Racconti in carta uso mano
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Anteprima del libro
Racconti in carta uso mano - Guidali Maurizio
Una goccia d’acqua
Appena sceso dalla scaletta dell’aeroplano, Jean Pierre era rimasto abbagliato dal panorama di colori che si presentava ai suoi occhi: azzurro, blu, oro.
Azzurro pieno verso l’alto, poi una striscia di blu intenso nel mezzo ed una distesa d’oro accecante verso il basso che si perdevano all’infinito: ovunque volgeva lo sguardo, l’orizzonte che traguardava era sempre lo stesso, solo azzurro, blu e oro.
Tale vista lo aveva accompagnato in modo costante e silenzioso per tutto il tragitto con il fuoristrada sino a quando aveva messo piede al campo allestito sulle sponde dell’Eufrate.
Un cielo infinito proprio come doveva essere però senza nubi né velature, solo un azzurro carico che si congiungeva con una linea retta al blu dell’acqua del lago artificiale di Al Assad formatosi in seguito alla costruzione della gigantesca diga di Tabaqa e poi in basso, a destra e sinistra a perdita d’occhio, solo sabbia, terra e pietre roventi, tutto lucente e come finemente rivestito d’oro zecchino.
Quando i suoi piedi avevano mosso i primi passi su questo suolo infuocato, Jean Pierre aveva provato una duplice e forte emozione: da una parte la sua mente faticava non poco a rendersi conto che stava calpestando lo stesso suolo che da oltre tremila anni segnava il territorio della Mesopotamia e che aveva originato una delle civiltà più evolute del pianeta allora conosciuto, mentre dall’altra vedeva finalmente coronato il suo sogno di potersi unire alla squadra di archeologi francesi che già dal 1974 operava agli scavi sulle rive del lago.
Aveva dovuto studiare e lavorare sodo per molti anni presso l’università di Parigi, pubblicare libri e dettagliate ricerche sul tema della scrittura cuneiforme rinvenuta in Mesopotamia fin dall’età del Bronzo prima di poter ottenere le credenziali, a quasi cinquant’anni compiuti, per poter raggiungere la squadra di archeologia allestita dal governo francese per operare nella Siria nord-orientale.
Il campo della spedizione archeologica francese, allestito a pochi chilometri dall’antica città di Emar, a soli due anni di distanza era già diventato così ampio ed organizzato da contare migliaia di addetti, la maggior parte dei quali rappresentata da lavoratori locali impiegati nelle più svariate mansioni.
Oltre a falegnami, muratori, carpentieri, cuochi ed inservienti vari, un nutrito numero di risorse veniva impiegato prevalentemente in lavori di fatica per smaltire la terra ed il pietrisco rimossi durante gli scavi. Sebbene fosse un lavoro faticoso, dall’alba al tramonto sotto il sole rovente con la schiena piegata e con la polvere che prosciugava i polmoni, era l’unica opportunità disponibile al sostentamento della loro misera vita quotidiana in quella remota regione.
Il vantaggio di questo lavoro, se di vantaggio si poteva parlare, era di non aver bisogno di alcuna competenza specifica, solo forti spalle e robuste braccia e non c’era nemmeno alcuna necessità di conoscere la lingua francese parlata dagli uomini della spedizione per poter svolgere il compito: ogni volta che un archeologo smetteva di scavare e faceva un segno con il braccio, due o tre uomini di fatica lo raggiungevano e si affrettavano a riempire le ceste con i detriti prodotti, si caricavano sulle spalle quasi trenta chili a testa ed andavano a depositare il materiale da discarica ad oltre 500 metri di distanza dal luogo che delimitava l’area degli scavi.
Il tempo di fare il tragitto, svuotare le ceste e ritornare agli scavi era appena sufficiente a riprendere fiato prima di dover ricominciare con un altro carico.
Tra di loro, Hossein, fisico forte e originario della zona, poteva fare affidamento su Alifah, l’ultima delle sue tre figlie, che sebbene minuta e con appena cinque anni compiuti, gli alleviava la fatica portandogli quotidianamente due brocche di acqua fresca più volte nell’arco della giornata di lavoro.
Non vi era alcun dubbio che Hossein venisse considerato una sorta di privilegiato agli occhi dei suoi compagni di fatica e degli archeologi, un privilegiato che poteva godere del prezioso aiuto della figlia per mitigare il sudore e la fatica.
Ogni volta che Alifah lo raggiungeva con due enormi brocche sulle spalle, Hossein prendeva la prima brocca e riservava per sé la prima lunga sorsata di acqua fresca dopodiché passava la brocca ai suoi compagni. Quando si erano tutti dissetati, Hossein invitava Alifah ad offrire l’altra brocca di acqua agli archeologi.
Era questo una sorta di rituale al quale anche gli archeologi francesi si erano da subito abituati e quando capivano che poteva essere giunto il loro turno, smettevano di scavare con i loro attrezzi e facevano un cenno ad Alifah di avvicinarsi anche a loro.
Per tutti gli archeologi era un gesto consueto ma, a differenza degli altri suoi compagni, Jean Pierre riservava sempre ad Alifah un sorriso aperto che, unito al movimento di assenso della sua testa, esprimevano il suo desiderio sincero di ricevere l’acqua fresca.
Alifah allora si avvicinava a lui prima di tutti gli altri e, fermandosi al suo cospetto, gli porgeva timidamente la brocca. Jean Pierre prendeva la brocca dalle mani di Alifah e si dissetava con una lunga sorsata. Al termine, ogni volta e sempre con un sorriso, le diceva
merci pour cette goutte d’eau fraiche
Pur non conoscendo il significato di quella frase in francese, il sorriso che Alifah riceveva insieme alle parole le faceva comunque capire che Jean Pierre apprezzava molto il suo gesto e la sua generosità.
Sotto il sole cocente questo rituale era proseguito ininterrottamente giorno dopo giorno per quasi tre anni fino a quando il sito degli scavi era stato chiuso definitivamente: si erano esauriti i ritrovamenti preistorici delle tavolette di argilla a scrittura cuneiforme e non c’era più nulla che valesse la pena dissotterrare in quell’area cosicché la spedizione archeologica francese fu costretta a fare i bagagli per ritornare in patria.
Tutte le baracche e le tende del campo vennero man mano svuotate e smontate.
Tutti i falegnami, i muratori, i carpentieri, i cuochi, gli inservienti e gli uomini di fatica impiegati nel campo si ritrovarono a mani e stomaco vuoti senza più alcun lavoro.
Non c’era più nemmeno bisogno che Alifah portasse acqua fresca per dissetare tutti gli uomini: per lei non ci sarebbero più stati i sorrisi e le parole che, dopo tutti quegli anni, aveva imparato che nella lingua francese volevano essere un ringraziamento per l’acqua fresca.
Poi con l’inizio degli anni Ottanta anche il clima politico del paese cambiò e le faide, prevalentemente religiose tra le diverse etnie della popolazione che i lavori nel campo avevano mantenute sopite, contribuirono a creare ulteriori difficoltà per la vita quotidiana.
Non si trovava lavoro da alcuna parte e sfamarsi era diventato il primo problema della popolazione. Chi ne soffriva maggiormente erano le famiglie con figli piccoli.
Anche Hossein non sfuggiva a questa situazione che lo vedeva quotidianamente arrancare per poter dar qualcosa da mangiare a sua moglie, alle tre figlie di dodici, dieci anni e ormai quasi nove di Alifah, nonché all’unico figlio maschio di appena tre anni.
Quando poi cominciarono anche i primi episodi di violenza tra alawiti, sunniti e cristiani, preludi di una possibile guerra civile, Hossein decise che per sopravvivere e far crescere i figli in un posto senza guerra fosse giunto il momento di portare altrove la propria famiglia.
Una volta presa la decisione definitiva ci vollero quattro mesi abbondanti prima che lui e tutta la sua famiglia potessero raggiungere a piedi Beirut.
Con poche cose al seguito, solo quelle che avrebbero potuto trasportare a spalla lui e sua moglie, una fede incrollabile ed una pazienza infinita, avevano lasciato il lago di Assad agli inizi della primavera e, soffermandosi nella città di Homs per più di quaranta giorni in cerca di lavoro e cibo, avevano attraversato buona parte del Libano fino a raggiungere la sua capitale.
Come dal programma che si era fissato nella propria mente, una volta giunti a Beirut, Hossein era riuscito a trovare un lavoro come scaricatore al porto e, lavorando ininterrottamente per oltre dieci mesi, era riuscito a racimolare quel tanto che gli era necessario e sufficiente per pagare un passaggio via mare su di un vecchio cargo a tutta la famiglia fino a Marsiglia.
Avendo lavorato per molti anni con gente francese e avendone apprezzato i modi e la cultura, la decisione di dove portare la propria famiglia per costruire una nuova vita era venuta fuori così da sola in modo naturale: la Francia sarebbe stata la loro nuova patria.
I primi sette mesi a Marsiglia furono veramente duri e difficili perché tutta la famiglia si era trovata a dover fare i conti con la frammentazione delle tradizioni e della cultura della propria terra e, anche se i legami familiari erano rimasti ancora ben solidi, la migrazione aveva costretto tutta la famiglia a dover imparare a come ricostruirsi una nuova identità culturale.
Fortunatamente Hossein aveva trovato aiuto e supporto nella comunità siriana di Marsiglia per poter inserire la sua famiglia, trovare una