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Resistenze. Quelli di Paraloup
Resistenze. Quelli di Paraloup
Resistenze. Quelli di Paraloup
E-book302 pagine4 ore

Resistenze. Quelli di Paraloup

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Info su questo ebook

Paraloup è un piccolo borgo di montagna in provincia di Cuneo, incrocio di storie ed eventi emblematici. Lì abitarono per secoli montanari e pastori, frammenti di quel «mondo dei vinti» che costituisce oggi un riferimento ineludibile per chi guarda a nuove forme di convivenza tra le persone e con la natura. Lì, in quelle baite oggi ristrutturate dalla Fondazione Nuto Revelli, operò la prima banda partigiana di Giustizia e libertà, guidata da Dante Livio Bianco, Duccio Galimberti e, più tardi, Nuto Revelli. Sta lì – in quelle Resistenze – l’origine di un volume dalle molte voci e che proponiamo ai lettori in questa seconda edizione: la vita del borgo prima del Novecento, le testimonianze di pastori, contadini e montanari che vi abitarono, la sintesi della scelta antifascista che tra le sue baite maturò subito dopo l’8 settembre, le parole, raccolte oggi per l’occasione, dei protagonisti di allora.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788865792346
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    Anteprima del libro

    Resistenze. Quelli di Paraloup - Beatrice Verri

    Resistenze

    Quelli di Paraloup

    a cura di

    Beatrice Verri e Lucio Monaco

    Realizzato in collaborazione con

    Si ringraziano per le fotografie:

    Archivio Fondazione Nuto Revelli onlus

    Archivio nazionale cinematografico della Resistenza

    Archivio storico Comune di Rittana

    Comunità montana Valle Stura di Demonte

    Daniele Regis

    Prima edizione

    © 2013 Associazione Gruppo Abele Onlus

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2020 Associazione Gruppo Abele Onlus

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500

    www.edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    isbn 9788865792346

    In copertina: Marzo 1944, la IV banda in partenza da Paraloup

    © Archivio Fondazione Nuto Revelli onlus

    Il libro

    Paraloup è un piccolo borgo di montagna in provincia di Cuneo, incrocio di storie ed eventi emblematici. Lì abitarono per secoli montanari e pastori, frammenti di quel «mondo dei vinti» che costituisce oggi un riferimento ineludibile per chi guarda a nuove forme di convivenza tra le persone e con la natura. Lì, in quelle baite oggi ristrutturate dalla Fondazione Nuto Revelli, operò la prima banda partigiana di Giustizia e libertà, guidata da Dante Livio Bianco, Duccio Galimberti e, più tardi, Nuto Revelli. Sta lì – in quelle Resistenze – l’origine di un volume dalle molte voci e che proponiamo ai lettori in questa seconda edizione: la vita del borgo prima del Novecento, le testimonianze di pastori, contadini e montanari che vi abitarono, la sintesi della scelta antifascista che tra le sue baite maturò subito dopo l’8 settembre, le parole, raccolte oggi per l’occasione, dei protagonisti di allora.

    La curatrice/il curatore

    Beatrice Verri, già traduttrice editoriale, è direttrice della Fondazione Nuto Revelli, per cui coordina il progetto di recupero della borgata Paraloup (www.paraloup.it) e il laboratorio-archivio «L’anello forte» sulla memoria femminile. Collabora con la Rete del ritorno ai luoghi abbandonati (www.retedelritorno.it). Ha curato la redazione dei volumi della collana «Quaderni di Paraloup».

    Lucio Monaco, già insegnante di Lettere nella scuola superiore, si è occupato di testi medievali. Ha curato memorie della deportazione italiana nei lager nazisti e, insieme a Mariarosa Masoero, coordina la collana «Quaderni della Memoria» presso le Edizioni dell’Orso di Alessandria.

    Indice

    Introduzione

    di Beatrice Verri

    1943 - La scelta. Il caso Paraloup

    di Marco Revelli

    Il ruolo di Paraloup nella Resistenza

    di Michele Calandri

    Alba di una formazione partigiana

    di Lucio Monaco

    Il «distretto» Paralup

    di Mario Giovana

    Da Madonna del Colletto a Paraloup

    di Leandro Scamuzzi

    La «signora» e la «dottoressa»

    di Beatrice Verri

    Metafore di Paraloup

    di Lucio Monaco

    L’eco di Paraloup. Diario della semplicità

    di Teo De Luigi

    Paraloup antica borgata montanara e contadina

    di Walter Cesana

    Paraloup: una filmografia

    di Fabio Gianotti

    La memoria e il racconto

    di Mario Cordero

    Appendici

    Tre racconti sul lupo nella lingua di Rittana

    di Walter Cesana

    La canzone di Paralup

    Interviste

    Immagini di Paraloup

    In ricordo di Maria Grazia Davoli

    La Valle Stura tra Borgo San Dalmazzo e Demonte (particolare).

    In alto a destra Paraloup.

    Introduzione

    di Beatrice Verri

    Paraloup è un luogo in cui si intrecciano tante storie, tanti significati, tanti destini. La storia con la «s» minuscola, quella dei contadini e dei pastori che vi abitarono fino agli anni Trenta del secolo scorso si incrocia, per un periodo brevissimo ma intenso, con la Storia dalla «S» maiuscola, la storia nazionale della lotta dei partigiani contro l’invasione nazista, che quest’anno, nel 2013, compie settant’anni. È a un luogo così significativo, a queste due storie che vogliamo dedicare questo libro.

    Paraloup è la borgata più alta del comune di Rittana, a 1.360 metri di quota in Valle Stura, provincia di Cuneo. Il toponimo significa «difesa dai lupi»¹, secondo la tradizione locale: una manciata di baite arroccate in una posizione strategica e molto suggestiva. Tra il settembre 1943 e la primavera 1944 il villaggio, già in abbandono, ha ospitato la banda partigiana Italia libera, prima formazione di Giustizia e libertà. Tra i membri del comando ritroviamo anzitutto Duccio Galimberti, poi Dante Livio Bianco, Leo Scamuzzi, Dino Giacosa e, più tardi, Nuto Revelli. Con loro, circa 150 uomini di ogni estrazione sociale, età media: vent’anni.

    Paraloup fu il loro «distretto» di formazione soprattutto politica, ma anche militare, umana, civile. Lassù germogliò il seme di una futura Italia libera e democratica, lassù si faceva la Resistenza per inventare una politica sana, per impostare le basi solide dell’Italia repubblicana. Si caricavano le armi e si cantava, la sera, l’inno di Mameli. «Qui, dove si crede nella fraternità, dove tutto appare pulito», scrive Nuto Revelli al suo ingresso in banda, non senza una nota di diffidenza destinata, gradualmente, a dissolversi. Fu, questa, una singolare enclave dove, secondo il modello poi diventato tipico delle bande gl, si incontrarono, in un esperimento inedito, magistrati, avvocati, laureati da una parte, e contadini, montanari, operai, commercianti dall’altra: ecco le due anime di Paraloup al confronto.

    Leo Scamuzzi, membro del comando di Italia libera, era noto per le sue doti oratorie e affabulatrici, che riuscivano ad accendere l’entusiasmo degli uomini, soprattutto dei più giovani. Interessante come riporterà anni dopo, nel suo memoriale inedito, il dialogo, così realistico, con un contadino partigiano: «Mi disse: "Quand ca sarà fini tut, mi e i mii [sic] continueruma cume prima a mangé pan e sudur"². Capiva che la libertà politica è una menzogna senza riforme economiche». Eppure entrambi lottarono, a rischio della propria vita, riscattando l’onore della patria altrimenti compromesso per sempre. Paraloup fu un paesaggio umano fertile in cui germogliò il seme della futura democrazia, della Costituzione, dei valori fondanti dell’Italia repubblicana.

    Ecco il motivo per cui questa borgata è oggi in fase di rinascita. Le baite, recuperate a opera della Fondazione Nuto Revelli, sono protagoniste di un ormai celebre progetto di recupero sostenibile delle nostre terre alte (www.paraloup.it): l’obiettivo è raggiunto, nelle baite ristrutturate si ritorna a praticare cultura, dibattito, arte da un lato, e coltura, turismo, rinascita economica dall’altro³.

    Il volume si presenta come una raccolta di contributi scientifici fondamentali per comprendere il retroterra storico, umano e culturale di un luogo geograficamente ai margini ma in primo piano nella storia nazionale e nella civiltà delle nostre montagne. Ancor di più oggi, a settant’anni da quel fatidico 8 settembre 1943, momento in cui un’intera generazione fu chiamata alla scelta, è assai utile partire da un’esperienza unica come quella di Paraloup per capire chi furono i giovani che lottarono per costruire un’Italia migliore, un’Italia libera e in che modo particolare lo fecero, per cogliere a fondo – per dirla con le parole di Marco Revelli – il senso di «quell’esperienza di ribellione di massa e quella forma di disciplina spontanea che fece delle formazioni partigiane delle potenti scuole di vita civile. In quasi venti mesi di lotta in montagna si è formato un embrione, non certo maggioritario, ma denso, solido, di Italia civile».

    La lezione tenuta da Marco Revelli sul tema 1943. La Resistenza in Piemonte (Torino, Teatro Carignano, 7 marzo 2010, nell’ambito delle Lezioni di storia Laterza) è stata l’occasione per pensare a un volume che riunisse i diversi spunti storiografici e testimoniali che si sono raccolti negli anni intorno a Paraloup, luogo che si pone all’incrocio di una serie di occasioni di riflessioni e di storie. Per questo il volume raccoglie saggi che descrivono la vita di Paraloup prima del 1943 (Walter Cesana), il nucleo tematico della scelta antifascista che tra le sue baite maturò negli immediati giorni successivi all’8 settembre e il contesto territoriale della Valle Stura in guerra (Michele Calandri, Lucio Monaco, Mario Giovana); diverse fonti inedite (Leo Scamuzzi, Lucio Monaco, Walter Cesana); uno sguardo sulla Paraloup cinematografica (Fabio Gianotti); alcuni focus su personaggi ancora minori, come purtroppo le donne (Beatrice Verri); le riflessioni fra memoria e racconto, fra passato e futuro (Mario Cordero) e, infine, in allegato, il contributo filmico di Teo De Luigi: un prezioso collage di testimonianze di partigiani e di contadini che hanno vissuto un’esperienza di vita a Paraloup⁴.

    Si sentiva il bisogno, insomma, di un libro che, con completezza e agilità, riuscisse a dare un’idea di quel mosaico così variopinto e unico che costituisce un’istantanea tanto preziosa per le due memorie che Nuto Revelli ci ha insegnato a rispettare: la memoria della lotta antifascista, per non tornare sugli stessi errori, così gravi, cui l’ignoranza inevitabilmente conduce, e la memoria di una civiltà, quella contadina e montanara, che è stata per troppo tempo depredata e dimenticata⁵.

    1 La forma finora più conosciuta, «Paralup», è sostanzialmente italiana e deriva anche dalla tradizione fissatasi nella memorialistica partigiana, probabilmente sulla base della cartografia dell’epoca che consisteva principalmente nella carta igm (F. 79: Bernezzo) basata sul rilievo del 1902, aggiornato nel 1929: ovviamente si tratta di toponimi largamente italianizzati, e quindi la u di -lup vale u italiana (e non turbata, alla francese). Considerato che le parlate di Rittana e di Valloriate (il cui confine passa a pochi metri dalle case più alte della borgata) sono di area occitana, il toponimo andrà tuttavia scritto in accordo con le non univoche regole della grafia occitana. La forma usata nei cartelli stradali bilingui è quella presente anche in

    atpm

    , 16. Rittana, Torino, Levrotto & Bella, 2001, ad v., cosiddetta grafia dell’Escolo dou Po, quindi «Paraloup», in cui -ou vale u dell’italiano. Adottando la grafia del sistema normalizado sarebbe «Paralop». Bisogna però notare che la pronuncia locale suona Paralouf (sia a Valloriate sia a Rittana). La parola si compone di paràa (verbo: «allontanare», cfr. prov. parar) e louf (sostantivo: «lupo»); di qui il significato riportato dall’

    atpm

    «difesa (dai) lupi», che appare confermato dalle ricerche di Walter Cesana pubblicate in questo volume. In alcuni testi di memoria o di testimonianza partigiana, in genere inediti, appare anche la grafia «Paraloup», forse per influenza della grafia francese. In questo volume, abbiamo lasciato nelle citazioni la forma autoriale (-oup o -up), usando la forma grafica occitana «Paraloup» nei lavori scritti appositamente. (Lucio Monaco)

    2 «Quando sarà finito tutto, io e i miei continueremo come prima a mangiare pane e sudore».

    3 Il progetto di recupero della Borgata Paraloup, sostenuto da Regione Piemonte, Compagnia di Sanpaolo, Fondazione

    crc

    e Fondazione

    crt

    , è a cura degli architetti Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis. L’impresa esecutrice è la Barberis Aldo spa di Alba. Il progetto è stato insignito del Premio Gubbio per il paesaggio 2012 e dalla menzione speciale al Premio Konstruktiv per la migliore architettura sostenibile delle Alpi.

    4 Il video con le interviste è disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=gWBk7XkYLbs.

    5 Nel volume ricorrono alcuni acronimi. I più frequenti sono:

    ancr

    – Archivio cinematografico della Resistenza (Torino),

    atpm

    – Atlante toponomastico del Piemonte montano,

    igm

    – Istituto geografico militare (Firenze),

    isrcp

    – Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo «Dante Livio Bianco» (Cuneo),

    istoreto

    – Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea «Giorgio Agosti».

    1943 - La scelta. Il caso Paraloup

    di Marco Revelli

    8 settembre 1943

    Chi non ha idea di che cosa sia stato l’8 settembre, non può comprendere il significato vero della Resistenza.

    Quel giorno, davvero, andò giù tutto. Lo Stato si disfece. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità pubblica venne meno. Con la fuga ingloriosa del re, della Corte e del Governo verso il sud. Con i generali, i colonnelli, i comandanti di reparto che si strappavano i gradi e si mettevano in borghese. Con le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini militari abbandonati. Allora l’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che sta in alto – crollò. E ognuno, in basso, restò solo, a scegliere.

    Significativamente Claudio Pavone – forse il principale studioso dell’argomento – intitola il primo capitolo del suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza¹: «La scelta». Ed è effettivamente questo il termine focale, quello che dà il senso dell’intera esperienza resistenziale: la scelta. È il termine che il cattolico Arturo Carlo Jemolo usa quando definisce «singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose»² che quel vuoto di potere consegnava a tutti e a ognuno. Ed è lo stesso termine che impiega il partigiano comunista Domenico Adriano quando dichiara: «in quell’8 settembre sono diventato di colpo adulto… da quel giorno ho fatto la mia scelta»³. Una scelta, bisogna aggiungere, individuale. Meglio: personale. Compiuta, date le circostanze, in solitudine. Senza ordini né norme. Al di fuori di ogni dipendenza gerarchica. E insieme sotto la pressione di una situazione storica eccezionale. Di una schiacciante necessità, secondo una combinazione solo apparentemente contraddittoria di condizioni che, a ragione, ha suggerito a Pavone il riferimento a un doppio concetto – di libertà e di autenticità – che Jean-Paul Sartre aveva evocato a proposito di ciò che, qualche anno prima, era accaduto nella Francia occupata, affermando che, paradossalmente, «mai siamo stati tanto liberi come sotto l’occupazione tedesca»⁴. Quelle parole, commenta Pavone, «individuano bene questo nocciolo dell’esperienza resistenziale: una scelta tanto più autentica quanto più la situazione obbligava a scegliere, e la posta in gioco poteva essere espressa dalla formula piuttosto la morte che…»⁵. Da quella scelta, totalmente responsabile perché assunta in piena solitudine e in assoluta necessità, concludeva Sartre, «nell’ombra e nel sangue» nasceva «la più forte delle Repubbliche […] senza istituzioni, senza esercito, senza polizia»⁶.

    Così sarà anche in Italia. In quella data, in cui una parte della storiografia recente ha voluto vedere – con colpevole cecità – solo «la morte della patria»⁷, si consumava invece, pur tra contraddizioni, incertezze, cadute, per un certo numero di italiani, anche un «nuovo inizio». Si costituiva, forse per la prima volta nella nostra vicenda storica unitaria, al di fuori di ogni ufficialità, un’etica condivisa. Intanto perché, l’espressione è ancora di Pavone, «per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in varie forme un’esperienza di disobbedienza di massa». E perché quella esperienza aveva insieme il carattere della responsabilità piena (quale solo le decisioni libere hanno) e della legittimazione assoluta (quale solo una necessità superiore attribuisce), come ebbe ad affermare, con una chiarezza fulminante, Franco Venturi – un grande storico chiamato in quell’occasione ad autoriflettere sulla propria azione di protagonista – quando evocò il «senso di necessità [che] stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». E come ribadirà, immediatamente dopo la Liberazione, un altro testimone d’eccezione, Massimo Mila, attribuendo all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, di null’altro fornito che del tuo coraggio di uomo, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato»⁸.

    Ma è soprattutto Vittorio Foa il protagonista che, con maggior lucidità e sistematicità, esprimerà questo carattere fondativo di una libertà praticata individualmente (e in interiore homini) prima ancora di essere conquistata collettivamente (e per tutti). Vittorio Foa che il 23 agosto, uscendo dal carcere dopo 8 anni di reclusione, aveva salutato il proprio compagno di cella con la citazione vichiana «sembravano traversie ed eran in fatti opportunità»⁹; e che pochi mesi più tardi, in uno scritto clandestino sui Quaderni dell’Italia libera dedicato a I partiti e la nuova realtà italiana, firmato con lo pseudonimo di Carlo Inverni, aveva, come Sartre, «tessuto l’elogio» dell’occupazione tedesca con queste parole: «da un punto di vista profondo e lungimirante, l’occupazione germanica è un gran bene per l’Italia» perché con essa «è andato infranto il triste privilegio italiano di non aver vissuto, come gli altri popoli europei, integralmente l’esperienza distruggitrice della guerra»¹⁰; e perché nel contempo, a differenza di quegli altri popoli

    esso non deve soltanto combattere e vincere un nemico esterno ben identificato nel suo volto minaccioso e violento, ma dovrà insieme combattere se stesso, il vuoto miraggio dei destini imperiali, l’arido egoismo che rinnega il lavoro comune dei popoli, in una parola il nazionalismo¹¹.

    Il crollo catastrofico dell’8 settembre, era la sua conclusione, «segna l’inizio di un processo rivoluzionario perché ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze»¹².

    Uomini senza più bandiere, né gradi, né guide

    Questo doppio sentimento – di vuoto e di impegno, di impotenza e di possibilità, di oppressione e di libertà, questo intreccio, appunto di traversie e di opportunità – lo ritroviamo in molti testimoni. Esemplare Ada Gobetti, che nel raccontare nel suo Diario partigiano¹³ il primo apparire dei tedeschi a Torino, alle 4 del pomeriggio del 10 di settembre, mentre sotto i portici all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris distribuiva volantini, descrive le espressioni dei passanti che si affollavano intorno a lei, alla ricerca affannosa di un’informazione, un’indicazione, qualcosa: «patetici nel loro isolamento, nel loro abbandono: lasciati a se stessi, senz’armi materiali né morali, senza un orientamento, senza una parola d’ordine»¹⁴. Allora, nonostante il suo passato, la sua esperienza di antifascista nella clandestinità, e il lavoro politico intessuto nei quaranta giorni del governo Badoglio, non aveva saputo che dir loro. Ma già un paio di giorni più tardi annota: «Dalla stanchezza opaca che m’ero sentita attorno, dal vuoto che m’era parso di trovarmi, rinascevano le iniziative, le speranze; la volontà di resistenza prendeva forma»¹⁵. Salirà senza indugio, per istintivo bisogno di azione e per scelta concordata con gli altri antifascisti del suo gruppo, in montagna, a Meana, in Val di Susa, dove ha modo di vedere, lungo la ferrovia, i primi sbandati, in preda allo «scoramento più doloroso», soldati non più soldati, che «altro non cercavano ora che sfuggire ai tedeschi, e tornarsene a casa…»¹⁶.

    Erano i resti della IV armata: un’unità di oltre 6.000 ufficiali e quasi 140.000 uomini, che sfasciatasi in Francia, dopo un debole tentativo di resistere ai tedeschi al Moncenisio e a Modane, ora si riversava in rotta, come un fiume in piena, attraverso i valichi disseminando la propria folla di disperati in fuga lungo le valli transfrontaliere. L’epicentro di quella catastrofe non fu però il Torinese. Fu il Cuneese. Fu su Cuneo che rotolò quella massa informe di uomini senza più bandiere, né gradi, né guide. E fu a Cuneo che l’8 settembre mostrò il suo volto tragico e insieme grottesco.

    Le immagini di quelle giornate di vergogna appartengono un po’ alla mia infanzia, per averle sentite descrivere infinite volte in famiglia, dalla voce di mio padre (all’epoca dei fatti giovane tenente appena rientrato, ferito, umiliato, dalla ritirata di Russia). Perdonatemi quindi se per un attimo – nella sempre più rarefatta presenza dei testimoni di allora – assumerò le vesti del testimone di testimoni e attingerò a quei racconti.

    Leggo dal suo diario, alla data 10 settembre:

    È una valanga di gente senza comando, che sosta, che scappa. […] Soldati che hanno buttato le armi, sconvolti, alla ricerca affannosa di abiti borghesi. Soldati a decine di migliaia. Due marinai in bicicletta, nel grigioverde, spiccano come mosche bianche… Nelle colonne in sosta si liquida, si svende. Vale pochi soldi l’esercito. Automezzi, viveri, coperte, equipaggiamento, carri officina, carri ospedale, tutto si vende. Un camion vale un abito borghese. Anche i magazzini della sussistenza liquidano. Le forme di formaggio rotolano verso la città come pneumatici. Fusti di olio, sacchi di farina, ogni bendidio¹⁷.

    Nelle caserme i soldati, smarriti, s’interrogano, cercano ordini, chi ha casa vicina scappa. Chi abita lontano indugia, mentre gli uffici dei comandi si svuotano. Nell’ufficio del Comando zona un ufficiale di Stato maggiore «assorto come se compilasse un ordine di operazioni […] sta compilando una carta d’identità falsa»¹⁸. Nel cortile centrale il colonnello Boccolari, «comandante del 2° alpini, un superdecorato», prima di sciogliere il battaglione reclute impiega gli uomini disponibili per caricare su un camion militare i vasetti dei suoi fiori. Intanto, poche centinaia di metri più in là, alla stazione, due tedeschi armati di pistol-machinen, catturano centinaia di soldati italiani che affollavano il treno fermo sui binari. La lunga colonna dei prigionieri viene spinta verso la caserma dell’artiglieria alpina, da dove, pochi giorni più tardi, verranno internati in Germania. Non un colonnello, non un generale, interpellati, implorati, si presta a comandare una resistenza armata. A organizzare quelli che fino al giorno prima erano i loro uomini.

    È lo stesso scenario che un altro futuro protagonista della nostra storia, con occhio diverso, non del militare ma del militante potremmo dire (non dell’ufficiale in Servizio permanente effettivo ma del civile politicizzato), Dante Livio Bianco, descrive nelle prime pagine del suo Guerra partigiana. Anch’egli ha visto le colonne militari scorrere a valle, come torrenti in piena, e qui dissolversi («In realtà – annota il 10 settembre – si era in pieno sfacelo. Non solo i reparti della IV Armata arrivati dalla Francia già in stato di crisi, ma anche quelli di stanza in città, e sino ad allora perfettamente in ordine, si decomponevano rapidamente»)¹⁹. Anch’egli si è illuso che qualche comando si assumesse la propria responsabilità. Che qualche unità organizzata si apprestasse a combattere.

    Con Duccio Galimberti, antifascista di antica data, il futuro eroe della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare alla memoria, ha fatto anche lui, tra il 9 e il 10 di settembre, il giro delle sette chiese, di caserma in

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