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Noi che stiamo per morire
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E-book215 pagine3 ore

Noi che stiamo per morire

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Info su questo ebook

Durante cinque secoli di popolarità, i giochi romani, o ludi, iniziarono come celebrazioni non più violente di un normale carnevale di quartiere e si trasformarono in uno spettacolo di massacri inutili che uccideva migliaia di persone e animali ogni mese. I giochi erano così popolari da diventare un'istituzione nazionale attraverso la quale milioni di persone - cacciatori di animali, addestratori di gladiatori, allevatori di cavalli, caricatori, appaltatori, armieri, assistenti di stadio, medici, promotori e uomini d'affari di ogni tipo - si guadagnavano da vivere. In effetti, l'economia romana era così dipendente dal loro successo che qualsiasi tentativo di porre fine ai giochi o di limitare la loro barbarie significava un sicuro collasso economico. Gli stadi erano ovunque e migliaia di cittadini accorrevano per vedere l'impensabile. Gladiatori, corse dei carri, sfilate, combattimenti tra selvatici, stupri e bestialità, finte battaglie e combattimenti navali erano programmati per un periodo di diversi giorni o addirittura settimane, in modo che la gente fosse intrattenuta da un flusso continuo di spettacoli. Il pubblico pretendeva sempre nuovi numeri e l'imperatore di turno tentava di fare meglio dei predecessori per sostenere l'interesse e alimentare i perversi appetiti. La folla gridava, si divertiva e scommetteva mentre uomini, donne, bambini e animali venivano fatti a pezzi, crocifissi, violentati, bruciati e annegati. Gli atti erano inconcepibili; i numeri sbalorditivi. Perché i giochi si sono trasformati in sadiche dissolutezze? Perché nessuno li ha fermati? Nell'ultimo e più stupefacente capitolo è affrontata la questione su cui storici e filosofi hanno riflettuto per oltre millecinquecento anni.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9791221439687
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    Noi che stiamo per morire - Alessandro Lascialfari

    CAPITOLO I

    All’epoca dell’imperatore Nerone l’economia del più grande impero del mondo si stava sgretolando. Il costo per il mantenimento degli spropositati eserciti di Roma, equipaggiati con le più moderne catapulte e baliste e le più veloci galee da guerra, stava dissanguando l’impero e in aggiunta si dovevano pagare i pesanti sussidi alle nazioni satellite dipendenti da Roma per il loro sostentamento. Il governo impoverito non aveva né i fondi né il potere per fermare le rivolte.

    In questo stato di crisi, il Capitano della Marina consultò il Primo Tribuno - La flotta mercantile è in Egitto in attesa di essere caricata. Possiamo imbarcare il grano o la sabbia per l’arena. Come dobbiamo comportarci? Sei matto? - urlò il Tribuno - La situazione qui è fuori controllo. L'imperatore è impazzito, l'esercito è sull'orlo dell'ammutinamento e la gente muore di fame. Per l'amor degli dèi, fai caricare la sabbia! Dobbiamo distrarre la gente dai problemi! - Di lì a poco gli araldi annunciarono che le più spettacolari corse di carri mai organizzate si sarebbero svolte al Circo Massimo.

    Trecento coppie di gladiatori combatteranno all’ultimo sangue e milleduecento condannati saranno gettati nell’arena insieme alle bestie selvatiche. Ci saranno combattimenti tra elefanti e rinoceronti, bufali e tigri, leopardi e cinghiali. Come evento speciale, venti belle ragazze saranno violentate da degli asini. Ingresso alle sedute posteriori gratuito, prezzi modici per i primi trentasei ordini di seduta.

    Tutto il resto fu subito dimenticato. Il gigantesco stadio, con una capienza di oltre 380 mila persone, era gremito al massimo. I giochi si protrassero per due settimane mentre il pubblico esultava, faceva scommesse e si ubriacava. Ancora una volta il governo poteva trarre un sospiro di sollievo e provare a trovare una via d’uscita alle proprie difficoltà.

    I giochi, come venivano innocentemente chiamati questi incredibili spettacoli, erano un’istituzione nazionale. Milioni di persone dipendevano da essi per vivere: cacciatori di animali, addestratori di gladiatori, allevatori di cavalli, spedizionieri, appaltatori, armieri, assistenti, promotori e uomini d’affari di ogni tipo. Abrogare i giochi avrebbe fatto perdere il lavoro a così tante persone che l’economia nazionale sarebbe crollata. Inoltre, i giochi erano il narcotico che imboniva il popolo romano in modo che il governo potesse operare.

    Un artista di nome Pilade disse sprezzantemente a Cesare Augusto - La tua posizione dipende da quanto si diverte il popolo.

    Giovenale scrisse amaramente Le stesse persone che hanno conquistato il mondo ora hanno solo due interessi: il pane e il circo.

    Roma si era espansa al di là del proprio controllo, diventando l’impero dominante. Il costo del mantenimento della Pax Romana sulla maggior parte del mondo conosciuto si stava rivelando troppo grande anche per le enormi risorse del potente impero. Ma Roma non osò abbandonare i suoi alleati, né ritirare le legioni che tenevano sotto controllo le tribù barbariche lungo una linea che si estendeva dal fiume Reno, in Germania, fino al Golfo Persico. Ogni volta che un posto di frontiera veniva abbandonato, le orde selvagge si insinuavano tentando di avvicinarsi ai centri nevralgici dell’impero.

    Di fatto, il governo romano era costantemente sull’orlo della bancarotta e nessun statista riusciva a trovare una via d’uscita dalle difficoltà. Il costo del suo gigantesco programma militare era solo uno dei grattacapi di Roma. Per incoraggiare l’economia nelle varie nazioni satellite, i governi tentarono di attuare politiche commerciali senza restrizioni ma lo scompenso tra l’aspettativa della manodopera romana e quella straniera a buon mercato era troppo alto; il tentativo di calmierare le tariffe diede come risultato che le nazioni satellite non erano in grado di vendere i loro beni all’unica nazione che avesse soldi per comprarli. Per sbloccare la situazione, il governo decise di erogare sovvenzioni alla classe operaia romana per compensare la differenza tra il salario reale, ovvero il valore effettivo di ciò che producevano, e il salario richiesto per mantenere il loro alto tenore di vita. Migliaia di lavoratori vivevano grazie a questo sussidio senza fare nulla, accontentandosi di meno agi a favore di un’esistenza spensierata.

    Le classi agiate di Roma vivevano in sontuosi palazzi e facevano banchetti composti da prelibatezze come le lingue di tordo in miele selvatico e mammelle di scrofa ripiene di topolini fritti. Essi dovevano le loro ricchezze alle grandi fabbriche dove gli schiavi producevano enormi quantità di merci con sistemi analoghi a quello che oggi chiamiamo catena di montaggio. I contadini e gli operai protestavano - I ricchi devono pagare! - Il governo rispondeva aumentando anno dopo anno le tasse nei confronti dei plutocrati, ma c’era un punto oltre il quale non osavano andare, visto che le tasse pagate dai ricchi mantenevano in vita tutto il sistema e il governo non osava rovinarlo.

    Si tentò di abolire la schiavitù nelle fabbriche ma la richiesta degli uomini liberi di orari brevi e salari alti era cresciuta così tanto che solo il lavoro degli schiavi poteva compensare. Inoltre, i proprietari delle maggiori fabbriche erano politicamente potenti e difendevano energicamente i loro possedimenti corrompendo senatori, assumendo lobbisti e assicurandosi il sostegno di leader sindacali senza scrupoli. Il proprietario di una fabbrica romana trovò molto più redditizio spendere migliaia di sesterzi in tali pratiche piuttosto che perdere i suoi schiavi e l’uomo libero romano preferiva di gran lunga il proprio sussidio e la possibilità di godersi gli spettacoli al circo invece di essere costretto a lavorare per vivere.

    Per il popolo romano, intrappolato in un groviglio economico che non poteva comprendere e non riusciva a districare, il circo era l’unico rimedio ai propri grattacapi. I grandi anfiteatri divennero il tempio, la casa, il luogo di riunione e l’ideale di benessere dell’uomo comune. Poiché i giochi erano cerimonie apparentemente pie organizzate in onore degli dèi, anche il senso religioso ne veniva gratificato. L’uomo comune romano riusciva ad alloggiare, anche se per poche ore, in un edificio più magnifico della Domus Aurea di Nerone, invece che in un misero e sovraffollato caseggiato. Qui poteva incontrare altri uomini liberi e provare un senso di appartenenza mentre faceva il tifo per la propria squadra insieme a quelli della sua fazione, e imporre i suoi desideri perfino all’imperatore perché, come dicevano gli stessi romani, nel circo comanda il popolo.

    I romani adoravano il coraggio e ogni romano amava immaginarsi come un combattente duro e puro. Le scommesse erano così alte che venivano vinte o perse vere fortune in pochi minuti e solo scommettendo l’uomo comune poteva ottenere ricchezza. Inoltre, per quanto bene o male un romano potesse sbarcare il lunario, aveva la bieca soddisfazione di stare meglio dei poveri disgraziati che davano spettacolo nell’arena.

    Sebbene pochi romani si preoccupassero della bassa retribuzione e della rigida disciplina nell’esercito, essi si consideravano ancora dei veri combattenti mentre gridavano consigli o insulti ai gladiatori in lotta sotto di loro. Niente deliziava la folla più di vedere un dignitario in visita da una qualche nazione satellite sentirsi male e precipitarsi fuori dall’anfiteatro, apostrofandolo con soddisfazione - Quei greci effeminati! Non sopportano neanche di vedere il sangue!

    I giochi, che alla fine arrivarono a costare un terzo del reddito totale dell’impero e lo sperpero di migliaia di animali ed esseri umani, iniziarono come innocue feste non più sanguinose di una fiera di contea. I primi giochi nel 238 a.C. prevedevano esibizioni equestri, acrobati, funamboli, animali addestrati, corse di bighe ed eventi atletici, come incontri di pugilato con cinghie di pelle sulle nocche al posto dei guanti. I soldati organizzavano finte battaglie e la cavalleria, composta da giovani ricchi in armatura d’oro e d’argento su cavalli purosangue, inscenava azioni violente. Si ingaggiavano anche corse di cavalli in cui i cavalieri dovevano saltare da un cavallo all’altro al galoppo. Di tanto in tanto si tenevano rappresentazioni come l’assedio di Troia, in cui il modello in legno che rappresentava la città veniva attaccato da miliziani vestiti da soldati greci e infine bruciato tra squilli di tromba e forti applausi. Col passare del tempo, questo tipo di spettacoli divenne noioso per i romani. L’unico evento che restò gradito fu la corsa dei carri, uno sport perfetto per le scommesse. Tuttavia, anche la corsa dei carri cambiò completamente di carattere; da essere una semplice gara sportiva, divenne così sanguinosa ed adrenalinica da accrescere ed alimentare sempre più l’interesse popolare. In principio le gare si svolgevano in qualsiasi campo abbastanza grande nei dintorni delle città e i carri correvano semplicemente lungo un percorso segnato sul terreno. Il Circo Massimo, il più antico anfiteatro di Roma, fu costruito intorno al 530 a.C. e appositamente progettato per le corse dei carri.

    Il Circo, lungo quasi cinque volte lo stadio Olimpico di Roma, misurava 500 metri di lunghezza per 60 di larghezza e aveva la forma di una U allungata. All’estremità aperta della U si trovavano i blocchi di partenza, con cancelli che potevano essere aperti nello stesso istante come nelle moderne corse di cavalli. Al centro dell’anfiteatro correva una lunga barricata, la Spina, intorno alla quale i carri dovevano fare il giro per sette volte, coprendo una distanza totale di circa sette chilometri e mezzo. La Spina era il fulcro dello spettacolo di tutto il circo. Su di essa erano poste colonne sormontate da statue, fontane che zampillavano acqua profumata, altari eretti agli dèi e persino un tempietto dedicato alla Venere del Mare, la dea protettrice degli aurighi, che le offrivano incenso prima di iniziare una corsa.

    Al centro della Spina vi era un obelisco portato dall’Egitto, fregiato all’apice da una palla d’oro che splendeva alla luce del sole ed era l’oggetto più notevole nel circo. L’obelisco, senza la palla, si trova ora al centro di piazza San Pietro, davanti alla cattedrale. Alle due estremità della Spina erano posizionate due colonne sormontate da una traversa; su una era montata una fila di uova e sull’altra una fila di delfini, tutto quanto ricavato dal marmo. Le uova erano il simbolo di Castore e Polluce, i gemelli celesti protettori di Roma, mentre i delfini erano sacri a Nettuno, protettore dei cavalli. Ogni volta che i carri terminavano un giro completo, un uovo e un delfino venivano rimossi in modo che la gente sapesse quanti giri mancavano alla fine della corsa.

    Alle estremità della Spina erano posti tre coni alti circa sei metri e ornati di bassorilievi. Questi coni, chiamati metae e che secondo Plinio somigliavano a cipressi, fungevano da paraurti per evitare che l’elegante Spina venisse danneggiata dai carri durante le curve. La corsa era gestita da diverse grandi corporazioni che erano considerate le più importanti imprese economiche del mondo romano e contavano migliaia di associati. Le quote di queste società erano così preziose che venivano gelosamente tramandate di padre in figlio come bene inestimabile. Queste società possedevano grandi uffici nei quartieri degli affari di tutte le principali città, oltre che nella stessa Roma, nonché caserme e stalle in prossimità dei vari circhi.

    Gli edifici erano solitamente disposti attorno a una pista per l’allenamento delle squadre. Le società possedevano anche numerosi allevamenti e flotte di navi con stalle integrate per il trasporto di cavalli da un circo all’altro. La dimensione degli allevamenti può essere immaginata dall’osservazione lasciata da un agente del governo che fu mandato in giro a smantellare le fattorie nel 550 d.C., quando le corse furono abolite - La mandria è già talmente ridotta che al proprietario sono rimasti solo quattrocento cavalli, così ho deciso che non valeva la pena occuparsene.

    Il numero di uomini impiegati da queste aziende, mandriani, stallieri, conducenti, demolitori e così via, è sconosciuto ma è interessante osservare un elenco parziale degli uomini impegnati nella corsa vera e propria. Oltre agli aurighi, vi erano i medici, gli aurigatores (assistenti dell’auriga), i procuratores (uomini che raffinavano la sabbia prima della corsa), i conditores (che ungevano le ruote dei carri), i moratores (che afferravano i cavalli alla fine), gli sparsores (che pulivano i carri), gli erectores (che abbattevano le uova e i delfini) e gli armentarii (stallieri). Inoltre, c’erano i formatori, i veterinari, i sellai, i sarti, le guardie di stalla, i costumisti e gli abbeveratori. Esisteva perfino un mestiere particolare di uomini che non facevano altro che parlare con i cavalli e incoraggiarli mentre venivano condotti fuori dalle loro stalle.

    Gli aurighi erano per lo più schiavi, sebbene alcuni uomini liberi si offrissero volontari nella speranza di ottenere fama e fortuna. Schiavo o no, un auriga di successo era un eroe a Roma e poteva vincere ingenti somme. Molti si ritirarono milionari dopo aver acquistato la loro libertà o averla avuta da un padrone riconoscente con cui condividevano le vincite.

    L’imperatore Caligola diede in dono a Eutico, un famoso auriga, due milioni di sesterzi. Crescens, un Numida che iniziò a correre quando aveva tredici anni, vinse più di un milione e mezzo di sesterzi prima di restare ucciso a ventidue anni. Arrivò primo in trentotto gare strappate al palo, cioè arrivando da dietro nell’ultimo giro e riuscendo a superare tutti, impresa considerata particolarmente lodevole. Un altro auriga vinse quindici borse d’oro in un’ora. Anche se la quota base pagata per un auriga vincitore era relativa, egli riceveva molto di più sottoforma di bonus dalla società, regali da ammiratori, tangenti da scommettitori ai cui elargivano suggerimenti e imprese che volevano usare la sua immagine su vasi, vassoi e souvenir. Probabilmente l’auriga più famoso fu un uomo di nome Diocle che fu il primo a vincere mille corse. Diocle aveva una passione per i cavalli e gli abiti preziosi. Piccolo e nerboruto, girava spavaldamente per Roma con una tunica di seta e tessuto ricamato e possedeva una sua scuderia.

    Giovenale scrisse amaramente - Uomini perbene si lamentano nel vedere questo ex-schiavo con una rendita cento volte quella di un senatore - ma Diocle era un idolo popolare. Aveva iniziato la sua vita come schiavo-sposo di un nobile spagnolo, era stato spedito a Roma con un carico di cavalli e acquistato da un patrizio che ammirava la prodigiosa abilità del ragazzo con i capricciosi purosangue. Fece la sua prima gara all’età di ventiquattro anni ed essendo un nuovo arrivato fu illegalmente costretto a scegliere la pista esterna, nonostante le posizioni dovessero essere estratte a sorte.

    Per raggiungere la sbarra, un carro esterno doveva tagliare davanti agli altri, il che significava una morte quasi certa. Diocle non ci provò, anzi pedinò gli altri fino all’ultimo giro e poi con una mossa magnifica sorpassò gli altri tre carri per vincere. Era consuetudine che il proprietario di una scuderia si dividesse il premio con l’auriga, così Diocle fece velocemente abbastanza soldi da poter comprare la sua libertà. Investì poi le proprie vincite comprando cavalli, che addestrava lui stesso, e un carro di proprietà. Oltre ad altri privilegi, Diocle, come tutti i famosi aurighi, era addirittura autorizzato a scherzare con chiunque, compresi membri della nobiltà. Un’altra redditizia fonte di reddito per Diocle erano le corse truccate. Una volta corse due gare in un giorno, la prima con un attacco a sei (correre con sei cavalli in linea intorno alle estremità della Spina a tutta velocità era un’impresa ragguardevole) e vinse 40 mila sesterzi, la seconda con un attacco a sette cavalli non aggiogati nella quale ne vinse 50 mila. Forse la sua acrobazia più notevole è stata vincere una gara senza usare la frusta, per una scommessa di 30 mila sesterzi.

    La frusta veniva usata dagli aurighi non tanto per incitare i cavalli quanto per guidarli nelle virate. Mentre girava a tutta velocità attorno ai coni alle estremità della Spina, l’auriga poteva segnalare al cavallo interno quando iniziare a virare appoggiandogli la frusta sulla spalla, così che, se uno degli altri cavalli avesse cercato di virare troppo presto, il conducente avrebbe potuto controllarlo con un leggero tocco di frusta.

    Le redini erano legate intorno alla vita dell’auriga, in modo che questi potesse fare più leva sulle virate, ma questo rendeva difficile controllare ogni singolo cavallo.

    I cavalli erano estremamente preziosi, molto più degli schiavi. L’addestramento iniziava quando i puledri avevano tre anni ed era così dettagliato che non venivano fatti gareggiare fino all’età di cinque anni. Alcune squadre equestri erano così ben addestrate da poter gareggiare da sole. Se l’auriga fosse caduto nel momento della fulminea partenza, i cavalli avrebbero potuto continuare e perfino vincere la gara ed assicurarsi il premio.

    Gli scultori realizzarono statue di cavalli famosi, alcune delle quali ancora esistenti. Sotto le statue erano incise iscrizioni come: Tuscus, guidato da Fortunatus della fazione dei Blu, 386 vittorie, oppure Victor, guidato da Gulta della fazione dei Verdi, 429 vittorie. L’imperatore Lucio Vèro possedeva un cavallo di nome Volucris che vinse un moggio di monete d’oro dopo una corsa, mentre l’imperatore Adriano eresse un mausoleo per il suo cavallo, Borystene. Il più famoso di questi cavalli era Incitatus, appartenuto all’imperatore Caligola. Incitatus aveva una camera da letto di marmo, una mangiatoia d’avorio e beveva da un secchio d’oro. Artisti famosi decorarono le pareti della sua stalla e partecipava a cene di Stato dove suoi schiavi personali" gli servivano avena e grano.

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