinazione. È la vicenda di quei personaggi che hanno causato un pronunciato effetto farfalla, ben conosciuto dagli appassionati di fantascienza e di ucronia, determinando con le loro decisioni e gesta il corso degli eventi. Per fare un esempio, Costantino i il Grande non sarebbe neppure dovuto essere imperatore, perché figlio bastardo di un tetrarca. Eppure grazie alla sua ambizione – diciamo pure alla sua mancanza di scrupoli – lo divenne, arrivando a imporre la propria sovranità su tutto l’impero e a sdoganare la religione cristiana, fino ad allora avversata dallo Stato (o che avversava lo Stato, dipende dai punti di vista), aprendo quel cammino che l’avrebbe portata di lì a poco a diventare religione ufficiale di Roma.

    Puntando su Cristo, e puntando anche sulle reclute barbariche per riempire i vuoti dell’esercito, Costantino intervenne in modo determinante su un impero morente, che prima di lui e Diocleziano aveva avuto venticinque imperatori in un sessantennio e che era oppresso dai barbari lungo tutte le frontiere. Poi fondò Costantinopoli, l’attuale Istanbul, spostando a oriente il baricentro del suo potere. Grazie a queste innovazioni, la parte occidentale sopravvisse ancora un secolo e mezzo, ma quella orientale, assumendo col tempo la denominazione di bizantina, sarebbe durata ancora undici secoli, fino alla vigilia della scoperta dell’America. Undici secoli: esattamente quanti ne era durata Roma fino ad allora, partendo dalla data di nascita istituzionale del 753 a.C.

    Niente male, per un impero in declino. Ma quel che più importa rilevare in questa sede è che senza l’iniziativa di Costantino non ci sarebbe stato un impero d’Oriente con una capitale ben scelta come l’antica Bisanzio, nel punto privilegiato di passaggio tra Europa e Asia, e quindi neppure un impero di matrice greco-romana-cristiana. Di conseguenza, per tutto il Medioevo sarebbe mancato all’Europa l’unico baluardo contro l’avanzata araba prima, turca in seguito. E nelle epoche buie, in cui gli Stati nazionali erano acerbi o inesistenti, e il Sacro romano impero – istituito, si badi bene, due secoli dopo la comparsa di Maometto – spesso indebolito da guerre civili o da sovrani puramente rappresentativi, difficilmente gli eserciti del vecchio continente si sarebbero potuti opporre alle sterminate armate di califfi e sultani; non a organizzazioni terroristiche, vale la pena di precisare, ma ad armate motivate e ben equipaggiate. Vi riuscì Carlo Martello a Poitiers, ma quando ormai gli arabi avevano perso la loro spinta propulsiva, anche a causa delle guerre sostenute contro i bizantini.

    Quando poi, alle soglie dell’Età Moderna, l’impero ottomano si liberò della spina nel fianco rappresentata da Bisanzio, l’Europa si era ormai attrezzata ed era in grado di difendersi; l’impero asburgico era potente e gli stati nazionali coesi intorno alle loro monarchie, e poterono pertanto infliggere sonore scoppole ai musulmani, a Vienna, a Lepanto e di nuovo a Vienna, tra il Cinquecento e il Seicento. Il turco si prese la Grecia e parte dell’Europa orientale, ma troppo tardi per cancellarne l’identità precedente, come poté fare in Asia. Senza Costantinopoli, la città voluta da Costantino il Grande, forse al termine della Prima guerra mondiale gli Alleati anglo-francesi, che si divertirono, con grande scandalo di Lawrence d’Arabia, a tracciare delle righe dritte sulla carta geografica per creare degli stati dalla dissoluzione dell’impero ottomano, avrebbero fatto altrettanto per una parte dell’Europa.

    E se non se ne vuole fare un conflitto religioso tra cristianità e Islam, allora facciamolo tra civiltà: l’Europa, senza Costantino, sarebbe stata uno scacchiere islamico da molto, moltissimo tempo.

    Ecco, questo potrebbe essere, portato alle estreme conseguenze e considerando il lunghissimo periodo, l’effetto farfalla di un personaggio come Costantino. Ed ecco, dunque, perché mi stupisce che mi chiedano come mai al pubblico piaccia la storia di Roma. Io mi stupirei del contrario, a dir la verità. Ma io la storia la studiavo per conto mio, a scuola: sapevo che non poteva essere tutta lì, nelle distaccate e fredde descrizioni dei libri di testo, nelle noiose lezioni dei docenti, che parlavano di processi economici e sociali, presentavano cronologie, descrivevano questioni istituzionali e amministrative, dimenticandosi delle sfide che gli uomini affrontavano con se stessi e con i loro avversari. E così ho appreso che la storia è avvincente. Tanto avvincente.

    Chiarito questo punto, siamo ora pronti per affrontare la domanda di partenza: perché i romanzi sulla storia di Roma, in particolare, hanno tanto successo? La risposta non mi ha mai visto esitare: perché la gente ha tanto bisogno di eroi e, non trovandone nella nostra società, e soprattutto nella nostra politica, se li va a cercare nel passato. Nel lontano passato, anzi: perché basta conoscere un po’ di storia di Roma antica per sapere che si tratta di uno dei pochi contesti nei quali i fatti e i personaggi reali, storicamente accertati e documentati, se pur in maggiore o minore misura, sono eroici, avventurosi, grandi, esaltanti, straordinari, meravigliosi, quanto se non più di quelli rappresentati nei poemi omerici e nel mito in generale.

    Tutti gli appassionati di fiction con un buon grado di cultura conoscono Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Si tratta di un saggio illuminante sul modo di scrivere una sceneggiatura, che dimostra come pressoché ogni trama di un film, intenzionalmente o meno, si rifaccia agli archetipi della mitologia greca, seguendo i momenti fondamentali del viaggio di un protagonista alla scoperta di se stesso e al superamento dei propri limiti. Ebbene, sotto molti aspetti si tratta di un viaggio che hanno compiuto molti dei personaggi le cui gesta descrivo in questo volume. E proprio per questo sono diventati a loro volta miti, sono entrati nell’immaginario collettivo lasciando un segno indelebile della loro presenza nel mondo, nel bene o nel male.

    Prepariamoci dunque a un viaggio straordinario. Sarà un viaggio evenemenziale, fatto di eventi, di momenti cardine in cui la storia avrebbe potuto prendere un altro corso, di personaggi che ne hanno cambiato il corso. Un viaggio fatto di sfide, soprattutto, di e tra uomini intenzionati a lasciare un segno nella storia. In questo libro non troverete spiegazioni su come funzionava l’amministrazione, descrizioni delle istituzioni e dei loro cambiamenti, analisi della società e delle classi sociali, resoconti su usi e costumi dei romani, dissertazioni sulle dinamiche politiche e sui gruppi di potere. E non perché non siano importanti, ma perché non rientrano tra gli scopi del volume; qui la storia è narrata in forma di avventura, come fosse un romanzo. E in un romanzo contano le sfide e le imprese più straordinarie, anche sacrificando quanto di straordinario e meraviglioso hanno compiuto i romani con le loro opere, dagli edifici ai monumenti, dalle strade agli acquedotti.

    Un viaggio, dunque, che farebbe storcere il naso a molti storici accademici, instancabilmente impegnati a dimostrare che i processi storici sono più importanti dei personaggi, le masse più dei singoli. Ma a noi piace così.

    E al pubblico anche.

    I. Sette re e sette colli

    La prima sfida

    Come iniziare una storia di Roma che si basi sulle sfide? Risposta ovvia: con quella tra Romolo e Remo. Ma meglio ancora, più onesto intellettualmente e più corretto storicamente, sarebbe opportuno esordire affermando che non è mai esistita alcuna sfida tra due fratelli gemelli. Tanto meno, che sia avvenuta il 21 aprile del 753 a.C., data istituzionalmente considerata come quella della fondazione dell’Urbe.

    La prima attestazione dell’esistenza di due gemelli è un gruppo statuario raffigurante la lupa che allatta i due neonati, eretto da due fratelli che svolsero la carica di edili nel 296 a.C.; meno di un secolo dopo, l’annalista Fabio Pittore raccontava la storia di quei neonati nella sua opera, andata perduta. Ma se risaliamo più indietro nel tempo, scopriamo che erano stati i greci, accortisi dell’incredibile ascesa di quella cittadina sul Tevere, a crearle un pedigree che, col tempo, sarebbe diventato sempre più prestigioso. Tra gli elleni del v secolo a.C. circolava infatti la voce che il fondatore dell’Urbe fosse un tale Rhomos, che i romani, però, preferivano chiamare Romolus. Nel secolo successivo i due personaggi si affiancano e, misteriosamente, Romolus diviene il nonno di Rhomos, finché, dopo un altro secolo, costui esce di scena e viene sostituito da Remus, fratello gemello di Romolus.

    In ogni caso, costoro non sono personaggi qualunque, ma i discendenti di una schiatta semidivina. Sono sempre i greci a precisare che le loro ascendenze risalgono nientemeno che a un principe troiano, Enea, il quale subito dopo la caduta della sua città – per convenzione posta nell’anno 1184 a.C. – sarebbe giunto sulle coste del Lazio, avrebbe sposato Lavinia, figlia del re Latino, e fondato Lavinio; di lì suo figlio Ascanio si sarebbe mosso per fondare Alba Longa. E già qui ci inceppiamo, perché una città con questo nome potrebbe non essere mai esistita: il suo nome farebbe invece riferimento a un santuario sui Colli Albani, dove si venerava Iuppiter Latiaris, identificato col re Latino, celebrato da tutti i latini e quindi anche dai romani.

    Ad ogni modo, dopo numerose generazioni, i loro discendenti si sarebbero scannati in una guerra civile: Amulio si impossessa del trono cacciandone il legittimo occupante, il fratello maggiore Numitore, ne uccide il figlio maschio e obbliga la figlia Rea Silvia a divenire vestale, per impedirle di generare figli. Ma la sacerdotessa non riesce a conservare la verginità cui sarebbe tenuta e, che si tratti di uno qualunque, o del dio Marte come sostiene lei, qualcuno la viola, facendole generare due gemelli, che Amulio si affretta a far affogare nel Tevere. Tuttavia in quel momento il fiume è straripato e i servitori del sovrano depongono la cesta con i neonati in una pozza ai piedi del colle Palatino, accanto a un fico detto Ruminale, nella convinzione che moriranno comunque. Invece una lupa li preleva, li porta in una grotta e li allatta; poi un pastore di nome Faustolo li salva, portandoli dalla moglie Acca Larenzia, cui era appena morto un figlio. Ma poiché presso i romani lupa era anche sinonimo di meretrice, non si può escludere che sia stata proprio la poco virtuosa consorte del pastore ad allattarli fin dal primo momento.

    Niente di nuovo, in realtà. I greci non avevano fatto altro che mutuare la loro leggenda dei gemelli Neleo e Pelia, figli di Poseidone e Tiro, abbandonati sulle rive dell’Enipeo e allattati, rispettivamente, da una cagna e da una cavalla. E non potevano non aver sentito parlare di Mosè, di Ciro il Grande e di Sargon di Akkad, tutta gente abbandonata nelle acque e poi salvata. Molti ritengono che la Lupa capitolina, il celebre monumento sul Campidoglio risalente al v secolo a.C., non abbia mai avuto i due gemelli, mentre la stele etrusca della Certosa di Bologna, conservata nel museo cittadino e di un secolo più recente, raffigura una lupa che allatta un solo bimbo.

    Esistono altre versioni della storia, beninteso. Molte altre. Intorno alla metà del iv secolo a.C. un siceliota di nome Callia sosteneva che Romolo fosse figlio di una troiana e del re Latino, e che avesse due fratelli, Rhomos e Telegono. E poi c’è chi riteneva che Romolo fosse figlio unico di una tale Emilia, a sua volta figlia di Enea e Lavinia; e non si capisce, in queste versioni, come abbia fatto Enea, vissuto eventualmente alla fine del ii millennio a.C., ad avere un nipote vissuto, invece, otto secoli prima dell’era volgare.

    Ma non vorrei deludere chi si aspetta le sfide che ho annunciato nell’introduzione. Di tradizioni su questo primo duello ne esistono due. I due fratelli diventano pastori come il padre adottivo e, compiuti i diciotto anni, se ne vanno ad Alba Longa dove liberano la madre, ammazzano Amulio e restituiscono il trono al nonno Numitore. A quel punto i due gemelli tornano dove erano stati salvati con l’intenzione di fondare una nuova città, affidando all’avvistamento degli avvoltoi la decisione su chi ne sceglierà il nome: ma dopo un’adolescenza trascorsa a salvarsi la vita a vicenda, l’ambizione li divide fino a trasformarli in rivali. Remo, appostato sull’Aventino, li vede prima, ma Romolo, che si trova sul Palatino, ne avvista il doppio del fratello, dodici contro sei. I gemelli, evidentemente, si sono dimenticati di stabilire il criterio per la vittoria: temporale o numerico? Così ne nasce una zuffa tra opposte fazioni, che potremmo prefigurare come la prima guerra civile della storia di Roma: la prima di tante che hanno determinato la sua caduta, dodici secoli dopo questo leggendario episodio, più ancora delle invasioni dei nemici interni. I due partiti se le saranno date di santa ragione, forse non con gli stessi, potenti mezzi che avrebbero avuto a disposizione Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio, Vespasiano e Vitellio, Costantino e Licinio, Ricimero e Antemio, ma di sicuro con la stessa veemenza, se Remo ci rimase secco, non si sa se per mano dello stesso fratello o di un suo scagnozzo di nome Celere.

    Tuttavia l’altra versione, che in verità è più diffusa, racconta di un gesto di sfida di Remo, che avrebbe oltrepassato con ostentato disprezzo il solco tracciato dal fratello per delimitare il tracciato della sua città, suscitando la pronta reazione di Romolo. Questi lo avrebbe quindi trucidato dichiarando che avrebbe trattato nello stesso modo chiunque avesse osato varcare le sue mura. Mura, peraltro, che ignoriamo del tutto quando siano state costruite davvero. Roma quadrata, Septimontium, città delle quattro regioni, città serviana… sono le definizioni dell’Urbe arcaica, di cui non si conosce affatto l’estensione. Pare che da principio esistessero due comunità di latini sul Palatino, insediate sulle due sommità del colle, il Palatino propriamente detto, e il Germalo, che in progresso di tempo si sarebbero unite, forse poco prima dell’avvento del i millennio a.C. Poi, nell’viii secolo a.C., con l’arrivo di nuove genti che praticavano l’inumazione in luogo della cremazione, come facevano le popolazioni preesistenti, la comunità si sarebbe estesa, inglobandone altre, ai colli più vicini, per un totale di sette, che però non sarebbero stati, almeno inizialmente, quelli della tradizione (Palatino, Esquilino, Aventino, Quirinale, Viminale, Campidoglio, Celio), bensì Palatino e Germalo, Velia, Suburra, Fagutale, Oppio e Celio. Sappiamo per certo che Campidoglio, Quirinale e Viminale sono stati inglobati dopo, e l’Esquilino in un’epoca addirittura posteriore, ai tempi del re Servio Tullio, mentre l’Aventino ci finì dentro solo nella prima epoca repubblicana, dopo l’invasione gallica. Difficile però dire se l’area dell’abitato fosse cinta da mura o solo circoscritta dai limiti tracciati per il pomerium (da post murum, oltre il muro), la zona sacra destinata all’urbs, per distinguerla dall’ager, la campagna circostante.

    Il fondatore

    Romolo, comunque, ha le idee chiarissime su come si fa il re. Fin da subito raduna i suoi sgherri e, come si usava dire, da moltitudine li trasforma in popolo, dando loro delle leggi, mentre bada bene a distinguersi dalla massa munendosi di una scorta di dodici littori, forse riferita agli avvoltoi che ha avvistato, e di una guardia del corpo di 300 uomini; quindi assegna a ogni uomo due jugeri di terra – ovvero mezzo ettaro –, per avere a disposizione dei contadini-soldati. Ma poiché non devono essere in molti quelli che lo hanno seguito, come prima soluzione apre sul Campidoglio un asilo per tutti gli indesiderabili dei centri vicini: e questo significa che, come il vecchio West, Roma è stata costruita col sangue di galeotti, delinquenti, reietti e miserabili di ogni specie. Tra i suoi seguaci più stretti, Romolo ne sceglie cento con i quali costituisce i patres, ovvero il Senato, i cui discendenti saranno chiamati patricii. Il resto è plebe, per una contrapposizione che darà luogo a profondi contrasti durante tutta l’età repubblicana.

    Ma i suoi sudditi sono ancora pochi. Soprattutto, sono poche le suddite. A dispetto dei suoi inviti, nessuna donna vuole andare ad abitare in un villaggio pieno di gentaglia della peggior risma. Così il nostro amico escogita una trappola per i vicini sabini. Convoca il loro re Tito Tazio con tutto il suo seguito e altre comunità per festeggiare insieme la festa dei Consualia, in onore di Nettuno; poi, durante le corse dei cavalli, Romolo e i suoi accoliti rapiscono le figlie e le sorelle degli ospiti, che sono costretti alla fuga. Ma Tito Tazio non lascia inevaso l’affronto e i sabini tornano in forze. Grazie al tradimento di una vestale, Tarpea, che a seconda delle tradizioni si è innamorata dello stesso re o si è fatta corrompere, occupano il Campidoglio e danno battaglia nella valle del Foro, allora disabitata e acquitrinosa. In seguito Roma sarebbe stata arricchita da monumenti a ricordo di questi combattimenti: il lacus Curtius, una palude dove cadde il cavaliere sabino Mettio Curzio, il lapis niger, la tomba di Tullus Hostus, nonno del re Tullo Ostilio, il tempio di Giove Statore, dove Romolo aveva formato una linea di difesa. E Tarpea avrebbe dato il nome alla rupe capitolina da cui sarebbero stati gettati tutti i rei di tradimento. A questo proposito, giova ricordare la fine che fece la ragazza: avendo chiesto come premio per il suo tradimento ciò che i sabini portavano al braccio sinistro, ovvero monili e bracciali d’oro, finì invece schiacciata dai loro scudi, portati, appunto, al braccio sinistro…

    La battaglia procede a fasi alterne, finché non sono proprio le sabine, ormai sposate con i romani, a frapporsi vestite a lutto tra i combattenti. Così riescono a far stipulare la pace ai contendenti. Romolo e Tito Tazio decidono di fondere le rispettive comunità e se il re romano si espande dal Palatino al Celio, quello sabino occupa Campidoglio e Quirinale. Roma raddoppia sia la propria estensione che la popolazione, e i cronisti ci raccontano che Romolo ne riorganizza l’assetto dividendo i sudditi in tre tribù, ciascuna formata da dieci curie e tenuta a fornire 1000 fanti e 100 cavalieri, allargando il Senato a forse 200 membri e costruendo il Foro.

    La diarchia si interrompe dopo un quinquennio per un increscioso incidente. Certi amici e parenti di Tito Tazio aggrediscono degli ambasciatori dei laurenti, ai quali il re sabino non dà soddisfazione; così, quando il sovrano si reca a Lavinio per un sacrificio, quello che viene sacrificato finisce per essere proprio lui, lapidato dalla folla inferocita o, secondo una versione più pulp, trafitto dallo stesso spiedo destinato alla vittima sacrificale. Romolo, cui il regno in coabitazione stava probabilmente stretto, non dovette dolersene troppo. Rimasto solo, torna a condurre le sue guerre; gliene sono state attribuite parecchie, ma di nessuna potremmo dire con certezza che l’abbia davvero combattuta. Sappiamo che celebrò un trionfo dopo la vittoria sui ceninensi, di cui uccise personalmente il re Acrone, istituendo le spolia opima, la consacrazione delle armi del capo nemico abbattuto, di cui solo altri due condottieri romani avrebbero potuto vantarsi. Sappiamo di sue vittorie su Cameria, per la quale celebrò il suo secondo trionfo, Antemnae, Crustumerium, Fidene, e perfino su Veio, cui avrebbe imposto una pace centennale, godendosi un terzo trionfo dopo aver sottratto alla città etrusca un territorio definito septem pagi, i sette villaggi, appena a ovest dell’Isola Tiberina. Ma alla fine, il territorio della Roma primitiva che Romolo o chi per lui governava non doveva avere un’estensione, è stato calcolato, superiore ai 90 chilometri quadrati.

    Impossibile ricostruire la sua attività militare con un minimo di credibilità e localizzare i villaggi sconfitti o i luoghi delle battaglie; si tratta di posti divenuti ora, perlopiù, quartieri o sobborghi di Roma. Partendo dal solo Palatino, non sarebbero cattivi risultati, se fossero veri. Sarebbe invece una morte orribile, se fosse andata nel modo tramandato dalla tradizione, quella che ha incontrato il primo re di Roma. Pare che col tempo Romolo si sia trasformato in un tiranno e che i senatori ne abbiano avuto abbastanza. Quindi lo avrebbero fatto letteralmente a pezzi, smembrandolo e nascondendone i resti in tanti posti diversi, perché il cadavere non fosse mai ritrovato: poi avrebbero fatto dire a un tale di averlo visto ascendere al cielo, suggerendo di venerarlo, da allora in avanti, come il dio Quirino.

    Così, almeno, si potrebbero conciliare le due tradizioni che danno Romolo asceso al cielo o fatto a pezzi dai senatori, che dopo di lui avrebbero detenuto il potere per un anno, governando a gruppi di dieci con un mandato di cinque giorni ciascuno, in una città già afflitta dai conflitti tra romani e sabini, e tra patrizi e plebei.

    E con questo, abbiamo concluso, sintetizzandola assai, la storia di Romolo. Questo eroe eponimo potrebbe non essere mai esistito, come la gran parte degli eroi eponimi di uno stato o una dinastia, pertanto finora non avete letto un libro propriamente storico. E se continuassi su questa falsariga, dovrei raccontare al lettore ben due secoli e mezzo di leggende. Sì, due secoli e mezzo: perché tanto è durato il periodo monarchico, durante il quale, secondo la tradizione, si sarebbero avvicendati solo sette re (escludendo Tito Tazio). E stiamo parlando di una monarchia elettiva, ovvero di un istituto che tende, come si scoprirà in seguito per gli imperatori, a non essere noto per la sua stabilità: senza una dinastia, l’impero romano del iii secolo d.C. avrebbe prodotto in media un imperatore ogni due anni. E nel periodo particolarmente fortunato e stabile degli imperatori adottivi, nel ii secolo, si sarebbero succeduti sei imperatori in meno di un secolo.

    Ne consegue che se Romolo non è esistito o, perlomeno, non ha compiuto le imprese che la tradizione gli ha attribuito, lo stesso discorso può valere per gli altri sei re. Costoro tornano buoni giusto per associare ai loro nomi cambiamenti importanti, epocali, personalizzando processi che, magari, hanno avuto bisogno di lungo tempo per consolidarsi. Quindi, con questi sovrani più o meno immaginari andremo più di fretta, per arrivare al crollo della monarchia e lì riprendere un racconto più dettagliato. Ma non perché possiamo essere più certi che le cose siano andate come vuole la tradizione – i primi due secoli di Repubblica sono fortemente sospetti –, bensì perché almeno i personaggi, se non le loro gesta, dovrebbero avere un fondamento reale. A voler essere fiscali, una vera e propria storia di Roma la si potrebbe raccontare dall’arrivo di Pirro, ovvero dal iii secolo a.C., epoca in cui iniziamo a essere ragionevolmente sicuri che le storie pervenute alla nostra attenzione, almeno per sommi capi, si siano svolte come i cronisti narrano.

    Il lettore ansioso di rivivere le leggende e gli eroi della Roma arcaica dovrà andare a cercare altrove la mitologia monarchica. Troverei paradossale raccontare in dettaglio le fantasiose storie, dense di eventi e personaggi, del periodo regio, quando per certe epoche medio e tardo imperiali non siamo in grado di dire che quattro parole sulle imprese di alcuni imperatori, perfino molto importanti; primo tra tutti Traiano, sotto il quale l’impero avrebbe raggiunto la sua massima espansione, combattendo guerre colossali contro parti e daci, e non, con tutto il rispetto, contro fidenati e albani…

    Gli altri re

    Sette re, dunque, come i sette colli. Parrebbe un numero ricorrente, nella Roma arcaica. Esiste perfino una cronologia di questi monarchi, ma che sia palesemente fittizia lo si evince dal fatto che i sovrani avrebbero coperto il tempo necessario al succedersi di altrettante generazioni, considerando che il tempo stimato per una generazione, negli antichi, era di trentacinque anni. Insomma, non è detto che non siano esistiti affatto, ma che ve ne siano stati tanti altri dimenticati dalla tradizione è fuor di dubbio.

    A un Romolo bellicoso succede quindi un sabino di Curi, sulla Via Salaria: Numa Pompilio, assai religioso e pacifico, cui si ascrivono l’istituzione del calendario su dodici mesi, in luogo dei dieci precedenti, e dei collegi sacerdotali. Ma Numa è anche il re che avrebbe costruito la Regia, il palazzo reale, non sul Palatino bensì sulla Velia, l’altura tra Palatino e colle Oppio: una posizione centrale, evidentemente, tra l’insediamento romano e quello sabino. Con il suo successore Tullo Ostilio ci troviamo di nuovo di fronte a un re-soldato, ed è infatti a lui che viene ascritta la conquista e la distruzione di Alba Longa, con tutte le leggende a essa collegate e in particolare quella degli Orazi e Curiazi.

    La tradizione racconta che allora Alba era governata da Gaio Cluilio, che però muore nei primi scontri ed è sostituito da Mezio Fufezio. Questi concorda con Tullo Ostilio di risparmiare alle rispettive città le sofferenze di una lunga guerra, deliberando un duello tra campioni: i tre fratelli Orazi da parte romana, e altrettanti fratelli Curiazi da parte albana. All’inizio si mette male per i capitolini, che ne perdono subito due. Ma il terzo è un fenomeno e, obbligando gli avversari a inseguirlo, li fa fuori uno alla volta. A Roma tutti gioiscono tranne la sorella dell’eroe, che era innamorata di uno dei Curiazi uccisi. Il fratello, sdegnato, la uccide e per questo il re deve condannarlo a morte. Ma il padre arringa il popolo affermando che il figlio ha agito correttamente, e ottiene una commutazione della pena in una serie di riti sacrificali. Nel frattempo Mezio Fufezio non ci sta e trama la rivalsa alleandosi con gli etruschi, ma Tullo Ostilio lo scopre e lo fa squartare legandone gli arti ai cavalli; la sua vendetta sulla città, poi, è senza pietà.

    Tuttavia, per quanto epiche siano state le gesta attribuite a questo sovrano, la fine che gli ascrive la tradizione è ben misera, se è vero che è rimasto stecchito da un fulmine. Dopo di lui tocca ad Anco Marcio che, in un tentativo di conferire a qualcuno di questi re una legittimità dinastica, ci dicono essere stato il nipote di Numa Pompilio. Con lui Roma si espande verso la foce del Tevere, se è vero che conquistò Ficana, un villaggio situato dove ora sorge Acilia, e assunse il controllo delle saline a nord dell’estuario. Meno certo è che abbia fondato la colonia di Ostia, che le testimonianze archeologiche dimostrano non essere stata costruita prima del iv secolo a.C. E ancora a lui si attribuisce la conquista di un territorio boscoso, detto Silva Maesia, di pertinenza di Veio.

    Quel che è sicuro è che con Anco Marcio si chiude il periodo latino dell’Urbe e si apre quello etrusco, anche se non è affatto chiaro se questo popolo misterioso, che aveva il suo epicentro in Etruria, si sia impossessato di Roma, vi avesse solo una colonia – attestata dal Vicus Tuscus appena sotto il Palatino – o un suo clan vi si fosse stabilito compartecipando al potere. Probabilmente l’influenza etrusca è andata crescendo col tempo e solo con Tarquinio il Superbo, l’ultimo dei sette re della tradizione, l’Urbe avrebbe potuto dirsi sotto il pieno controllo di un popolo straniero, o sottoposta a un regime di occupazione. Possiamo però asserire con un certo grado di certezza che alla metà del vii secolo a.C. Roma era praticamente un’isola in un mare etrusco: strangolata tra Veio e Preneste, cadute in orbita etrusca, deve essere entrata di lì a poco nel mirino dei conquistatori.

    D’altra parte, la nota triade capitolina, con le divinità di Giove, Giunone e Minerva che vanno sempre a braccetto, sono un’esigenza radicata in Etruria, prima ancora che nell’Urbe: il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, il più importante degli edifici sacri dell’Urbe, contenente le celle per le tre divinità, risale appunto all’epoca etrusca, anche se la dedica è di età repubblicana. Così come i fasci, che avvolgevano le scuri dei littori. Gli etruschi, inoltre, erano una civiltà più evoluta, a quei tempi, ed è ascrivibile alla loro leadership la costruzione della Cloaca Massima e delle cosiddette mura tulliane. D’altra parte, da lungo tempo i rampolli dell’aristocrazia romana si formavano in Etruria, dove le famiglie li spedivano per provvedere alla loro educazione, così come i nobili europei del Settecento avrebbero considerato l’Italia una tappa obbligata del loro percorso culturale giovanile. Pertanto, possiamo concludere che l’élite capitolina aveva l’abitudine di formarsi alla scuola etrusca: magari i ragazzi finivano per sposarsi in Etruria e, viceversa, i nobili romani ricambiavano offrendo all’aristocrazia etrusca opportunità di vario genere a Roma.

    È attraverso questo confuso processo, quindi, che ci troviamo ad avere un re etrusco, Tarquinio Prisco, forse all’inizio del vi secolo. Ma questo non significa che ci sia stata un’invasione dall’Etruria: l’assenza di parole etrusche nel latino e di tombe etrusche in territorio romano attesta che nell’Urbe c’era solo un gruppetto di stranieri. Né possiamo dire che ci sia stata una continuità di etruschi al potere, perché sono in molti a ritenere che il sovrano successivo, Servio Tullio, fosse in realtà un latino che, si dice, aveva sposato la figlia di Tarquinio Prisco. A quest’ultimo, comunque, sono attribuite conquiste in un’area più esterna di quella della Roma attuale: Nomentum, Ficulea e i monti Corniculani, a sud di Palombara, e a est Collatia, verso Tivoli; tutte zone che, però, l’Urbe potrebbe aver perso in seguito, durante i sommovimenti che la portarono a liberarsi del dominio etrusco.

    Servio Tullio è un re davvero importante, oltre a poter vantare decisive prove che attestano la sua esistenza. Sbarazziamoci intanto delle leggende, che lo vogliono figlio di una schiava di corte fecondata da un fallo scaturito dal fuoco; o che narrano della morte di Tarquinio, ucciso da due pastori assoldati dai figli di Anco Marcio; della decisione di Tanaquilla, la volitiva moglie del sovrano, che allestisce una messinscena per dichiarare che Tarquinio, in punto di morte, ha designato Servio come suo successore, e veniamo al sodo (anche se la leggenda lascerebbe trasparire che costui sia stato il solo re, prima del successore, a non essere stato eletto dal popolo, e infatti dovette penare non poco per farsi accettare).

    Alla cinta muraria a lui attribuita si è già accennato: forse sono le mura che delimiteranno Roma per 750 anni: blocchi quadrati in cappellaccio che vanno a sostituire un terrapieno eretto da Anco Marcio, per un totale di 11 chilometri di cui si vedono ancora discreti tratti alla Stazione Termini, lungo viale Aventino e presso il Teatro Marcello. A Servio Tullio viene anche attribuita l’istituzione delle centurie, ben 193, in luogo delle curie, all’interno di un sistema censitario ripartito in cinque classi di reddito: gli appartenenti alle varie classi sono tenuti a prestare servizio militare, ciascuno in relazione alle proprie ricchezze, poiché ogni cittadino deve provvedere da sé all’equipaggiamento e ogni centuria deve fornire cento uomini. Con le prime tre classi si formano due legioni di opliti ispirati al modello greco: 6000 uomini in tutto in luogo dei 3000 di età romulea; gli altri costituiscono la fanteria leggera. Ma la divisione è anche finalizzata alle votazioni e, non a caso, ai comizi curiati si sovrappongono i comizi centuriati, l’assemblea dei cittadini-soldati riunita in Campo Marzio, appena fuori le mura. Tale consesso è concepito a tutto vantaggio delle classi più abbienti: ogni centuria esprime infatti un voto e solo la prima classe ne dispone di 80 che, sommate alle 18 dei cavalieri, danno una maggioranza sul totale delle 95 delle altre quattro classi oltre agli inermes, ovvero degli ausiliari che non imbracciano necessariamente le armi, trattandosi di musici e genieri. Bisognerà attendere fino alla metà del iii secolo a.C. perché la divisione tra classi fosse più equa: solo allora, infatti, ogni classe sarebbe stata dotata di 70 centurie, per un totale di 373 (lasciando invariato il numero delle centurie dei cavalieri e degli inermes), annullando così il vantaggio dei ceti più elevati.

    Un fatto inequivocabilmente riferito a Servio Tullio, perché riporta la sua firma, è il trattato tra Roma e i latini, depositato nel tempo di Diana sull’Aventino. L’edificio fu costruito dallo stesso sovrano come contraltare al tempio di Diana di Aricia, sul monte Cavo, epicentro della lega latina, costituita inizialmente, forse, da otto città, di cui l’Urbe, nel periodo etrusco, assume il comando.

    La tradizione mitologica, se non altro, dà conto di una fine tragica e di un avvicendamento coi toni da guerra civile. Pare che Servio, per rinsaldare la sua vacillante posizione, avesse unito le figlie in matrimonio con i figli di Tarquinio Prisco. Ma le due coppie sono davvero male assortite; Lucio Tarquinio è un tipo spregiudicato, la moglie Tullia Maggiore un esempio di virtù; viceversa, il fratello minore è un ragazzo mite, ma ha la sfortuna di aver sposato Tullia Minore, una donna malvagia. I due perfidi individui fanno fuori i rispettivi coniugi e si sposano tra loro, poi Tullia Minore, una vera lady Macbeth, spinge il nuovo marito a impossessarsi del trono del padre. Quando Servio trova il genero seduto al posto che spetta a lui, protesta veementemente ma il giovane, per tutta risposta, lo spinge giù dalle scale della Curia. Il vecchio sovrano esce malconcio dalla rovinosa caduta e cerca di tornare alla Regia, ma è proprio la figlia a inseguirlo fino al Vicus Orbius, tra le Carinae e il colle Oppio, e a passargli sopra con il proprio carro, dandogli il colpo di grazia: da allora, la strada si chiamerà Vicus Sceleratus. A quanto pare dunque, due donne, Tanaquilla e Tullia, hanno determinato il destino di questo sovrano che dobbiamo riconoscere come uno dei più solidi e produttivi.

    Tutt’altro ricordo ha lasciato di sé il suo successore, Tarquinio detto il Superbo. È a causa sua che i romani hanno aborrito, da allora in poi, il termine rex, tanto da condannare a morte chiunque, durante la Repubblica, aspirasse a farsi tale; e anche quando ce l’hanno avuto, un sovrano, hanno preferito chiamarlo in altri modi: dittatore perpetuo, princeps, imperatore… tutto, ma non re! I motivi di tanto odio? Intanto, probabilmente con lui vi fu una effettiva conquista di Roma da parte degli etruschi. È lecito infatti supporre che non siano stati i romani a sceglierlo, ma la lega etrusca. E poi, non fece molto per farsi amare, anzi, passò per un tiranno. Per fortuna dei romani, in quel periodo le fortune degli etruschi a sud dell’Etruria stavano declinando: nella battaglia di Aricia, che deve essere avvenuta a ridosso della fine del vi secolo, essi furono sconfitti senza appello dai latini e dal tiranno di Cuma, Aristodemo; e i popoli a loro soggetti possono aver approfittato delle loro difficoltà per ribellarsi e liberarsi del loro controllo. È in questo contesto, quindi, che si può inserire la memorabile caduta del despota, che i romani rovesciarono mentre era impegnato nella guerra contro Ardea.

    È pur vero, però, che ai tempi di questo re esecrato Roma aveva raggiunto una decisa leadership in area laziale, tanto da estendere il suo controllo su una superficie di 550 chilometri quadrati. La cronologia tradizionale assegna al 509 o 508 a.C., a seconda degli autori, un trattato stipulato tra l’Urbe e Cartagine, la colonia fenicia che, da parte sua, si stava dando altrettanto da fare per creare un impero. I due stati stabilivano le rispettive zone di influenza, e appare chiaro dal testo del documento che Roma considerava di sua pertinenza il litorale del Lazio meridionale fino a Terracina. Il che la faceva entrare in contatto con altri popoli potenti, gli equi, i volsci e gli ernici, che di lì a poco sarebbero stati i primi avversari della Repubblica.

    Assedio!

    Fin qui la storia, perlomeno per come la si può ricostruire sulla base degli scarni dati a nostra disposizione. Ma una storia di Roma destinata al grande pubblico non può prescindere dalla bella pagina di mitologia che si insegna ancora a scuola facendola passare per storia vera: un avvicente racconto con cui la tradizione si è incaricata di celare la rivincita di Tarquinio il Superbo dopo essere stato destituito e cacciato.

    Non fu una ribellione popolare a determinare la caduta dell’ultimo re, sia chiaro, bensì una congiura ordita nell’ambito dello stesso gruppo di potere che attorniava Tarquinio. La popolazione ne rimase estranea, salvo poi essere coinvolta in modo strumentale dal nuovo gruppo dirigente. La tradizione fa risalire tutto a uno stupro compiuto dal figlio del re, Sesto Tarquinio, ai danni della moglie di suo cugino, Lucrezia, che spinge la donna al suicidio. L’episodio suscita la reazione, nel 509 a.C., di un gruppo di patrizi già esasperati dalle intemperanze della famiglia reale, capeggiato dal marito di Lucrezia, Lucio Tarquinio Collatino, dal padre Spurio Lucrezio, da Publio Valerio Publicola e dal nipote del re, Lucio Giunio Bruto, che fino ad allora si è finto stupido (brutus significa stupido) per non attirare l’attenzione su di sé. Quest’ultimo si incarica di arringare la folla e di proclamare la Repubblica, facendosi nominare console insieme a Collatino dai comizi elettorali.

    La stretta parentela del secondo alla dinastia vale a quest’ultimo l’esilio a Lavinio e la sua sostituzione con Publio Valerio. Nel frattempo Tarquinio, di ritorno da Ardea, dove è stato piantato in asso dall’esercito incitato da Bruto, non può rientrare in città e se ne va in esilio a Cerveteri; poi, quando viene a sapere che i suoi beni sono stati abbandonati al saccheggio della plebe, decide di reagire. Si arriva allo scontro campale tra romani, con la fanteria agli ordini di Valerio e la cavalleria affidata a Bruto, e le forze di Tarquinio, rinforzate da contingenti provenienti da Veio e Tarquinia, agli ordini dello stesso re deposto, a capo della fanteria, e del figlio Arunte, alla guida della cavalleria. La battaglia viene inaugurata da una singolar tenzone tra i comandanti della cavalleria, che cadono entrambi. Alla fine, il combattimento non costituisce una vittoria schiacciante per i romani, ma se non altro impedisce all’ex sovrano di riprendersi Roma con un assalto.

    Poco dopo l’espulsione dei Tarquini, ecco presentarsi davanti alle porte dell’Urbe il lucumone etrusco di Chiusi, Porsenna. Può essere che il re sia ricorso al suo aiuto per riconquistare la città, ma non è detto: pare che Tarquinio abbia dovuto insistere parecchio per convincerlo a imbarcarsi nell’impresa. Alla notizia dell’attacco etrusco, i romani si preparano alla difesa attraverso due caratteristiche linee d’azione. Da una parte i patrizi, ovvero i detentori del potere, si abbandonano a generose concessioni nei confronti del popolo, per assicurarsene la collaborazione e dissuaderlo dalla tentazione di far causa comune col re spodestato; a tal fine, le imposte di guerra sono a carico dei soli ricchi e alcuni alimenti, come il sale, sottoposti a monopolio di Stato per evitare le speculazioni. Dall’altra parte, si provvede al potenziamento delle difese, rinforzando il presidio sul Gianicolo, avamposto fuori le mura e al di là del Tevere, istituito per segnalare l’arrivo dei nemici e permettere alle linee arretrate di tagliare l’unico ponte allora esistente, il Sublicio, contando poi sullo sbarramento costituito dal fiume.

    Sfortunatamente, le difese avanzate vengono spazzate via di slancio e il peso dell’assalto è sostenuto dal presidio sul ponte; la discesa repentina dal colle spaventa i difensori, che si danno alla fuga nonostante l’incitamento e il coraggio di Orazio Coclite che, dapprima da solo, valendosi di un cumulo di morti come trincea, poi supportato da Spurio Larcio e Tito Erminio, tiene a bada i nemici mentre i commilitoni distruggono il Sublicio, costruito in legno proprio per poterlo smantellare con celerità. Compiuta l’opera, con lo scudo pieno di frecce, l’eroico difensore, zoppo e privato di un occhio, si getta dal ponte raggiungendo a nuoto, nonostante l’armatura e il grandinare dei dardi avversari, la sponda opposta del fiume, insieme a Larcio ed Erminio; la sua performance sarebbe stata in seguito premiata con un terreno grande quanto i limiti che egli stesso sarebbe riuscito a tracciare con l’aratro in una giornata intera.

    Dopo uno smacco del genere, Porsenna deve rassegnarsi a porre un assedio vero e proprio alla città; non avendo i mezzi per espugnarne le difese, punta alla resa per fame e, dopo aver collocato un presidio sul Gianicolo, si accampa nella pianura a nord-ovest del Tevere. Le sue imbarcazioni, oltre a presidiare il fiume da nord a sud, trasportano in continuazione soldati sull’altra sponda per fare terra bruciata intorno alle mura, costringendo i romani a contare solo sui viveri all’interno della città. Publio Valerio riesce a porre fine alle scorrerie sacrificando del prezioso bestiame, che manda come esca fuori dalla Porta Esquilina, facendo nascondere un piccolo contingente al comando di Tito Erminio all’altezza del secondo miglio della Via Gabinia e un altro, agli ordini di Spurio Larcio, davanti a Porta Collina. Poi il console si porta nella regione del Celio con coorti scelte, contando sull’azione simultanea del nuovo collega Tito Lucrezio, uscito da Porta Nevia. I due consoli affrontano quindi il nemico valendosi del simultaneo attacco di Erminio finché gli etruschi, circondati, finiscono massacrati.

    Al nome di Orazio Coclite si affiancano, nel corso dell’assedio, quello di almeno altri due personaggi le cui gesta sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo: Gaio Muzio, che si insinua nel campo nemico per uccidere Porsenna e, pugnalato invece il suo segretario, punisce la propria mano destra, rea di aver fallito il bersaglio, ponendola su un braciere; e una giovane, Clelia, che promuove una fuga di ostaggi dal campo etrusco. In entrambi i casi, il lucumone rende onore al coraggio dei protagonisti, lasciando libero il primo e facendosi restituire la donna per poterla liberare egli stesso; Muzio, detto Scevola per la sua mutilazione, avrebbe ricevuto in premio un campo, Clelia, una statua equestre sulla Via Sacra, tributo mai conferito a una donna.

    Alla fine Porsenna, dopo qualche timido tentativo di imporre il ritorno della dinastia etrusca nel corso delle trattative di pace, avrebbe rinunciato a qualsiasi velleità sgombrando il presidio sul Gianicolo, portandosi dietro alcuni ostaggi e incamerando territori nell’area di Veio, ma anche abbandonando alla città assediata, di cui lo aveva colpito lo stato di desolazione, le vettovaglie del proprio campo.

    Fin qui il mito. Ricco di storielle edificanti, non c’è dubbio, in cui tutti fanno un figurone, gli assedianti al pari degli assediati. La realtà dovette essere però ben diversa. Testimonianze più attendibili di un autore coevo, Iperoco di Cuma, e accenni di storici posteriori come Tacito e Plinio, parlano esplicitamente di resa per fame. Plinio, in particolare, spiega che il lucumone mantenne la città per alcuni anni entro la propria sfera di influenza, proibendo ai romani di possedere oggetti di ferro, a parte quelli agricoli, e arrivando forse a smantellarne le mura.

    Ciò che avviene subito dopo l’azione di Porsenna si può in effetti configurare come una sorta di guerra civile tra famiglie e partiti etruschi. Il lucumone di Chiusi, infatti, si guarda bene dal restituire il trono ai Tarquini e i loro seguaci e parenti, a capo di diversi centri laziali, muovono guerra al conquistatore che, per convenienza o per forza, i romani appoggiavano. Solo nel 508, secondo la cronologia romana, nel 504 secondo quella greca, il lucumone avrebbe abbandonato i suoi sogni di gloria, ripiegando definitivamente su Chiusi e lasciando il Lazio nella più completa anarchia, con la lega latina impegnata a fronteggiare le invasioni dei popoli italici dagli Appennini.

    Tarquinio il Superbo, causa prima di tutta questa lunga serie di eventi, non avrebbe più posto piede a Roma, finendo i suoi giorni in esilio a Cuma. Nel frattempo, la nuova Repubblica istituzionalizzava i due magistrati supremi con mandato annuale, un pretore e un giudice – solo in seguito, probabilmente, definiti consoli –, che potevano anche cedere il comando, in circostanze particolarmente gravi, a un magister populi, un dictator, con incarico semestrale. Il Senato, da parte sua, si assicurava il controllo legislativo, delineando il quadro di una democrazia a carattere oligarchico con una lunga serie di contrappesi che dovevano impedire il ritorno di una qualsiasi forma di monarchia.

    Per quanto riguarda quest’ultimo punto, avrebbe funzionato piuttosto bene per quattro secoli. Per il resto, be’… c’era ancora molto da aggiustare…

    II. I primi eroi della Repubblica

    Roma e i latini

    Scorrendo le sfide che Roma dovette affrontare all’indomani della proclamazione della Repubblica, si ha la percezione che sia proprio in quest’epoca che l’Urbe forgia quelle virtù, o quelle caratteristiche, che le consentiranno di superare ogni ostacolo, emergere dalle disfatte e costituire un impero plurimillenario. Il clamoroso sovvertimento istituzionale e le difficoltà in cui la città si dibatté durante e dopo l’attacco di Porsenna dovettero causare un significativo riflusso della sua potenza, così che molti stati ne approfittarono per sottrarsi al suo controllo, come anche a quello degli etruschi, anch’essi in difficoltà.

    Latini alle porte di casa, su tutti veienti e fidenati sul fronte occidentale, e poi equi e volsci su quello orientale, contemporaneamente o uno dopo l’altro cinsero pressoché d’assedio l’Urbe per quasi tutto il v secolo, mantenendola in un costante stato di belligeranza; e proprio mentre, sul fronte interno, si verificavano lotte altrettanto accanite per definire l’assetto costituzionale della nuova entità statale, che nasceva senza aver definito i limiti del potere dei patrizi e le tutele della plebe contro i loro soprusi.

    Lo spettro di episodi e sfide da raccontare sarebbe quindi piuttosto ricco, se non fosse che della maggior parte di essi si è impossessato il mito, rendendo assai difficoltoso ricostruire la catena degli eventi. Ogni fronte di guerra ha le sue epiche battaglie e soprattutto i suoi eroi, ma in alcuni casi non sappiamo neppure se costoro siano esistiti davvero. La tentazione di redigere un racconto avvincente basandomi sulle leggende è forte, ma non risponderebbe al proposito di quest’opera di fare divulgazione storica, perché talvolta le leggende smentiscono l’evidenza storica e si incaricano, sostanzialmente, di nobilitare momenti poco edificanti dell’epopea romana; d’altra parte, non posso raccontare la storia senza procedere per mere ipotesi ricostruttive, il che mi obbligherebbe ad allontanarmi dalla narrazione pura e semplice. Pertanto il solo metodo che mi rimane è di informare il lettore di quel poco di storia che si conosce, inserendo di tanto in tanto le avventure più eclatanti riportate dalla tradizione. Ma si tenga sempre presente che si tratta di due faccende distinte, che solo di rado si toccano e pressoché mai si fondono.

    I primi a bussare alla porta dei romani sono i latini, di cui, come si ricorderà, l’Urbe aveva assunto la leadership con gli ultimi Tarquini. E si parte subito con una battaglia, che possiamo raccontare solo assecondando la tradizione leggendaria.

    Potremmo essere nel 496 a.C. Di fronte alla coalizione di trenta città latine, il dittatore romano Aulo Postumio Albo marcia con un esercito di 24.000 uomini alla volta del lago Regillo, che è stato individuato in Pantano Secco, presso Tuscolo e poco a sud-est di Roma; è qui che si è spinta l’armata nemica al comando di Ottavio Mamilio di Tuscolo, forte di 40.000 effettivi tra i quali romani esiliati e i Tarquini in cui figurava perfino il novantenne Tarquinio il Superbo. Proprio la presenza di quest’ultimo infiamma gli animi dei romani, che si scagliano contro gli avversari con vigore e li costringono ad arretrare. Ma alcuni esiliati capitolini giungono a rinforzare la prima linea latina, cambiando l’inerzia dello scontro; di lì a poco, infatti, i collegati riguadagnano terreno mentre le truppe dell’Urbe iniziano a sbandare.

    Postumio ordina allora alla sua guardia personale di cavalleria di chiudere ogni via di fuga agli stessi soldati romani e di uccidere chiunque tenti di scappare. A quel punto, i legionari non possono far altro che affrontare il nemico a viso aperto, supportati dalla cavalleria, che il dittatore fa smontare di sella e combattere al fianco della fanteria. Per stimolare ulteriormente lo spirito combattivo dei suoi, Postumio afferra un’insegna e la scaglia tra i ranghi nemici, esortando i legionari a recuperarla. L’impegno dei romani cresce permettendo loro di travolgere le schiere nemiche, che si danno alla fuga senza più opporre resistenza. Solo un quarto dell’armata dei collegati riesce a scampare alla morte o alla cattura. La leggenda tramanda che a guidare i romani alla vittoria siano stati i gemelli divini Castore e Polluce, e già questo, come è stato osservato, la dice lunga sull’origine greca del racconto.

    In realtà le cose non dovettero andare così bene per i romani, se poco dopo furono indotti a stipulare una pace di compromesso, il cosiddetto foedus cassianum, dal nome di Spurio Cassio Vecellino, che ne sarebbe stato promotore (e che poi sarebbe stato giustiziato per aver aspirato alla tirannide). Roma perdeva la leadership sulla lega ma si garantiva una pace eterna e una fascia di sicurezza nei territori più vicini alla città, che gli altri contraenti avrebbero dovuto impedire a qualsiasi nemico di attraversare; si garantiva inoltre che i latini non facessero causa comune con altri avversari e l’aiuto dei collegati in caso di attacco nemico, oltre alla metà del bottino nelle guerre combattute insieme.

    Il trattato appare opportuno per entrambe le parti, in verità, perché nuovi, temibili nemici si stanno affacciando nel Lazio orientale. Si tratta di volsci ed equi, popolazioni partite verso la fine del secolo precedente dalle zone intorno al lago del Fucino. I primi sono avanzati fino a sud-est dei Colli Albani, impossessandosi di Velletri dopo aver disputato ai romani, in epoca regia, il possesso di Pomezia; i secondi si sono insediati un po’ più a nord, superando l’Aniene e spingendosi nella zona di Tivoli. Tra i due insediamenti si trovano i poveri ernici, che occupano la valle del Sacco e rischiano di finire stritolati. Proprio per questo latini, romani ed ernici hanno tutto l’interesse a stipulare un’alleanza, che consente all’Urbe di fruire di un cuneo che mantenga il fronte nemico diviso, scongiurando il pericolo che equi e volsci si coalizzino e garantendosi così la possibilità di affrontarli uno alla volta.

    Coriolano

    Il pericolo più impellente è rappresentato dai volsci, che si fanno sotto fin dagli anni immediatamente seguenti al provvidenziale foedus cassianum. Non solo Velletri, ma forse anche i centri della costa come Anzio, Terracina e l’antica Ecetra, di cui non si conosce l’ubicazione, finiscono nelle loro mani. Pare tuttavia che, in seguito, lega latina e romani abbiano riconquistato Velletri e costituito una linea di difesa fondando nuove colonie a Segni e Norba.

    Fin qui la storia. Se poi la vogliamo rivisitare in chiave mitologica, allora dobbiamo seguire le gesta di Gneo Marcio Coriolano. La tradizione lo descrive come un discendente del re Anco Marcio, mettendone in evidenza la grande prestanza fisica, il coraggio, l’abilità guerriera; ma anche la spocchia, la vanità, l’ambizione sfrenata e la dipendenza dalla madre Veturia, il solo genitore rimastogli dopo aver perso il padre in tenera età. Il suo cognomen si deve al suo eroico comportamento durante l’assedio di Corioli, roccaforte volsca identificata con una località presso Genzano. In quella circostanza, che la tradizione ascrive al 493 a.C., il giovane è solo un ufficiale agli ordini del console Postumio Cominio Aurunco, che approfitta di una sortita dei coriolani per irrompere in città e conquistarla.

    La fama acquisita in guerra non gli garantisce tuttavia l’elezione a console: a Roma, infatti, Coriolano incarna alla perfezione l’ostilità che i patrizi nutrono nei confronti dei plebei, remando contro ogni tentativo del popolino di ritagliarsi una partecipazione al governo, senza mai celare il proprio disprezzo nei confronti dei non abbienti. Proverbiali diventano le sue dichiarazioni sulla plebe, secondo lui pugnace nelle rivendicazioni quanto pusillanime in guerra. Il suo scarso tatto gli impedisce dunque di guadagnarsi i voti necessari per la magistratura suprema; Coriolano prende molto male la bocciatura e in piazza si scaglia con livore contro chi ritiene lo abbia sabotato; la sua irruenza gli vale l’esilio, che scatena in lui un forte spirito di rivalsa. Covando propositi di vendetta, se ne va proprio dai volsci, che hanno imparato ad apprezzare le sue virtù militari e gli offrono un posto di comando, puntando a riprendersi i territori che i romani gli hanno soffiato.

    Il condottiero recupera pertanto Corioli e altre sei città, prima di marciare su Roma, forse nel 491, accampandosi con l’esercito a breve distanza dalle mura. In città è il panico: nessuno si era preparato a dover sostenere un assedio e numerose ambascerie tentano di convincere Coriolano a rinunciare. Ci riescono solo la moglie Volumnia, venuta al suo campo coi figli, e la madre Veturia, che arriva a implorarlo, inginocchiandosi davanti a lui. La sua umiliazione muove a compassione il generale, che esclama: «Hai vinto, e con la tua vittoria rechi felicità alla patria, ma rovina e morte al figlio».

    I volsci, infatti, non gli perdonano la ritirata e lo uccidono, secondo la leggenda, ma è solo una delle tradizioni; in altre versioni, Coriolano si sarebbe suicidato, oppure sarebbe vissuto fino a tarda età e in santa pace tra i volsci. Il punto è che nella storia reale costui non ha lasciato alcuna traccia di sé, né lo hanno fatto i personaggi di contorno: si tratta di una vicenda che nasce e muore con lui e perfino la sua gens, i Marci, in quel periodo non occupa alcuna carica di rilievo che ci permetta di ipotizzare una sua influenza sulla politica cittadina. Ed è ancor più improbabile che i volsci si siano spinti a ridosso di Roma, proprio in un periodo in cui i vincoli dell’Urbe con i latini scongiuravano una simile minaccia…

    I 300 di Roma

    Ben più appigli alla realtà sembrano avere le altre leggende sorte a proposito degli esordi della Repubblica. A cominciare da quella dei trecento Fabi. Con costoro, passiamo al fronte opposto, quello contro gli etruschi per il controllo della riva occidentale del Tevere. Qui la principale nemica è Veio, ad appena 17 chilometri da Roma; con la città etrusca l’Urbe ingaggia una costante guerra di frontiera che terminerà solo un secolo dopo, con la caduta della rivale a opera di Furio Camillo. Gli oggetti della contesa sono le saline e il Gianicolo, su cui gli etruschi riescono a spingersi, pare nel 479 a.C., a dispetto di una sconfitta campale subita l’anno precedente per mano dei consoli Marco Fabio Vibulano e Gneo Manlio Cincinnato. Ed è qui che entra in gioco la famiglia dei Fabi. Quel che succede con la loro entrata in scena merita di essere raccontato nel dettaglio, non fosse altro perché quella che si vergherà nel 477 a.C. sarà una gran bella pagina di mitologia che è lecito considerare ripresa dalla realtà. Anche se la volontà di associare l’episodio al sacrificio di Leonida e dei suoi trecento spartani contro i persiani di Serse alle Termopili, di appena tre anni prima, ha sicuramente amplificato e distorto i toni della disfatta romana.

    Tutto parte da un’idea che il console Cesone Fabio Vibulano espone in Senato nel 479 a.C. dopo la più recente avanzata dei veienti. Cesone propone ai padri coscritti di lasciare alla sua famiglia l’onere di far rispettare il nome dell’Urbe lungo il confine con Veio; probabilmente ha le sue buone ragioni di carattere economico, legate al possesso di latifondi nei pressi delle saline. Lo Stato, sostiene il console, non avrebbe dovuto farsi carico di nulla: saranno i Fabi a condurre un conflitto che si trascina da anni senza andare al di là di razzie e scaramucce. Il Senato accetta, e poco dopo, una colonna di 306 armati parte da Roma attraverso l’arco di destra della Porta Carmentale (che dopo la strage sarebbe stata chiamata Porta scelerata), tra le benedizioni e le acclamazioni della gente; la guidano lo stesso Cesone e suo fratello Marco, anch’egli già console due volte; un terzo fratello, Quinto, console plurititolato a sua volta, era morto l’anno precedente nella vittoriosa battaglia campale. Secondo la tradizione, a Roma rimane solo un Fabio di sesso maschile, il figlio più piccolo di Marco, di nome Quinto, in futuro uno dei più grandi condottieri romani della sua epoca. Ma è bene precisare che il concetto di famiglia va qui preso in termini estensivi, considerando anche clienti e aderenti.

    I Fabi costruiscono una massiccia fortezza su una delle tante alture tufacee che contraddistinguevano la zona di confine con Veio, a circa 8 chilometri dall’Urbe, alla confluenza del Tevere con il suo affluente Cremera (oggi chiamato anche Fossa di Formello, e nel corso inferiore, Valchetta), e la usano come base per le incursioni in territorio veiente. Allora, il bottino non consisteva in oro e argento, ma in greggi e mandrie. Si va avanti così per l’intero autunno, poi in inverno le armi tacciono. Le provocazioni romane inducono Veio a chiamare in causa le undici città etrusche con cui è confederata, e al nuovo console Lucio Emilio Mamerco tocca affrontare in battaglia campale un’armata delle città tirreniche. Allo scontro partecipano anche i Fabi e la vittoria arride a Roma. Ma il console non sa ricavare alcun vantaggio territoriale per l’Urbe, tanto che il Senato si rifiuta di accordargli il trionfo, e la belligeranza prosegue.

    I Fabi riprendono con le loro scorribande in territorio veiente, a dispetto delle richieste degli etruschi di sgombrarlo. Trascorre così l’intero 478 a.C. e tale rimane la situazione l’anno seguente; la guarnigione finisce col rendere terra bruciata tutto il territorio circostante, e per racimolare bottino deve spingersi sempre più a nord, verso Veio. L’assenza di ogni resistenza e di pericoli rende Cesone e Marco sempre più audaci e imprudenti.

    Il 18 luglio del 477, o forse il 9 febbraio, i due fratelli vengono a sapere che un grande gregge di pecore pascola indifeso in un territorio particolarmente lontano dal Cremera, ed escono dalla fortezza con una colonna di armati per andare a impossessarsene. Ma è una trappola. Non appena i romani avvistano gli armenti, dalle colline adiacenti scendono centinaia di etruschi, che si avventano sulla colonna. I Fabi hanno la peggio e riescono a sottrarsi alla completa distruzione solo riparando su un’altura. Gli etruschi rinunciano ad assalirla, preferendo affrontare il contingente di soccorso uscito dalla fortezza sul Cremera. Lo massacrano fino all’ultimo uomo e poi tornano a dedicarsi ai resti della prima colonna, che oppone una fiera resistenza, prima di soccombere a sua volta. Rimane il presidio nella fortezza, che gli etruschi si accingono ad assalire. Ma i pochi difensori rimasti scelgono la morte più onorevole, lanciandosi in una sortita suicida e cadendo sul campo in una mischia all’ultimo sangue.

    Pare incredibile che un’intera famiglia, ancorché estesa ai suoi clienti, sia sterminata in un’unica battaglia. Eppure, nella lista dei consoli romani di epoca repubblicana, negli anni successivi all’episodio manca qualsiasi esponente della gens Fabia, che nei sette anni precedenti aveva sempre piazzato un proprio esponente

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