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Il fratello del famoso Jack
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E-book292 pagine4 ore

Il fratello del famoso Jack

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Info su questo ebook

Tradurre Barbara Trapido è stato come viaggiare nel tempo e ritrovarmi a vivere nelle commedie sentimentali degli anni Ottanta, in cui il romanticismo ha un modo astuto e brillante di coincidere con il cinismo. In questo romanzo c’è la riflessione caustica su cosa significa essere donna negli ambienti radicali dominati dai maschi borghesi, c’è la presa di coscienza di sé senza rinunciare al sentimento e al piacere. L’ho trovato fresco e libero, anche nei suoi passaggi più comici e dolorosi. Molte scrittrici contemporanee sono passate da questo libro magari senza saperlo.” – Claudia Durastanti

Il fratello del famoso Jack mi ha spalancato le possibilità insite in una voce narrativa femminile e contemporanea.” – Rachel Cusk

Il fratello del famoso Jack è un libro commovente, intenso e acuto, straordinario e illuminante.” – The Times

Un libro diretto e divertente, un lavoro altamente raffinato.” – New York Times

Eccellente, esuberante, scandito dagli intensi dialoghi, per cui Trapido ha un orecchio particolarmente sviluppato.” – Evening Standard

Katherine, appassionata di moda e Jane Austen, ha diciotto anni e viene da una famiglia medioborghese. Ha una fascinazione per le eroine sfortunate del romanticismo ed è molto felice di essere stata accettata nel corso di filosofia del professor Jacob Goldman. Quando poi viene invitata nella tenuta di campagna del professore e conosce, anzi, viene letteralmente risucchiata, dall’intera, numerosissima, chiassosa famiglia Goldman, la felicità si tramuta in esaltazione e costernazione, perché i Goldman sono tutto ciò che Katherine vorrebbe essere, ma ha vergogna di confessare. Tutto di loro l’affascina, l’altolocata trasandatezza della moglie Jane, la grossolana ma pungente sfacciataggine di Jacob, la bucolica esuberanza della mandria formata dai loro sei figli, ma soprattutto il figlio maggiore, Roger. L’intellettuale, moralista, bellissimo Roger, con cui Katherine inizia una relazione nascosta che però le spezza il cuore e che la spinge a fuggire fino a Roma, per fare i conti con se stessa, il suo destino, i suoi desideri e liberarsi infine dalle convenzioni imposte dall’educazione ricevuta…

Pubblicato per la prima volta nel 1982 e mai tradotto finora in Italia, Il fratello del famoso Jack è stato e continua a essere un fenomeno editoriale. Premiato dalla critica, amato dai lettori e dai librai che lo consigliano ancora oggi, è una pietra miliare del romanzo di formazione inglese. Barbara Trapido, nella scintillante traduzione di Claudia Durastanti, illumina le pagine con dialoghi acuti e pieni di umorismo caustico sui conflitti generazionali, di classe e sulla battaglia di una giovane donna per affermare la propria identità in un mondo costruito per gli uomini. “Questo romanzo” come dice Rachel Cusk nella postfazione, “ci insegna a rileggere le nostre vite, a cercare ancora, e a capire cosa ci è sfuggito la prima volta.”

LinguaItaliano
Data di uscita21 feb 2023
ISBN9788830592148
Il fratello del famoso Jack
Autore

Barbara Trapido

Nata a Capetown nel 1941, si è trasferita a Londra nel 1963. È stata insegnante nelle scuole di Hackney e Durham, prima di diventare scrittrice a tempo pieno nel 1970. Ha scritto sette romanzi ed è stata finalista al Man Booker Prize. La sua prima opera, Il fratello del famoso Jack, ha ricevuto il premio speciale per la narrativa del Whitbread Awards, nel 1982. Vive a Oxford con suo marito.

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    Anteprima del libro

    Il fratello del famoso Jack - Barbara Trapido

    1

    Dato che non ne ho un’altra, uso come prefazione quella di Jacob che lessi con una mossa furtiva quindici anni fa, quando stava tra i cereali sul tavolo della colazione dei Goldman:

    Pur con tutta la buona fede del mondo, non posso ringraziare mia moglie come si fa di solito per le utili osservazioni sul manoscritto, la lettura paziente delle bozze e delle correzioni, perché Jane non ha fatto niente di tutto questo. Legge di rado e quando lo fa non è mai qualcosa di mio. Scorrendo i ringraziamenti generosi alle mogli che trovo nelle prefazioni dei libri di altri uomini, mi sento un eccentrico imprudente per aver sposato una donna che si rifiuta di ricoprire il ruolo di assistente editoriale, oltre a quelli che ha già. Dato che la consuetudine mi richiede di ringraziarla per qualcosa, la ringrazio allora per il piacere della sua presenza costante, che non mi sarei mai aspettato per vent’anni.

    Era un matrimonio caratterizzato, tra le altre cose, dal fatto che Jacob era tanto infuriato quanto affascinato dal modo risoluto con cui Jane indossava i panni della moglie di campagna. Non c’è dubbio che questo influenzò le strade che scelsi di intraprendere.

    Incontrai Jacob Goldman in occasione di un colloquio per entrare in un’università londinese, durante il mio ultimo anno presso la raffinata scuola privata nella zona nord di Londra dove mi aveva spedita mia madre. Lei, la vedova di un fruttivendolo locale abbastanza benestante, lo aveva fatto a costo di qualche sacrificio personale nella speranza che io acquisissi il giusto accento e imparassi a mescolarmi con la gente che conta. Poiché i genitori sono destinati a essere delusi, credo che lei fosse delusa dal fatto che la sua decisione mi garantì, invece, una collezione di voti altissimi e mi fece diventare una delle allieve di Jacob. Jacob – un filosofo importante e potente di sinistra che veniva dall’East End di Londra – ci parlava con fluidità meravigliosa e vincente di dialettica trascendentale, con una pesantissima cadenza cockney piena di colpi di glottide, come se fosse uno sturalavandini. Era ordinario di filosofia nel labirintico edificio vittoriano e presto divenne per me una figura paterna e il mio eroe culturale. Avevo letto le parole di Lord David Cecil riferite alle sue stanze a Oxford, ma Jacob mi fece il colloquio in un ambiente che non si poteva nobilitare con una parola del genere. Mi fece il colloquio in una specie di ripostiglio.

    «Sarò schietto» mi disse. «La ricevo qui perché il rapporto stilato dal suo preside sul suo conto è così negativo da farmi sospettare che lei sia più brillante di lui. Certo, questo non toglie che possa essere poco più di una combinaguai saccente. Lei chi pensa di essere?» Mi fissò da sotto le sopracciglia scure ed equine con uno sguardo che associai a una bruciante ostilità. Ovviamente sarebbe passato molto tempo prima di vederlo invitare un gruppo di Testimoni di Geova zuppi di pioggia nella sua cucina e offrire loro del tè, essendo la persona più gentile del mondo. Aveva i peli dello stesso colore delle sopracciglia che germogliavano minacciosi dal collo della camicia aperta, come l’imbottitura di un divano. Devo aver alzato le spalle in maniera scialba. In che modo potevo fargli capire come stavano davvero le cose per me? Quanto ero guidata dal pavido desiderio di piacere e invece mi ritrovavo ostinatamente incapace di farlo, perché seguivo valori solo miei? Dato che i miei valori non erano condivisi da nessuno di quelli che mi circondavano, non potevo spuntarla. Penso che la mancanza di riconoscimento mi spingesse a mettermi in mostra, nel tentativo di ricavarlo da coloro che esercitavano un’autorità su di me.

    «A volte mi metto in mostra» dissi.

    «Anche io» commentò Jacob.

    Ero una combinaguai a scuola, ma lo ero in maniera marginale, sempre gentile; il mio peccato principale era leggere James Joyce sotto il banco durante la lezione di religione, marinare tutti gli eventi sportivi, ignorare i dettagli più trascurabili dell’uniforme scolastica: per farla breve, puntavo i piedi contro gli aspetti della scuola che mi sembravano superflui nel processo educativo. L’istruzione, per come l’avevo sempre desiderata, la ricevetti solo da Jacob. Era evidente che Jacob si immedesimava nei combinaguai, almeno fino a un certo punto, dato che – come scoprii più tardi – una volta era comparso davanti a un magistrato tory bendisposto nel corso di un’adolescenza travagliata. Il torismo del magistrato aveva insegnato a Jacob a odiare il peccato e non il peccatore, cosa che valeva per il torismo e altre forme di malvagità. Era molto bravo in questo.

    «Mi dica cosa le piace leggere.» Fumò le sue disgustose sigarette proletarie che accendeva grazie a una grossa scatola di fiammiferi e mi diede la parola. Con una sorta di imbarazzo retrospettivo, mi ricordo di avergli detto, tra le altre cose, che pensavo che Wordsworth avesse delle possibilità, che Gesù Cristo era stato un socialista utopista e che non mi piaceva il sesso in D.H. Lawrence. È una tendenza che ho, adesso tenuta a bada: quella di compensare la mia naturale timidezza con bizzarri eccessi di spavalderia.

    «Anche sua moglie non ne va matta» disse lui; cosa che mi sorprese non poco. «Non lo considera tanto sesso quanto un’esposizione indecente. Ma – mi perdoni, visto che questo non è proprio il mio campo – non c’è un elemento di zelante pionierismo in questo? Non è un po’ da ingrati salire sulle spalle del passato e farsene beffa?»

    «Non so» risposi io. «Ma non mi piace molto dover essere grata per le cose.» Jacob prese nota della mia risposta con un incoraggiante sorriso dissimulato.

    «Di certo non sono mai stato colpito da una statuetta di giada cinese» disse. «Mi hanno lanciato una zuppa in scatola della Heinz mancandomi la testa, ma le due cose non hanno lo stesso potere simbolico.» Io andai avanti complicando inutilmente l’unico libro di filosofia che avessi mai letto: una breve pubblicazione di Bertrand Russell uscita per la Home University Library che avevo comprato al mercato di Camden Town, probabilmente per infastidire mia madre, che credeva fossi diventata una donna intellettuale e spaventassi i giovanotti perbene. Ero io a essere impaurita dagli uomini, ovviamente, ma la cosa andava in tutte e due le direzioni. Come diceva Robert Frost, non c’è nulla che mi spaventi come le persone spaventate. Allora dissi a Jacob che Emma era il mio romanzo preferito. Si permise di sottolineare, a mie spese, che almeno lì non c’era sesso. Il sesso, neanche ad averlo saputo, era uno degli argomenti preferiti di Jacob. Arrossii e dichiarai con veemenza per mascherare il rossore: «Certo che c’è il sesso in Emma. Mrs. Weston ha una bambina. Non si fanno figli senza sesso, no?». Jacob scoppiò in una meravigliosa risata rabelaisiana e mi offrì un caffè che prendemmo da un distributore automatico in fondo al corridoio.

    «Senta, fiorellino» disse prima che mi congedassi, «le persone che vengono qui lo fanno a spese dei contribuenti britannici. Mi aspetto che i miei studenti lavorino sodo. Se non è così, faccio del mio meglio per cacciarli via.»

    Durante le vacanze estive ricevetti la notizia – il complimento definitivo di Jacob nei miei confronti – che il dipartimento mi aveva selezionata per frequentare tre corsi.

    2

    Non molto tempo dopo, incontrai un uomo di nome John Millet nella libreria Dillons.

    «Solo marmellata e poesia?» mi disse in un orecchio. Non sapevo chi fosse. Mi raggiunse tra le pile di libri che stavo sfogliando. Parlava un inglese da BBC e sfoggiava un sorriso sghembo da bellimbusto. Nella borsa di reticella che portavo sulla spalla c’era un barattolo di marmellata alle ciliegie e un’edizione tascabile di John Donne. Arrossii intensamente, imbarazzata dal cliché del suo bell’aspetto, dato che John Millet sembrava il modello di una pubblicità della Austin Reed. Era vestito alla moda con un completo di lino chiaro e aveva un pacchetto stropicciato di sigarette francesi che gli spuntava dal taschino.

    «Devo stare attento a non farti arrossire di nuovo» disse godendosi il mio imbarazzo. «Non si abbina ai tuoi vestiti.» Quel giorno indossavo un miniabito viola e largo, lo stesso che avevo messo al colloquio con Jacob. Lo indossavo in modo che andasse ben oltre metà coscia, secondo la moda di allora. Calato su un occhio, portavo un cappello fatto all’uncinetto da me. Io e i vestiti abbiamo una bellissima storia d’amore. Mi risucchiano ogni tipo di energia e spesso riesco a tirare fuori un completo degno di un servizio su Vogue. Una volta, mentre stavo attraversando Tottenham Court Road, un gruppo di fotografi giapponesi iniziò a scattare a raffica. Ero molto esaltata dal fatto che avevano rischiato di farsi investire per una mia foto. Mi piacciono soprattutto i vestiti cuciti a mano. Mi piacciono gli abiti larghi e i lavori a maglia intricati. Riesco a ricamare paesaggi prodigiosi sulle mie maglie. So fare bordi cordati e ricami con le perline. Mi piace realizzare risvolti trapuntati e corsetti.

    Quell’estate John Millet sfoggiava la sua mezza età con grazia disinvolta. Nel pomeriggio mi accompagnò lungo Embankment verso la Tate Gallery nella sua Alfa Romeo bianca, che di recente aveva attraversato le Alpi. Era un architetto appena rientrato dopo quattro anni passati a Roma. Rugoso e abbronzato, se ne stava in piedi tra i pezzi di Henry Moore lisci come ciottoli bianchi. Nella caffetteria del seminterrato con quegli affascinanti murales, mi offrì ciambelle e mi parlò del Vaso Portland. Circondata dall’idillio campestre di quelle pareti mentre osservavo il fumo risalire dalla sua Gauloises, pensai romanticamente a un satiro che suonava il flauto. Tre giorni dopo disse a una parrucchiera di Sloan Square come tagliarmi i capelli.

    «Così. E così.»

    Guardai i miei capelli cadere in zolle pallide sul pavimento. L’effetto, dovevo ammetterlo, era sorprendente. Con i miei seni quasi inesistenti e i fianchi stretti, sembravo un attraente ermafrodito. Uscii a testa alta, tastando l’immaginaria sciabola cavalleresca che avvertivo sulla coscia.

    «Così va meglio» disse, facendo scorrere il pollice nel solco di nuovo visibile sulla mia nuca. Il suo tocco era sempre molto misurato. Cenammo in un ristorante italiano dove divorò uno sconfortante piatto di lumache con una spruzzata di limone davanti ai miei occhi, mentre io lottavo con la mia pasta. All’epoca la mia conoscenza del cibo di altri paesi era limitata alla convinzione che la paprika nello spezzatino rendesse la ricetta ungherese e che le macedonie di frutta confezionate evocassero subito i Caraibi.

    «Si fa così» disse mostrandomi forchetta e cucchiaio, come da tradizione romana. Quando riuscii a mettere in pratica quella tecnica, ritrovandomi una specie di palla da cricket arrotolata all’estremità della forchetta, lui ne fu affascinato in quanto segno della mia disarmante giovinezza.

    «Non ci siamo ancora, sai» disse con gli occhi sorridenti. «A Firenze ci riescono usando solo la forchetta. Trascorrerò un paio di giorni con alcuni amici in campagna… verresti con me?» Avevo tanto di quell’olio di oliva sul mento da sentirmi audace e baccanale.

    «Sì» risposi. «Sì, sì.» Telefonò ai suoi amici dagli uffici deserti del suo studio di architettura a Hampstead.

    «Jane» esordì in tono da cascamorto. «Mia amatissima Jane, posso portare un’amica con me?» Io stavo appollaiata sulla scrivania accanto a lui; ascoltavo ogni parola. La sua amica parlava in modo incomprensibile e rispose con cautela dopo una pausa.

    «Lo sai che non mi piacciono le persone, John. Pensi che mi piacerebbe questa tua amica?»

    «Direi proprio di sì. Te lo garantisco.»

    «E dimmi, John, se posso essere indiscreta, tu e la tua amica state insieme?» John mi sorrise in modo rassicurante, mentre io arrossivo eccitata, senza contegno.

    «Insieme.»

    Mia madre incontrò John Millet solo una volta. Il giorno prima che partissimo per il Sussex. Le suscitò una scarica infinita di indignazione.

    «È finocchio» disse orgogliosa del suo fiuto nell’intercettare un’anomalia sessuale. «Il mondo è pieno di giovanotti carini. Perché esci con un vecchio finocchio?»

    3

    La casa, a guardarla dalla strada, somiglia a quelle che si vedono riprodotte sulla scatola di un puzzle, infestata dal malvone in base alla stagione. Quel genere di puzzle che uno compone su un vassoio da tè durante la convalescenza dal morbillo. Siamo nella campagna del Sussex, non lontano da Glyndebourne. Siamo in zona Virginia Woolf. La signora Goldman è nel suo orto, ma lo lascia e ci viene incontro quando ci vede. Mette giù un setaccio da giardiniere con delle patate e una lattuga e prende le mani di John tra le sue; emana calore.

    «Caro John, che piacere rivederti. Sei bello come sempre, ma devo dirti che stai invecchiando; guarda quanti capelli grigi.» La sua voce è una combinazione elegante di vocali da alta società e sibilanti strette.

    «Sei incinta» nota John con disapprovazione, stringendole ancora la mano. «Eri incinta quando me ne sono andato.» Lei gli sorride.

    «Ma non ero tanto incinta come adesso, vero?» Jane Goldman ha quella protuberanza indiscreta da fine gravidanza che le donne mostrano quando la testa del feto si è posizionata. Sembra enorme con gli stivali di gomma da contadino in cui ha ficcato dei pantaloni di velluto a coste molto vecchi. Li tiene su sotto una camicia da uomo con un cordino da pigiama perché la zip non si chiude più sul pancione. Ciocche di capelli si sfilano dalla treccia castano scuro. Ha il volto di una madonna. Sfoggia un sorriso contenuto e ironico che le crea due fossette sulle guance e ha la fortuna di avere gli occhi più blu che si siano mai visti.

    È una modella di Burne-Jones trasandata, con gli stivaloni da pioggia.

    «I neonati hanno delle gambette adorabili» afferma Jane in sua difesa. «Indossi un pullover carinissimo, John. Quanta eleganza porti dalle nostre parti.» Il petto di John Millet è avvolto in un impeccabile capo di velour blu cielo con le maniche che si gonfiano sopra i polsini elasticizzati.

    «Questa è Katherine» dice lui. Jane Goldman mi scruta con i suoi occhi miopi nell’intensa luce del sole.

    «Ciao» dice prendendomi la mano e concedendomi l’onore del suo sorriso.

    «Perché ti sei fatta crescere i capelli?» domanda John in modo possessivo. «Che pesante acconciatura teutonica. Non mi piace.» Jane ride.

    «Non è un’acconciatura, è trascuratezza» commenta, e aggiunge: «Vai e ammira mia figlia. Rosie è lì. Non è carina?». Indica il punto in cui la figlia di nove anni, scura e tutta gambe, e un’amica stanno costruendo una tenda con una panchina da giardino e una serie di polverosi tappeti persiani.

    «La tua prole sta trascinando i cimeli di famiglia nel fango» osserva John. Jane sorveglia i suoi beni terreni con splendida indifferenza.

    «Qualsiasi cimelio di famiglia vedi lì è qualcosa che mia madre ha tirato fuori dal capanno» risponde lei. «Come stai, John? Stai passando bene il tuo tempo?» John non parla di sé. Preferisce forme e manufatti.

    «Non sei mai venuta a trovarmi a Roma.» Lei gli sorride con pazienza.

    «Ti sei mai chiesto quanto costa portare i Goldman a Roma? In ogni caso a Jake piacciono le gite di un giorno a Worthing. Non ama andare all’estero.»

    «Worthing puzza di alghe. Tuo marito è pazzo. Avresti dovuto lasciarlo a casa.»

    «Magari tu fossi così fortunato» dice lei. «E i matti non sono forse le persone migliori?»

    «Il tuo giardino è splendido come non mai» dichiara John apprezzando il gradevole aspetto selvatico dei fiori spontanei.

    «Non gli presto molta attenzione. Trascorro tutto il mio tempo con i cavoli, in questi giorni. Io e Jake abbiamo discusso proprio di questo stamattina. Dice che dedico troppo tempo al giardino.» Fa una breve risata. «Quello che vuole dire, in realtà, è che ha bisogno di una moglie devota che gli batta i testi a macchina e lo ascolti mentre cavilla sui giornali della domenica.» John sorride.

    «Come sta Jake?»

    «Non potrebbe stare meglio» risponde dando un tono cospiratorio a quell’ammissione. «Direi che le cose gli stanno andando piuttosto bene. Non lo ammetterà mai, ovviamente. È un vecchio bastardo vanitoso. Gli piace mostrarsi sofferente in pubblico. Sta passando il fine settimana a lamentarsi delle bozze. Porterà il nuovo libro a Londra domani.» È evidente che John trae consolazione dal fatto che i suoi amici non siano cambiati. Ha bisogno che non cambino.

    «Entriamo dentro. Sarà molto contento di vederti.»

    «E i ragazzi?» le chiede John mentre camminiamo lenti verso la casa.

    «Sono splendidi. Roger e Jont sono dei giganti, hanno la voce profonda e i piedi enormi. Roger è qui da qualche parte. Jonathan sta pescando come sempre, ma si farà vedere all’ora di pranzo. Si somigliano tanto. Roger è bellissimo e Jonathan è un combinaguai. È bellissimo anche lui, ma è un combinaguai. Rosie è una creatura adorabile, pigra e viziata. Credo possieda il dono di piacere agli uomini… Jacob è affascinato da lei in tutto e per tutto. Non fa altro che nuotare e fare la ruota. I piccoli sono deliziosi. Non danno più fastidio di un paio di gattini. Nessuno di loro sa contare fino a dieci. John, ti ricordi Roger a quattro anni e di come ha scoperto il concetto di infinito stando alla finestra a contare le macchine? All’improvviso era colpito dall’idea che i numeri potessero andare avanti per sempre. E ti ricordi che Jacob ci fece poi uscire con pochi spicci per comprare dei dolcetti appiccicosi per festeggiare? Ma quanto eravamo sciocchi?»

    «Sarò sempre grato a Roger» osserva John in maniera galante e gentilmente ironica. «Quando aveva tre anni, mi disse che ai capodogli piaceva fare merenda con i piccoli squali qualche volta, e non l’ho mai dimenticato.»

    «Leggeva tutti quei libri straordinari sui dinosauri.» A quanto pare, di recente Roger Goldman ha vinto un concorso dell’Observer con un finto saggio di storia naturale in cui si afferma che la Terra è piatta. John accenna a questo fatto, e la madre se ne compiace. Lo ha letto sull’Observer, che riusciva a reperire anche a Roma. John Millet pronuncia il nome del ragazzo come se non fosse lo stesso del pittore. Questo contribuisce a esprimere l’understatement di chi è stato bene educato. Sono vent’anni che non fa che manifestare il suo amore per Jane Goldman con omaggi cavallereschi ed eleganti.

    4

    Nel soggiorno, in compagnia di due marmocchi scuri e ricci e circondato da numerose copie degli inserti domenicali, c’è il mio professore di filosofia: una coincidenza che mi fa sentire più che marginale e inopportuna in una riunione di vecchi amici di mezza età. Porta la camicia sbottonata rivelandomi il fatto che i peli gli crescono come una coperta fino all’ombelico. Suppongo si tratti di un’anomalia trascurabile che lui sopporta con stoicismo. Tuona un benvenuto per John e si alza abbottonandosi la camicia.

    «Ormai sei brizzolato» dice ispezionandolo divertito. «Sembri un’eminenza. Cristo, John, somigli al presidente del National Coal Board.» Lo abbraccia con calore, come fosse una stella del calcio. John gli parla con calma, ma con altrettanto piacere.

    «Ho sentito dire che in questi giorni sei sulla BBC» dice schermendosi. «Come stai, Jake? Sei in grandissima forma.»

    «Tiriamo avanti» risponde Jacob. «Tiriamo avanti.»

    «Ti ho portato una ragazza squisita.» Dire che mi sta sul serio offrendo a Jacob è fuorviante; è chiaro. A John piace far capire che c’è qualcosa in più di ciò che appare, e si comporta di conseguenza. In ogni caso Jacob è troppo monogamo, troppo preso da Jane per contemplare altre donne e troppo fraterno nelle amicizie. Forse John lo dice per comprometterci entrambi o per creare un mito attorno a se stesso che legittimi il suo flirt con la moglie di Jacob.

    «Questa è Katherine» spiega Jane Goldman. La mia presenza non sembra metterlo a disagio.

    «Bene, bene» commenta in modo enigmatico. «Katherine, giusto? E questi sono i miei adorati bambini. Sam ed Annie.» I piccoli gemelli hanno fatto una montagna raccogliendo tutti i cuscini di casa e ci saltano sopra tutti allegri. Uno dei cuscini si è scucito e sta rigurgitando pezzi di imbottitura sul tappeto che è già ricoperto di macchie di caffè e polvere. «Sono grandi, vero? Troppo tardi per iscriverli a Eton.»

    «Senza contare che uno dei due è femmina» osserva John. «Ehi, Jake, tua moglie è incinta. Ma cos’avete voi due che non va?»

    «Ci piace scopare.» La parola casca come un masso sulle mie sensibilità da principiante, ma non scompone minimamente né la moglie né John.

    «Non essere evasivo» insiste John. «Voglio sapere cos’avete voi due. Capisco che quattro figli non siano un numero intollerabile, e capisco che nessuno poteva aspettarsi dei gemelli. Ma sei figli? Perché avete sei figli?» Jacob non si lascia coinvolgere, percependo, forse, un minimo di involontaria libidine nell’insistenza di John.

    «Mi piace calarle giù le mutande» dichiara. «Mi piace lei, Madonna santa. È mia moglie davanti agli occhi della legge.»

    «Ma voi non siete cattolici, no?»

    «Vuoi che prenda pillole di ormoni e le venga un cancro?» replica Jacob in modo bizzarro. «O preferisci che si infili qualcosa di rame su per la cervice?» (Fino a quel momento non avevo idea di possedere qualcosa di simile a una cervice e che tale conoscenza potesse indurmi a contemplare profeticamente per la prima volta la mia regione pelvica come una potenziale area disastrata.) «Cent’anni fa le donne si

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