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Superuomo e umanità nuova
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E-book330 pagine5 ore

Superuomo e umanità nuova

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“Questo mio scritto costituisce il coronamento di uno studio decennale in cui ho messo per iscritto e pubblicato numerosi articoli e saggi […] attraverso i quali ho potuto, man mano, accrescere le mie conoscenze […]. Esso si rivolge soprattutto a chi dispone di una conoscenza piuttosto esaustiva dell’opera di Julius Evola […] l’idea di superuomo che compare nel titolo del libro per lo più si riallaccia, infatti, al Tradizionalismo evoliano […], e non tanto all’oltre-uomo nietzschiano […] Analogamente, la mia idea di umanità nuova, è più vicina alle posizioni politico-filosofiche di Lenin […], piuttosto che a quelle di Marx”. Superuomo e umanità nuova è una vera traversata nel passato e nell’attualità più oscura dove si prospetta la “terzomondizzazione” del mondo intero.

Umberto Petrongari è nato a Rieti (città in cui risiede) nel 1978. Si è diplomato al liceo classico cittadino. Si è laureato in filosofia (vecchio ordinamento) all’Università degli Studi dell’Aquila, e ha poi frequentato il corso di perfezionamento in Modelli e categorie della filosofia contemporanea, tenutosi all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Ha scritto diversi articoli e saggi, soprattutto per il web, avendo anche pubblicato alcuni libri autoprodotti. Per la casa editrice Aracne ha, infine, pubblicato i seguenti saggi: Il pensiero negativo di Julius Evola e il suo oltrepassamento (2013); Excalibur e la tradizione ermetico-alchemica (2014); Operazionismo marxista. Un saggio critico su Lukács-Marx e Deleuze-Guattari (2016); Saggi su alcuni filosofi moderni (2016).
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9791220134309
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    Superuomo e umanità nuova - Umberto Petrongari

    Copertina-LQ.jpg

    Umberto Petrongari

    Superuomo

    e umanità nuova

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-2975-6

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di settembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Superuomo e umanità nuova

    Introduzione

    La scientificità di questo mio scritto (consistente per lunghezza), non consiste in altro se non nel radicalizzare (nel portare all’estremo), quella tendenza che mira a distruggere ogni miticità, ogni religiosità (termini da intendersi nella loro più estesa accezione), nella convinzione che solo tale opera demolitrice possa consentirci di accedere (finalmente!) alla (più pura) conoscenza. Si tratta, insomma, di non aver più (però davvero e letteralmente!) fede in nulla, di non avere più la benché minima rassicurazione (fra le altre cose, non posso che negare l’esistenza, sia del punto spaziale, sia dell’istante temporale, sebbene, per motivi di facilitazione espositiva, spessissimo farò finta – riallacciandomi a Kant – che entrambi siano possibili, anche se – rispetto al pensatore tedesco – identificherò – adeguatamente – il tempo con lo spazio – e viceversa, ovviamente).

    La vera, autentica, scienza, andrà allora a coincidere con il più puro (con un assoluto!) nichilismo, il quale, tuttavia, sarà – perlomeno in larga misura – inaccessibile da parte della mente, della psiche, umana, in quanto essa mente a se stessa, sia in buona fede, ma anche essendo in – una tuttavia necessaria, obbligata, imprescindibile – malafede (può, infine, mentire a se stessa, anche con una – per così dire – reversibile malafede, potendo dunque – ciò vale per svariati casi – decidere di rinunciare alla sua ipocrisia, oppure alla sua insincerità): faccio un esempio; dal momento che il nulla è assolutamente inconcepibile (impensabile), ogni uomo che sia in buona fede, non potrà mai rinunciare al fatto di credere che la sua anima continuerà – ed eternamente, ovviamente – a vivere (anche) in seguito al suo decesso. E così, un germano dell’antichità – in tutto e per tutto animalesco, nonché senzadio – il quale – proprio per via di detta sua animalità! – odiava il presente su cui era costantemente concentrato (immemore dei mali trascorsi, e – sempre! – speranzoso in un immediato futuro di felice atarassia), credeva, riteneva, che, una volta morto, la sua anima (solipsisticamente egoistica – animalesca dunque!) si sarebbe finalmente (e del tutto!) svincolata da quella materialità (sensibile) che lo opprimeva costantemente, per risiedere (proprio per via di ciò, felicemente ed eternamente) nel Valalla (un celta monoteista – stando, perlomeno, a quanto sostenuto dal celtista bretone Guyonvarc’h circa la religiosità degli antichi celti – invece – tanto per fare un altro esempio – riteneva che la sua anima avrebbe contemplato – ugualmente felicemente, ossia in beatitudine – il suo unico dio).

    Resta tuttavia il fatto che nulla esiste: ovvero, la contingenza (più assoluta! Ovvero, il caso, il caos) distrugge ogni tipo di necessità (persino quella legata al credere – e unicamente! – al nostro corpo da capo a piedi; anche ciò, difatti, ci vincolerebbe!). Ebbene, se la nostra mente non può (se non altro del tutto) rendersi conto che nulla esiste (essendo, di conseguenza, il cosmo – infinito, sconfinato, per giunta! – una mera rappresentazione, e del tutto sregolata, quindi), di tutto ciò (per così dire) se ne rende conto il nostro comportamento (pratico, nella sua prassi). Ora, non solo possiamo scegliere indifferentemente di assecondare un qualsivoglia tipo di impulso, ma possiamo (addirittura!) scegliere di non assecondare (sempre indifferentemente) un qualsiasi tipo di impulso (e fino, per così dire, all’estremo!). Se ciò risulterà (se non altro) plausibile leggendo alcune parti dello scritto in questione (parti che seguono questa mia introduzione ad esso), sarà altrettanto chiaro al lettore come – inoltre! – si sarà sempre attivi, volitivi (e quindi felici nel modo più pieno!), in qualsiasi (possibile!) scelta si decida di intraprendere. Si vedrà tuttavia anche, come personalmente escluda che la causalità possa venir meno: ciò – tuttavia – non in virtù di una deduzione categoriale, ma in virtù del semplice fatto che (sempre personalmente, quindi) ritengo pressoché (assolutamente) improbabile il poter venir meno del – menzioniamolo pure in tal modo – principio di spiegazione; eppure, è proprio per via di ciò che continueremo (meramente) ad illuderci di conoscere (in generale), essendo ogni nostra scientifica (in senso lato) premonizione azzeccata, nient’altro che (cieca) espressione di fortuna.

    Ricapitolando: la contingenza (l’inconoscibilità, l’incomprensibilità) del tutto (anche in quanto, ad esempio, è una mera rappresentazione, ecc.), distruggendo tutto, non può che far coincidere (perfettamente!) il nulla con la condizione esistenziale di noi tutti; ma ciò non significa altro che siamo già morti, e – proprio per questo! – assolutamente felici. Già solo per via di ciò, la magia – che è qualcosa di originario e di superumano ad un tempo – risulta essere superiore ad ogni successiva elaborazione di tipo scientifico (che sia antica, moderna, e anche postmoderna). La magia non è altro, dunque, che (purissimo!) nichilismo: mi piace menzionarla come magia nera, proprio in quanto distrugge ogni possibile (falso!) fideismo; insomma, magia (pura) e religione, mito (in qualsiasi modo si presentino, si vengano a presentare), sono antitesi (in quanto tali) inconciliabili nel modo più assoluto.

    Ora, alla luce di tutto ciò che ho appena concluso di affermare, non ho potuto far altro che ridefinire, ridisegnare, completamente, ciò che l’intera tradizione filosofica ha inteso (secondo le sue differenti prospettive in merito) per genealogia delle morali (ciò risulterà piuttosto chiaro già alla conclusione del primo capitolo di questo mio libro).

    Ora, tuttavia, l’ultimo stadio della conoscenza, consiste nell’equiparare (perfettamente!) – da un punto di vista prettamente ontologico – verità (nichilistica) e menzogna (religiosa). Ciò significa che essere – in un modo o nell’altro – religiosi, menzogneri, è altrettanto (pienamente!) legittimo, al pari dell’esser veritieri (assolutamente nichilistici, dunque).

    Nel momento in cui si stabilizzano le tre principali (e più elementari, nonché le più pure) morali (popolare, borghese, aristocratica – ognuna rappresenta la negazione di ogni altra), è proprio allora che sorge (che si può parlare di) nichilismo-relativismo, in quanto, chi è stato in grado di mantenersi un nichilista (condizione originaria, dunque, di ogni essere umano), non reagirà (provando per esse tutte antipatia) ad esse tutte, ma (in qualche modo) le accoglierà a sé, però ignorandole (ovvero, tollerandole, nel senso più puro del termine tolleranza). Ma, in tal modo, il nichilista-relativista (originario e superumano), non avrà nulla di contro che possa limitare la sua (originaria, superumana, quindi) potenza, la quale risulterà allora essere assoluta (sconfinata, illimitata!): tale la (suprema!) sapienza-incoscienza del nichilista-relativista. Ma anche i mentitori (servi, borghesi, aristocratici), manterranno (non potranno che mantenere!) la loro potenza, originaria, assoluta, immutabile, nonostante fingano (in un modo o nell’altro) l’esatto opposto (il contrario).

    Ora, per relativismo non intendo il fatto che vi possano essere punti di vista (o prospettive) differenti sulle cose, al pari, ad esempio, di quanto sostenuto dal pensiero nietzschiano-foucaultiano, per il quale il forte e il debole esprimerebbero concezioni tra loro ben differenti, ma entrambe veritiere (in qualche modo e a loro modo). Per relativismo intendo invece come – qualsivoglia! – opinione – falsa per definizione! – abbia legittimità, e proprio in virtù del principio (summenzionato) in base al quale – ontologicamente – il veritiero e il menzognero si equivalgono alla perfezione (poiché – aggiungo e specifico – entrambi non sono!).

    Ora, in virtù del (sia pure apparente!) causalismo che domina (praticamente – non però, dunque, teoricamente!) su tutto, si può affermare come ogni tipo umano (servile, borghese, aristocratico – nichilistico-relativistico addirittura!) non possa che tendere (nonostante le limitazioni che – in fin dei conti, liberamente! – impone a se stesso) al raggiungimento di un’esistenza che sia – se non altro il più possibile! – gradevole: ebbene, tale conato alla felicità, tale tendenza al maggior piacere (o godimento) che sia possibile (in vita), lo chiamo (sia pure, quindi, un po’ impropriamente) volontà di potenza.

    In questa mia introduzione, considererò unicamente le volontà di potenza del nichilista-relativista e dello schiavo: ebbene, se la prima (delle due) è (per così dire) superomistica, la seconda – che vi si contrappone nel modo più radicale! – mira invece al costituirsi di un’umanità nuova (comunista, da attuarsi nel comunismo). Ciò servirà, dunque, a mostrare come superomismo e umanità nuova (di tipo comunista dunque) siano tra loro cose antitetiche e inconciliabili (per cui l’uomo nuovo non ha nulla del superuomo, e viceversa).

    Diciamo innanzitutto come il nichilista-relativista possa (per così dire) scadere, degradandosi a modi d’essere limitativi della sua (particolare) volontà di potenza (di tipo, come si avrà modo di vedere nel corso del saggio a seguire, sadiano). Ebbene, inizialmente può degenerare ad un puro e veritiero nichilismo, per cui inveirà contro o – in alternativa – schernirà ogni (possibile) opinione (falsa e metafisica, ontologica, per definizione). Ma con ciò, il nichilista-relativista ci perde di potenza (ossia, di incoscienza, in quanto ora qualcosa turba, comunque, la sua anima), rendendosi più intelligente (nonché più erudito – vedremo nel saggio in che modo) rispetto a come era (dunque) in precedenza. In un’ulteriore tappa della sua regressione, si aristocratizzerà, facendo sorgere il valore (in fondo ontologico!) della dis-alienazione (solo, esclusivamente) umana: la sua condotta diverrà, cioè, interamente edonistica (provando, in tal modo, un costante senso di ebbrezza). Ma un ulteriore prodotto della mentalità aristocratica consiste nell’escogitazione di un ascetismo (tipicamente e puramente) aristocratico, se si vuole edonistico esso stesso: cessando di agire (e, dunque, di pensare), vivendo (cioè) esclusivamente il presente (cui accede mediante la sola sua sensibilità), l’asceta (sempre passivo) può ricevere ogni possibile sferzata dalla sua sorte, provando (comunque) un costante, gradevolissimo, senso di ebbrezza! Ma dal momento che, anche tale soluzione (che definirò come) masochiana alla problematicità esistenziale è (in fondo) valoriale – cozzando (quindi) con il nichilismo – non può che andare a costituire un modo d’essere buffonesco, farsesco, per cui non può (in fondo) piacere (e – addirittura – piacerci!).

    Il nichilista-relativista si caratterizza per essere un uomo impulsivo (in certo qual modo non tiene neanche a se stesso, perlomeno in circostanze nelle quali può voler – immediatamente! – provare ogni sorta di dolore e può volere – persino! – la sua stessa morte. Quando, tuttavia, non desidera tali cose – eppure lo colpiscono! – non può che provare oggettivamente dolore, al pari di qualsiasi altro uomo – tuttavia, si tenga presente come la soglia del dolore sia unanime – anche se, va aggiunto, è in grado – addirittura! – di relativizzare le conseguenze di ogni sua – possibile! – disgrazia). In quanto è (per così dire) al di fuori di ogni possibile metafisica (o ontologia che dir si voglia), è un essere alienato come un (qualsiasi) animale. Ma la sua più caratteristica cifra, consiste nel relativizzare tutto (ossia, nel non estremizzare, nel non esasperare, nulla): e così (ad esempio e in primo luogo), se la vita è costantemente dolore, non può che provare esso stesso paura (esclusivamente, tuttavia, per un futuro assai prossimo). Tuttavia, sarà una paura del tipo più tenue (più lieve): ovvero, non si esaspererà mai a tal punto da divenire un attacco di panico; quest’ultimo è, infatti, un fenomeno psicopatologico, e il nichilista-relativista è mentalmente sanissimo (e così – tanto per fare un altro esempio – la sua ebbrezza – nel momento in cui può e deve provarla – non si amplificherà mai ad un punto tale da divenir noia, spleen).

    Il nichilista-relativista si rapporta con ogni suo simile in tal maniera (quando non lo ignora – ovvero quando lo tollera!): esso è in grado di provare – esclusivamente! – dell’amore del tipo più puro (ovvero – sia esplicitamente che non – sessuale). Ma l’amore puro è puro odio (e si odia ciò che ci procura – anche all’istante, al momento – dolore, ossia ripugnanza, repellenza). E così, disprezza le donne (dunque le ama!): ma procediamo pure per gradi; conferendo ad esse valore, esse, per costui, sono, esistono (soprattutto in quanto gli procurano dolore!); in quanto sono, costituendo (per così dire) il vero (che coinciderà, in una certa qual maniera, con il falso, con il non-essere!), saranno per costui anche il bene (saranno, cioè, buone. Ma, così come l’amore è odio – e dunque il bello è il brutto! – il bene coincide – perfettamente! – con il male!). È, dunque, per lui (in fondo) un bene che le donne siano – moralmente! – quello che sono (e le donne più autentiche – che il nichilista-relativista predilige! – sono nichilistiche esse stesse, ma anche – in più, in aggiunta – ipocrite fino all’estremo!). Tirando le somme – proprio per via di ciò che si è detto fino a questo momento – in un rapporto sessuale, il nichilista-relativista giocherà (come minimo) ad abusare della sua partner (pur – magari, dunque – non esercitando alcun tipo di violenza nei confronti del corpo di quest’ultima).

    Ma il nichilista-relativista proverà la maggior repulsione possibile (ad esempio e in primo luogo) nei confronti del bonario cristiano delle origini (rapportandosi a quest’ultimo, così come il lupo si rapporta con l’agnello). In costui, infatti, i suddetti tratti femminili si presentano in modo altamente estremizzato: ragion per cui, il suddetto cristiano potrebbe (o potrà) anche essere oggetto della sua più estrema violenza. Ora, il cristiano esiste in sommo grado, proprio per via della sua capacità di infastidire – oltremodo – il nichilista-relativista: ma essere e non-essere (e, dunque, non valere pressoché nulla), si è detto, coincidono. Il cristiano, essendo, ha valore (per così dire) morale (con il suo mansueto e inoffensivo modo d’essere), ma proprio in quanto è (imprescindibilmente!) in funzione del (divertito!) sadismo (di tipo prevaricatore) del nichilista-relativista! Infine, la sua bellezza (ovvero, la sua bruttezza!), fa tutt’uno con il suo esasperante (sia pure per il nichilista-relativista) modo d’essere!

    In base a quanto è (sia pure meramente) adombrato (e più o meno metaforicamente) nel carme eddico in cui Odino è alle prese con l’albero della conoscenza, la divinità nordica si deciderà per conoscere le cose fino in fondo. Ma l’annientamento di ogni morale si ripercuote, a livello sociale, nel prodursi di una realtà politico-economica talmente disintegrata da rasentare il pieno ritorno ad un invivibile stato di natura, in cui – quasi paradossalmente – stupidità, ignoranza e incompetenza spadroneggiano (predominando incontrastate). Ma stati (o nazioni) in cui tutto è massimamente disfunzionante (in cui, ad esempio e in primo luogo, la sanità è altamente inefficiente), costituiscono l’habitat ideale per il nichilista-relativista! Contesti di tal sorta (ma ciò sarà più chiaro nel saggio) favoriscono infatti l’ascesa sociale (inesorabile e inarrestabile! Perlomeno in linea teorica o di principio) del tipo umano anzidetto, e proprio grazie (in particolare) alle sue qualità sadiane (per ora bastino, dunque, solo tali accenni). Ponendo che (sempre in mera linea teorica) un nichilista-relativista riesca, infine, a porsi a comando del mondo intero, avrà realizzato appieno (o nel modo maggiore che sia possibile) la sua (tipica) volontà di potenza: non avrà, cioè, più nessuno che lo sovrasti (socialmente-gerarchicamente), essendo divenuto l’essere più grande (infinitamente, illimitatamente grande!) del mondo intero (vedremo, tuttavia, nel saggio, come l’epilogo della sua scalata piramidale, non possa che consistere in un – sia pure lucidissimo e, tutto sommato, sereno – suicidio). Potrà, inoltre, rimediare a qualsiasi evento giunga a turbare il suo stato di estrema potenza (evento ad esso avverso, quindi; ovvero, da lui indesiderato), servendosi (ma quale extrema ratio) – magari – del suddetto metodo masochiano (che è in grado di alleviare massimamente ogni sua possibile – ma non voluta – sofferenza!). Concludendo (tirando le somme), la stessa volontà di potenza del nichilista-relativista risulta essere di gran lunga superiore ai vari tipi di scienze empiriche (e – dunque – alle loro applicazioni pratiche).

    Ora, almeno personalmente, una soluzione esistenziale di tal sorta, mi sembra, mi appare – comunque – estremamente irragionevole. Vediamo, dunque, se vi sia una soluzione esistenziale di (ben) maggior buonsenso rispetto a quella (per me – di conseguenza – odiosa, detestabile, ed esecrabile) nichilistico-relativistica.

    Ma prima, dovrò svolgere alcune considerazioni preliminari.

    Nel momento in cui ogni tipo d’uomo (nichilista-relativista compreso!) abbandona la sua animalità per divenire umano – in altre parole, un conformista! (Anche se solo in certo qual senso) – non può tollerare il fatto che (sia pur, magari, provando un’ebbrezza incessante nella sua intera vita), la sua esistenza sia – incolmabilmente! – vuota. Insomma, il provare ebbrezza (sia pure sempre, dunque: ma questo è – ad essere precisi – il caso del solo puro aristocratico – sia nel suo essere un asceta, sia nel suo essere uomo d’azione), non corrisponde, comunque, al venire (davvero!) amati (e solo l’amore potrebbe riempire, colmare, completamente il suddetto senso di vuoto esistenziale: in altre parole, ci renderebbe assolutamente potenti! Ma ciò – vi è purtroppo d’aggiungere – non potrà mai verificarsi!). Ebbene, anche lo stesso nichilista-relativista, agisce come agisce (conformisticamente, in vista – cioè – di conferme relative al suo essere, al suo valore!), per – magari – ricevere – soprattutto da parte della persona amata – persino, addirittura, delle effusioni sentimentali! Sebbene, difatti, il provare sentimenti (per averli ricevuti, a loro volta, dal partner) sia più repressivo (e dunque più opprimente) rispetto al provare dell’ebbrezza, essi risulterebbero, comunque, ben più amorevoli (illudendoci tuttavia di ciò!) rispetto a quest’ultima (in quanto starebbero – comunque – a significare la benevolenza di chi amiamo nei nostri confronti: cosa, questa, che il sesso – più puro e vero, autentico – non potrà mai darci!).

    Passiamo, ora, ad un second’ordine di considerazioni. Se qualcosa esiste in sé, non potrà che (ciò è necessario!) esistere anche per noi. Persino se questo qualcosa è della morta, bruta, materia (ad esempio, della res extensa), avrà del valore per noi (sia pure a suo modo): difatti ci è d’intralcio (poiché è limitativa del nostro potere – altrimenti – assoluto; in tal senso ha peso, rilevanza, per noi).

    Poniamo, ora, che ci sia qualcuno che avverte (essendo – per restare all’esempio – dotato di un’anima avente il carattere della res cogitans) il peso (in alcuni casi maggiore, in altri minore) della suddetta materialità (limitativa, quindi, del suo potere assoluto, e dunque – ora più, ora meno – per esso opprimente): sebbene l’interiorità di costui sia interamente separata dalla nostra, sapendolo (dolentemente) senziente, non potremo che provare (in modo obbligato, in quanto la sua anima e la materia che la strazia esistono in sé) empatia nei suoi riguardi (con tutto ciò che, eventualmente, ne conseguirà sul piano della prassi). Ora, dal momento che tutte le anime sono (completamente!) separate le une dalle altre, l’empatia che provano vicendevolmente non avrà nulla di egoistico, ma sarà (interamente!) disinteressata. Ciò che, dunque, esiste concretamente (stando all’esempio cartesiano, le svariate realtà pensanti, e la materia che le coinvolge), non potrà che avere valore per (ciascuno di) noi: ma ciò significa che, nei confronti della concretezza (materiale o immateriale che sia), non possiamo che provare della benevolenza (dell’amore, per giunta – si è detto – disinteressato!). E qualora (attenendoci, ancora una volta, all’esempio cartesiano), le svariate anime suddette non avranno più alcun motivo per cui soffrire, diverranno da brutte (ma proprio in quanto vilipese dalla sorte, dal fato!), belle (bellezza – assoluta, quindi – che si esprimerà nelle sembianze stesse di ogni essere umano!).

    Prendiamo, adesso, ad esempio l’aristotelismo: per esso esisterebbero due tipi di anime – le une altruistiche, le altre egoistiche – del tutto irriducibili tra loro; ebbene, le prime, oltre ad essere empatiche, disinteressate, saranno anche dotate di grandezza (di elevatezza morale). Viceversa, le anime animalesche, saranno sociopatiche (pur sapendo di contraddire la propria coscienza morale, ma non potendo far altro che contraddirla!), sempre interessate, e, infine (addirittura!), meschine, abiette o vili che dir si voglia.

    Concluso ogni preambolo, portiamoci in un contesto nel quale il conoscere viene considerato (se non altro, per lo più) qualcosa di sacrilego. Ebbene, nella Genesi, Dio vieta di mangiare il frutto (si presume che ciò apporti – metaforicamente e quasi tra le righe – un’empia sapienza) dell’albero della conoscenza dell’Eden.

    Si presume, innanzitutto, che il suddetto testo biblico sia stato scritto in uno dei (tanti) periodi storici in cui il popolo ebraico riversava (per un motivo o per l’altro) in una condizione di (più o meno dura) oppressione, di subalternità (magari, di vera e propria schiavitù!). Eppure, già la Genesi stessa è uno scritto piuttosto erudito: il mondo degli uomini sarebbe mero frutto di emanazione divina, ragion per cui Dio risulterebbe essere la sola realtà esistente; l’uomo sarebbe impossibilitato ad intuire ciò, proprio per via dei suoi limiti umani. Eppure ciò può (in una qualche maniera) pensarlo (avendovi, magari, riflettuto). Ebbene, se tutto è Dio, l’uomo non deve nuocere (in particolare) ad ogni altro uomo, tuttavia per amor (in fondo interessato, dunque!) di sé, proprio in quanto l’universo è panteistico (in altre parole, Dio non può – e del tutto egoisticamente! – nuocere a se stesso – essendo ciò, dunque, qualcosa che per esso è sconveniente!).

    Ma, sempre nella Genesi, l’uomo è un ente privilegiato rispetto ad ogni altro, per cui Dio lo autorizza (pur dovendo mostrare un certo rispetto – ora maggiore, ora minore, a seconda quindi dei casi – per ogni ente) a dominare, attraverso la conoscenza, ogni ente.

    Ora, l’Eden – già nella Genesi – potrebbe costituire un mero mito (dunque irreale), riconosciuto tale (anche) dal popolo ebraico dei tempi della sua stesura, che starebbe dunque a significare la possibilità – futura – di controllare (da parte dell’uomo) l’intera Natura (umanità esclusa, quindi – perlomeno in mera linea teorica).

    Ora, in età ellenistica, sorgerà un corpus – a mio parere – molto legato alla visione del mondo che emergerebbe nella Genesi: trattasi della Cabala (ebraica, ovviamente – identificandola, soprattutto, con il Libro della formazione). Quest’ultima non costituirebbe altro che un tentativo di conoscere il mondo allo scopo di controllarlo-dominarlo per intero. E così, innanzitutto, Dio rinuncerebbe alla sua infinità (ma non, magari, alla sua eternità), per poter corrispondere ad un cosmo conchiuso (da ogni parte); oppure, rivelerebbe all’uomo (annunzierebbe ad esso!) l’ordine della restante Natura. Tale il senso dei numerosi angeli (quali caratteri della divinità stessa!), la cui conoscenza consentirebbe all’uomo di penetrare ogni segreto naturale. Queste ed altre sarebbero le opere razionalizzatrici che Dio realizzerebbe (introdurrebbe) nell’universo (panteistico, del resto), allo scopo di renderlo, prima o poi, un luogo (quantomeno) assai vivibile per l’intero genere umano.

    Pensatori dell’umanesimo e (poi) del rinascimento – epoche che fanno da spartiacque tra il mondo premoderno e quello moderno (nel suo senso più usuale) – si interesseranno sia del vecchio testamento (quantomeno di alcune sue parti) che della Cabala, per via, da un lato degli elementi di modernità (ciò in quanto non si danno storicismi di sorta!) insiti in tali due opere, dall’altro per via del fatto che (ma ciò riguarda soprattutto – se non esclusivamente! – la Cabala) la Cabala costituirebbe un tentativo (sia pure vano) di penetrare (prima o poi) scientificamente (tutti) i segreti dell’universo.

    Ma approfondiamo pure l’idea panteistica dell’universo, facendo (quasi curiosamente!) riferimento alla metafisica (alla filosofia fondamentale, se si preferisce) di Herbert Spencer: prendiamone in considerazione alcuni – pur essenziali e importanti – caratteri; l’universo è infinito spazialmente, e, temporalmente, esiste dall’eternità e per l’eternità. L’universo è, infine e ovviamente – in qualche modo – Dio (apparendo comunque, per così dire, sotto mentite spoglie).

    Ora, la mente umana è condannata a intuire (e, di conseguenza, anche a pensare astrattamente – ossia ad immaginare), soltanto quanto è determinato (delimitato, definito, circoscritto, ecc.).

    Prendiamo una mela. Dividiamola a metà, dividiamone poi la metà della metà, e poi (ancora), la metà della metà della metà (e così via di seguito). Ora, potremmo suddividerla, dieci, cento, mille, centomila volte (nel modo anzidetto), ma non potremo che avere a che fare con un numero (sia pure, dunque, gigantesco, enorme) limitato di suddivisioni del frutto in questione (se, cioè, l’ho suddiviso centomila volte, potrò suddividerlo – ancora – per ben centomila più uno volte, cifra, quest’ultima, che delimita – finitizzandola – quella – immediatamente – precedente!). Insomma, non posso giungere a dividerlo per un numero infinito di volte, in quanto non si può che avere a che fare con il finito, essendo impossibile (lo si è, del resto, già detto) intuire l’infinità.

    Eppure, il ragionamento che segue, è – resta! – validissimo: se ogni cosa è spaziale, non può che essere estesa (tridimensionalmente, per giunta!); ma ogni cosa estesa, non può che essere suddivisibile all’infinito! Ma se, l’infinito, non lo si può – assolutamente! – intuire, percepire, esso è impossibile: ma ciò che è impossibile, non è (mentre, per Spencer, l’infinito è un aspetto di Dio – ovvero colui che è, e in senso massimamente, pienamente, eminente!). Insomma, di qualsiasi cosa facciamo esperienza, è come se vedessimo, esperissimo, un cerchio dotato di lati (il che è – ovviamente – impossibile!): di conseguenza, vediamo, esperiamo, nulla! Ci si illude di vedere qualcosa (qualsiasi cosa, dunque)!

    Immaginiamo ora la mela dell’esempio in un determinato istante: ebbene, la mela dell’istante (immediatamente) successivo sarà del tutto differente (pur somigliandole enormemente!) rispetto alla mela dell’istante che (immediatamente, dunque) lo precede. Eppure (come dicemmo all’inizio), non si può parlare propriamente di istantaneità.

    Ovvero, la mela suddetta dovrà rimanere (perfettamente!) identica a se stessa per certo un lasso di tempo, sia pure fulmineo. Tuttavia, se suddividiamo detto lasso (e possiamo, logicamente, farlo!) in due momenti temporali – ovviamente più brevi di esso! – avremo, in tempi successivi, due cose perfettamente identiche: ma ciò è impossibile, in quanto, il divenire stesso, verrebbe contraddetto! Ma, allora, il divenire è impossibile! Ancora una volta: come possiamo davvero assistere a ciò che è soggetto al divenire?

    Ora (un po’ arbitrariamente, convenzionalmente), consideriamo la vita di un uomo – nella sua interezza – dal momento in cui viene alla luce (fuoriuscendo dal grembo materno), fino al momento del suo decesso: ebbene, la sua (intera, quindi) esistenza sarà suddivisibile in un numero infinito di lassi temporali. Tale uomo sarà, allora, eterno!

    Torniamo, dunque, a Spencer. La sua visione sarebbe identica (o pressoché identica) a quella emergente dalla Genesi: il suo panteismo afferma l’esistenza concreta (divina addirittura!) di un (qualsiasi!) uomo, e anche per via della sua eternità e infinità

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