Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Type Me
Type Me
Type Me
E-book420 pagine6 ore

Type Me

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Type me è un libro che si fa attendere, ma che poi ripaga.

Al centro di questo racconto c'è una vecchia macchina per scrivere, vera catalizzatrice di tutta la storia e c'è Marco, tredicenne con seri problemi motori, che ha ereditato quella macchina dal padre morto in circostanze misteriose.

Marco e i suoi amici verranno coinvolti in un'avventura che mai avrebbero creduto di poter vivere nella loro piccola cittadina, dove tutto sembrava scorrere nella normalità quotidiana. La prima parte, dove gli eventi scorrono quasi in tempo reale, è in realtà fondamentale per scoprire la psicologia dei personaggi. Essi, soprattutto attraverso il racconto del loro passato, ci vengono presentati in maniera impeccabile. Un ottimo modo per preparare il lettore alla seconda parte della storia, dove la vicenda si evolve con un ritmo sempre più accelerato fino ad un palpitante epilogo. La tecnica narrativa di questo affascinante quanto inquietante romanzo, non concede al lettore nessuna tregua. L'abilità descrittiva dei luoghi e dei sentimenti in certi passi è poetica e allo stesso tempo molto realistica.

Suspence, paura, orrore ma anche amore, amicizia e legami: sono questi gli ingredienti che, sapientemente mischiati dall'autore, compongono una narrazione di tutto rispetto.


Gianluigi Ciaramellari è milanese di nascita ma di origini pugliesi e marchigiane. Consegue il diploma di Geometra nel 1981 a Firenze dove, per trent'anni, svolge la libera professione arrotondando le poche entrate di Geometra facendo il cameriere, il barista e il venditore porta a porta. Dal 2014 gestisce un negozio di sigarette elettroniche. Fin da bambino gli piaceva annotare le sue avventure giornaliere tenendo diari, anno dopo anno. Crescendo ha cominciato a sostituire i racconti dell'accaduto reale in storie di pura fantasia, con un suo stile inconfondibile, molto vicino a quello dei romanzieri dei primi del '900. Non è uno scrittore "di genere", perchè a Gianluigi piace esplorare ogni tematica, scavando sempre in profondità nel terreno delle passioni umane.
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2023
ISBN9791222080284
Type Me

Leggi altro di Gianluigi Ciaramellari

Correlato a Type Me

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Type Me

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Type Me - Gianluigi Ciaramellari

    1

    (Sabato 17 dicembre)

    Alle sette di sera, iniziarono ad oscillare.

    Venti minuti prima, la mamma di Marco, già vestita con abiti invernali, aveva dato precise istruzioni al figlio. Aveva scandito bene le sue parole, alcune sillabandole.

    «Stai tran-quil-lo. Non toccare nulla, soprattutto i for-nel-li. Mettiti davanti alla tv e guarda i tuoi cartoni preferiti, ho già messo il canale. Lapo ha già mangiato la pappa e ti farà compagnia. Tienilo vi-cino-vi-ci-no.»

    Marco aveva guardato la madre dal basso verso l’alto, dalla sua carrozzina. Se quella sera fosse stato in grado di stare in piedi, avrebbe potuto guardarla dritto negli occhi, come quasi tutti i suoi coetanei di tredici anni guardano la propria madre, a volte con ammirazione o con particolare attenzione e a volte con sguardi di sfida. Gli occhi di Marco però, non erano più capaci di comunicare i suoi stati emotivi, la cerebellite gli aveva pure spento una luce interiore, oltre a procurargli frequenti e improvvisi tremori agli arti inferiori e superiori.

    Cinque minuti prima delle sette, la mamma di Marco aveva da dire ancora una cosa al figlio, e provò a dirla modulando la voce nel tono più dolce che le riuscì:

    «...Vorrei poterti guardare negli occhi, quando ti parlo. Potresti aprire il sipario che hai calato sul viso, per favore?»

    Un sipario di capelli lunghi, lisci e neri, che Marco usava portare all’indietro, come le ragazze, e che però, quando voleva manifestare rabbia o turbamento, con uno scatto della testa faceva cadere davanti al viso, a nasconderlo interamente.

    Una sorta di maschera, dietro la quale i suoi occhi verdi potevano continuare ad osservare il mondo esterno ma tagliuzzato in sottilissime fette. Una maschera che poteva evitargli i bagliori dei lampi dei temporali, che lui si trovasse dentro o fuori casa, e da tutte le luci lampeggianti o a intermittenza, come le sirene delle ambulanze.

    Aveva scoperto di poterla indossare quando ancora non ce la faceva a stare in piedi, senza dover usare le stampelle. Quella maschera lo teneva al riparo dagli sguardi pietosi di chi incontrava per strada. Poteva calare un sipario sulle risatine di quel gruppetto di stronzi della scuola, che lo additavano deridendolo.

    Che colpa ne aveva lui, se le sue gambe non riuscivano più a mettersi d’accordo tra loro?

    Guardò la mamma attraverso i capelli, nascondendole la fronte corrugata dall’apprensione.

    «Mi a-avevi p-promesso che non a-avresti fatto altri turni di sabato sera, f-fino alla fine delle va-vacanze di Natale!»

    Lei avrebbe voluto aprire il suo sipario, magari con una carezza. Però non ci provò e aggiunse solo, mestamente:

    «Abbiamo bisogno di soldi, Marco. Porta pazienza.»

    «Va bene, vai a-adesso, a-altrimenti farai tardi. N-non ti preoccupare p-per me, cercherò di s-stare tranquillo.»

    Indietreggiò con la carrozzina, a far intendere che non c’era altro da dirsi. Sua madre uscì sul pianerottolo, lo guardò inclinando il capo di lato e abbozzò un sorriso; poi si girò di spalle e andò via tirandosi dietro la porta.

    KLACK!

    Quaranta secondi prima delle sette, Marcò restò immobile ad ascoltare il tacchettio delle scarpe che scendevano rapidamente le due rampe di scale; udì aprirsi e richiudersi il portone di ingresso del villino e infine sentì sbattere il cancelletto del giardino.

    Soltanto dopo quel clangore, si sentì solo.

    Abbandonato.

    L’orologio a parete dell’ingresso segnò le sette.

    Marco tirò i capelli indietro per vedere meglio le lancette dorate sul quadrante avorio. A quell’ora in tv, sul sesto canale iniziava il cartone Scooby Doo. Piaceva anche a Lapo, un pastore tedesco di otto anni, che sbavava sempre copiosamente quando vedeva l’alano del cartoon cibarsi di panini imburrati, hot-dog, torte e altre strane prelibatezze. Nel guardare l’orologio, Marco fece un breve calcolo mentale: avrebbe guardato la televisione fino alle otto, e dalle otto alle otto e trenta avrebbe consumato una triste cena da solo, ovvero patate lesse (tiepide), tonno e pomodori già impiattati, conditi e coperti, tre fette di pane abbrustolito. Dopo aver cenato, ancora televisione fino alle undici. Ecco, fino a qui tutto bene, ma al momento di andare a letto, avrebbe dovuto affrontare tutte le sue paure. Dalle undici alle tre sarebbero state ben quattro ore di dormiveglia in agitazione, con lo stress a mille. Mamma sarebbe rincasata solo verso le tre, appunto, sempre se tutto fosse andato per il giusto verso, anche quella notte.

    Un refolo d’aria fredda passò veloce e sibilando per il corridoio. Marco lo avvertì fisicamente come una scossa. Restò irrigidito sulla sedia a rotelle e pensò a quale finestra non fosse stata serrata bene dalla madre. Eppure, l’aveva vista fare il giro del villino prima che uscisse, per controllare che non ci fossero finestre o portefinestre magari solo accostate. Era una donna molto scrupolosa la signora Viviana, lo era in ospedale, lo era tra le mura domestiche e con il figlio lo era in modo ossessivo.

    Però, l’unica porta che lui aveva sempre visto chiusa, da quando viveva in quella casa, era invece stranamente socchiusa e una luce giallognola filtrava dalla segreta stanza. Proiettandosi come un nastro d’oro luccicante che tagliava obliquamente il corridoio, si allungava arrampicandosi sulla parete opposta, con furtiva lentezza. Nel cuore di Marco, curiosità e paura se le dettero di santa ragione. Quella stanza era sempre stata a lui interdetta ma fino a che non aveva compiuto i nove anni, questo limite non lo interessò più di tanto. Quando poi cominciò a incuriosirsi, il padre gli disse che era il suo rifugio segreto, dove pure conservava oggetti a lui molto cari, che gli avrebbe concesso di vedere (e magari anche toccare), solo al compimento della maggiore età.

    Erano davvero tante le cose che Marco avrebbe potuto fare dai diciotto anni in poi e perciò non vedeva l’ora di diventare adulto. I genitori invece, gli ricordavano spesso che l’età più bella era la sua adolescenza, e che non doveva avere fretta di crescere, dicendogli pure che la vita degli adulti è più difficile, perché le responsabilità e i sacrifici prendono il posto dei giochi e della spensieratezza. Però Marco sapeva anche altro. Lo sapeva perché aveva spiato una conversazione tra mamma e papà, una caldissima sera di fine estate, quando un improvviso bisogno di bere lo costrinse a levarsi dal letto.

    Aveva da poco compiuto i dieci e quella sera non si trattò solo di bisogno d’acqua. Quella sera si annunciarono i suoi seri problemi di salute.

    Passando silenzioso e a piedi nudi davanti alla porta del salotto, sbirciò i genitori che, mentre facevano una partita a ramino, si confidavano dei segreti. Ameno così gli sembrò. Parlavano a bassa voce continuando a guardare ognuno le proprie carte, così che non si accorsero del figlio ch’era fermo sulla porta, alle loro spalle. Se ne accorsero solo quando sentirono un botto sordo provenire dal corridoio e, girandosi contemporaneamente, sbiancarono in viso quando videro Marco a terra, privo di sensi.

    Marco non ricordò cosa successe dopo. Si risvegliò nel letto di un ospedale, dove rimase dieci giorni, dovendo passare al vaglio di numerosi accertamenti clinici.

    Ricordava però le parole del babbo, perché furono le ultime che udì da lui.

    Suo padre morì il giorno prima che lui uscisse dall’ospedale. Circostanze ancora da chiarire. Forse un malore mentre faceva jogging lungo un viale che costeggiava un grande parco, una tarda sera di metà settembre. Però lo aveva anche investito un mezzo. Forse era morto prima che venisse investito o forse il mezzo che lo aveva travolto gli aveva dato il colpo di grazia. Comunque si trattò di un’auto pirata, questo era certo. Nessuno aveva visto nulla e il luogo dell’accaduto non era sorvegliato da telecamere. Davanti alla porta socchiusa, quelle parole gli volarono in mente come uccelli saettanti dalla chioma di un albero.

    ^^^^

    «Riesco a scrivere solo con lei. Ho provato con il computer ma nonostante sia più facile e veloce, LEI riesce ad accendermi la creatività, la passionalità, la voglia di mettermi a muso giù, per arrivare in fondo a tutte le mie storie. – Ricordò che sua madre annuiva, mentre sceglieva le carte da buttare sul tavolo – E sai che le ho dato anche un nome? L’ho chiamata Horry.» «Magari ci parli anche, – sentì dire dalla madre che aveva tirato giù due tris ed anche per questo aveva un tono allegro – dovrei essere gelosa?» «Horry ha qualcosa di magico. Soltanto a guardarla mi viene subito voglia di battere sui tasti e quando comincio non vorrei più fermarmi. Mi arrendo solo per la stanchezza. A volte scrivo interi racconti in una sola notte e quando tiro via l’ultimo foglio, non sento le più le dita, come se si fossero addormentate. Provo anche quella sensazione di... punture di spilli.»

    «Un giorno o l’altro un editore scoprirà il tuo talento.»

    «Allora dovrà darsi da fare, perché di racconti ne ho scritti ben centotrenta!» Le pupille gli si dilatarono per un attimo.

    Viviana non se ne avvide così intenta a guardare le sue carte: «Potrebbe farci un’antologia! Hai già pensato a come vorresti firmarti?» «Se ci ho pensato? Certo, Vivi! Ho usato il nome con cui mi chiami sempre tu, Henry, Henry Sebastian.»

    «Oooh! Di sicuro suona meglio di Enrico Sebastiani! Poi, un giorno si saprà che Henry scriveva Horror con la sua amatissima Horry! E perché allora non firmarsi Henry Sebastian Horry? Che te ne pare?»

    «Che te ne pare a te di questa? – Disse il padre disponendo sul tavolo una decina di carte, in una fila ordinata – E ho chiuso!» Esclamò trionfante. Fu in quel momento che udirono un tonfo, si girarono verso la porta e videro Marco steso a terra, privo di sensi.

    ^^^^

    Osservando la luce che filtrava dallo spiraglio aperto della porta, Marco vide che la striscia luminosa veniva attraversata ritmicamente da un’ombra che ora passava e poco dopo tornava, sempre sulla stessa linea. Guardò meglio stando immobile nella carrozzina e si concentrò su quell’ombra, come se volesse fermarla con una istantanea da scattare con la mente. Era l’ombra di un bambolotto. Tremò dal terrore così tanto che la sedia a rotelle avanzò di qualche centimetro verso la porta. Allora udì e riconobbe chiaramente il fiato ansimante di Lapo. Il cane era dentro la stanza. Se Lapo era dentro, anche lui poteva entrare. Lapo era il suo angelo custode. In assenza della badante, (nei suoi giorni di riposo), il cane assolveva benissimo da solo il compito di sorvegliante.

    Marco si fece coraggio e avanzò ancora un poco, quel che bastò per avvicinarsi alla porta per spingerla con le pedane della carrozzina. La porta invece si spalancò e Marco fu investito da una luce abbagliante. Si parò gli occhi con entrambe le mani lasciando solo una fessura tra due dita, così da poter vedere qualcosa. A circa tre metri davanti a lui c’era una scrivania con la sedia che dava lo schienale alla porta. Dietro la scrivania c’era Lapo che, da almeno un minuto era eretto sulle zampe posteriori, tenendo una zampa anteriore poggiata sul piano di legno e l’altra sul cappello d’ottone della lampada. Era stato Lapo ad orientare il fascio di luce. Perché? Per attirare Marco nella stanza avrebbe potuto solo abbaiare. Certo, ma la luce non fa rumore e il cane non avrebbe mai abbaiato là dentro, non avrebbe mai disturbato quelle cose terrificanti, che sembravano morte ma che forse erano solo addormentate. Marco si scoprì il viso lentamente, mentre Lapo abbassò la luce verso il piano di scrittura, sul quale c’era Horry, la macchina per scrivere. Senza dire una parola, volendo assecondare il silenzio del cane, dette uno sguardo intorno. Dietro Lapo c’era la finestra che dava sul giardino, con le persiane chiuse, (suo padre non le aveva mai aperte). Sulla parete a sinistra della finestra spiccava una copia del quadro di Goya, Saturno che divora i suoi figli, mentre su quella a destra, una riproduzione del Giuditta che decapita Oloferne, della pittrice italiana Artemisia Gentileschi, insomma due quadri dell’orrore illuminati dai faretti del soffitto. Le pareti laterali erano arredate con librerie alte un paio di metri e in stile barocco, come la scrivania. Sui ripiani, oltre a decine di libri, si trovavano oggetti strani, tra i quali statuette in pietra di gnomi con volti demoniaci, un teschio umano di cristallo, mezzibusti in bronzo di streghe ed orchi, riproduzioni in miniatura di animali preistorici (dall’espressione feroce) in gesso colorato. Da alcune canalette bianche attaccate al soffitto penzolavano appesi a fili di nylon, sette bambolotti con arti spezzati o mancanti, con i volti deturpati da lividi o rigati di rosso sangue, tre pipistrelli e due ragni di gomma nera e tutti questi oscillavano. Ciondolavano con lo stesso ritmo e nella stessa direzione, come se fossero mossi da una corrente d’aria percettibile solo a loro. Marco aveva saputo che suo padre amava scrivere racconti horror, ma nemmeno poteva immaginare però, che avesse allestito quella stanza ad un tempio delle cose paurose. Dalla sala giunse la musica di sottofondo del cartone Scooby Doo. Quella sera c’era la puntata Paura al campo estivo e guarda caso, l’accompagnamento musicale per le prime scene era proprio da paura, intermezzato da risate sataniche.

    Marco aveva già visto quella puntata, aveva già provato dei piccoli brividi per la scena iniziale ma non erano nulla in confronto al panico che lo assalì nel riascoltare quel sottofondo, con la visione di quella stanza. Per tutto il giorno aveva cercato di predisporsi tranquillo, per affrontare la notte senza la mamma. Aveva passato il pomeriggio con i suoi giornaletti preferiti ed era riuscito, per qualche pagina, a leggere pure i testi fluttuanti nei fumetti, anziché limitarsi a guardare solo le vignette. Per questo risultato si era sentito davvero bene, ( oh yeah!), tanto d’arrivare a credere per la prima volta e con uno slancio di vero ottimismo, che sarebbe guarito presto. Da circa un mese aveva notato dei miglioramenti. Era già in grado di articolare dei brevi discorsi senza incespicare, senza doversi fermare per concentrarsi, nel tentativo di costruire una frase perfetta. Allora per Marco la perfezione stava nell’arrivare a parlare normalmente, mentre fino a pochi anni prima avrebbe creduto dovesse essere una cosa assolutamente naturale. Avrebbe creduto, perché non ci aveva nemmeno mai pensato che potesse diventare così difficile. Di sicuro non poteva immaginare che sarebbe successo a lui. Invece, la cattivissima Rebell, (aveva chiamato così la sua malattia, immaginandosela come una strega), aveva scelto di tormentare proprio lui, tra tutti i ragazzini del mondo.

    " Maledetta! – pensò posando gli occhi sul busto di bronzo di una strega che sembrava fissarlo dal ripiano di una libreria – lo so che mi stai osservando! Vuoi giocare con le mie mani anche stasera, vero? Vuoi che mi metta a tremare qua dentro, vuoi farmi toccare le cose di papà per divertirti nel vedere come divento maldestro e per questo molto bravo a rompere tutto? No! Non toccherò nulla. Tu non riuscirai a farmi toccare nulla qua dentro, NULLA! Questo è il regno di mio padre!"

    «Lapo a-andiamo via, d-dai!» Richiamò il cane muovendo un braccio in maniera goffa e disarticolata, (come se si fosse addormentato o addirittura slogato).

    «Lapo! V-vieni qua!» Ripeterlo non servì, non in quel momento. Il cane girò invece intorno alla scrivania e con il muso spinse la sedia più in là, per liberare uno spazio utile a far avvicinare al tavolo la carrozzina. Poi rialzò il muso, drizzò le orecchie e fissò Marco negli occhi. Inclinò il capo continuando a guardare il ragazzo che, sconcertato, aveva capito cosa gli stesse chiedendo il cane ma proprio non se la sentiva di avvicinarsi alla scrivania.

    «No Lapo! No!» Marco provò a distogliere lo sguardo da quello del cane, però nei suoi occhi c’era qualcosa che riusciva a tenerlo in ostaggio. C’era qualcuno.

    Suo padre?

    Quella domanda gli attraversò la mente, d’un tratto abbuiata, come una meteora che traccia una linea corta e incandescente nel cielo notturno e poi scompare nel nulla. Una mente in quel momento ottenebrata da un misto di terrore e afflizione, due sensazioni che gli oscurarono quei già pochi ed elementari residui di attenzione per le cose e le situazioni, perché Rebell era stata così cattiva che gli aveva iniettato un veleno nel cervelletto, ( oh sì! Ti ricordi Marco, quella puntura fulminea e dolorosa? Quella che i dottori chiamarono ictus?), che ogni tanto si risvegliava nei vasi sanguigni e lo rendeva incapace di controllare i movimenti, il discorrere e il pensare.

    Lapo sbuffò e prese ancora l’iniziativa. Andò dietro Marco e alzandosi ancora una volta su due zampe spinse la carrozzina. Riuscì a fargli incastrare le gambe tra le due cassettiere sottostanti la scrivania. Il ragazzo non poté reagire. Si sentì calamitato alla sedia a rotelle con braccia, gambe e busto. Riusciva solo a muovere la testa che, convulsamente agitava da destra a sinistra, mentre con voce rotta da fremiti di paura continuava a ripetere:

    «No, Lapo, no, no, no!».

    Al terzo no! alzò la testa implorando un aiuto dal cielo e fu allora che si rese conto che tutte quelle cose da incubo appese al soffitto si erano immobilizzate, fissate nell’aria, come se la stessa fosse diventata una massa gelatinosa che le aveva intrappolate, bloccando in un istante quel moto oscillatorio che fu causato dalla spinta di una forza occulta. Quando riabbassò il capo, i suoi occhi si posarono su Horry. Un foglio era inserito nel carrello della macchina per scrivere e spuntava di una decina di centimetri al di sopra del nastro inchiostrante. Era ancora bianco immacolato e vibrava di tremuli riflessi della luce della lampada. Marco non era il solo ad avere sbalzi di tensione, in quella stanza. Fuori, nel giardino, un gatto miagolò lamentoso. L’aria, umida e fredda, si era fatta nebbia e avvolgeva il villino fluttuando in vari strati, come fantasmi danzanti. In quella densa e palpabile foschia la casa sembrava sospesa nel vuoto. Era una delle villette più piccole rispetto alle altre di quella frazione collinare e dava segno d’essere abitata solo per lo sfarfallio azzurrognolo della tv, che si intravedeva da una finestra. Nebbia e silenzio penetrarono e circondarono quel grappolo di villini nascondendolo al resto del paesaggio. L’ultimo suono che si udì fu il miagolio del gatto, mentre dal cielo già stava calando una fitta coltre misteriosa, come se fosse d’ovatta. Ispessendosi ricoprì quel luogo e soffocò ogni rumore. Nella stanza degli incubi, Marco continuava a fissare il foglio bianco nella bocca di Horry, intrappolato tra i suoi denti metallici a corona (e scintillanti). Provò il desiderio di posare le mani sui tasti. " Horry ha qualcosa di magico" gli ripeteva in testa una vocina. Sebbene lo sentisse anche lui quell’irrefrenabile impulso di battere con le dita sulle lettere, si tratteneva solo perché sapeva che non sarebbe riuscito a scrivere correttamente nemmeno una parola. Non voleva rischiare di sporcare quel sacro foglio, che forse era stato inserito dal padre per dare vita all’ennesimo racconto, oppure per continuarne uno, o magari poteva essere quello l’ultimo foglio dell’ultimo romanzo, sul quale avrebbe potuto scrivere con somma soddisfazione la parola FINE.

    Gli affiorarono due grosse lacrime nel momento in cui pensò che quella parola l’aveva invece messa un tragico destino nella vita ancora giovane del papà e che l’aveva voluta pure scrivere a caratteri di sangue.

    Horry sollecitò il ragazzo a provarci. Lo incoraggiò facendo ondulare il lembo superiore e sporgente del foglio, che curvandosi per un attimo all’indietro sembrò il gesto di mano di chi invita a compiere un’azione, o l’invito di un bullo che lo aizzava alla lotta: Dai! Coraggio, fatti avanti!. Era una macchina per scrivere di tipo meccanico. La marca e il modello dovevano essere riportate al centro della sua scocca nera ma non si potevano leggere, perché proprio sopra c’era stata applicata un’etichetta rossa di vinile, sulla quale risaltavano impresse a rilievo e di un rosa pallido delle parole in lingua inglese:

    T Y P E M E!

    Marco era a digiuno in fatto di macchine per scrivere, lui era nato e cresciuto in un mondo dove i computer erano già nell’uso domestico di ogni famiglia. Viveva in un mondo rigurgitante di smartphone, tablet e notebook. I ragazzi della sua età avrebbero avuto difficoltà persino a comporre un numero di telefono su quei modelli a ghiera e cornetta e lui, dopo l’ictus, non ci avrebbe nemmeno voluto provare. E pensare che già a sei anni era capace di giocare con il tablet della mamma, a otto sapeva gestire in autonomina alcune elementari operazioni con il computer del babbo. Così, per il decimo compleanno, i suoi gli regalarono un notebook, limitandogli però l’accesso a internet. Nei primi tre mesi di uso, già se la cavava benino con Word e pur battendo la tastiera con un solo dito riusciva a scrivere velocemente il diario delle sue giornate. Dopo l’ictus scoprì con profondissima angoscia che il suo dito non sempre riusciva a battere sul tasto del notebook come lui voleva, perché spesso quello si spostava di traiettoria in maniera repentina e finiva sul tasto vicino. Ciò accadeva specialmente quando si sentiva stanco o nervoso, quindi affrontava il computer solo in alcuni momenti della giornata e solo per pochi minuti. Ogni errore di battitura era molto frustrante per lui. Non poteva tenere la mano vicinissima alla tastiera, quasi a sfiorarla, perché avrebbe sicuramente schiacciato diversi tasti contemporaneamente e cancellare gli errori era ancora più difficile. Perciò la teneva alzata di una spanna e prendeva la mira sul tasto che voleva cliccare, concentrandosi per uno o due secondi e poi giù! a battere con forza e determinazione.

    Per riuscire a scrivere correttamente una frase di dieci parole, pressappoco di cinquanta battute, ci impiegava minimo tre minuti, tra mirare e concentrarsi per calare il dito sul tasto giusto. Una persona sana, che usa il computer per lavoro da almeno un anno, può arrivare a fare anche cento battute al minuto con solo due dita. Un professionista ne può fare benissimo anche trecento nello stesso tempo usando tutte le dita di entrambe le mani. Enrico Sebastiani, Henry Sebastian, come diceva di firmarsi, poteva essere considerato un vero recordman, poiché arrivava a fare quattrocento battute al minuto, senza errori e usando solo tre dita per mano. Per di più, le faceva battendo i tasti di una macchina per scrivere meccanica!

    Da circa tre mesi Marco possedeva un nuovo computer con il riconoscimento vocale, in grado di scrivere sotto dettatura. Perciò, riuscì di nuovo a riprendere il diario delle giornate ma a quel punto però, non aveva niente di interessante da scrivere, se non qualche riflessione sulle sue condizioni di salute, annotando i miglioramenti se ce ne fossero stati, oppure si limitava a dettare alcune poesiole, che gli venivano spesso all’imbrunire, insieme alla nostalgia del padre. La madre aveva scoperto la password di quel computer quando una sera, origliando alla porta, udì il figlio scandire a voce più alta del solito la parola REBELL. Così un giorno, mentre Marco era a scuola e lei aveva il turno pomeridiano, aprì il computer e digitò REBELL nel campo di testo della password. La password non è corretta, rispondeva il display con una grafica antipatica.

    Certo, non doveva scriverla, doveva dirla, con la voce di Marco.

    2

    Horry può avere una password? Se lo domandò Marco, abituato al mondo moderno, dove le password sono richieste su qualsiasi sistema che contenga o possa contenere informazioni private. Per Marco era possibile che pure Horry le contenesse, in una sua memoria interna. Lui non aveva mai avuto a che fare con una macchina per scrivere. Aveva visto questi oggetti solo nei film, quelli ancora in bianco e nero che i suoi conservavano nelle videocassette e nei DVD. Aveva visto dei dettagli, attirato dalla curiosità tipica dei bambini, ovvero che il dattilografo batteva le dita sui tasti e alzava o abbassava il foglio girando una rotella, oppure che il foglio scorreva da solo quando a fine riga spingeva una levetta per andare a capo. Gli era simpatico il suono che produceva la macchina nell’andare a capo: Ding!. Però Marco non poteva sapere se e dove la macchina nascondesse la sua memoria e, perdinci! la doveva avere, come tutte le dannate cose di questo mondo! Come i telefonini, i computer, i lettori mp3, i telepass, le televisioni, le macchine fotografiche, e via e via. Una memoria l’aveva anche la sua sveglia e funzionava egregiamente, purtroppo. L’aveva anche il robottino della cucina, quello con cui la mamma cucinava di tutto. Quindi Marco pensò che sì, anche Horry doveva averne una. Perciò doveva avere una password, a protezione di quella memoria.

    La sola memoria che possedeva Horry, in realtà era impressa sul rullo dai martelletti, ed era una memoria molto labile, confusa, inattendibile. Ma il ragazzo non si sbagliava sul fatto che anche quello strumento avesse una password. L’aveva. Eccome se l’aveva! Con Lapo che ora gli stava vicino sul lato sinistro, Marco continuava a fissare Horry, immobilizzato sulla carrozzina, incastrato con le gambe sotto la scrivania e le mani abbarbicate ai braccioli. Nella sua mente cominciò a riecheggiare un canto infantile, che proveniva da molto lontano. Era una filastrocca che aveva imparato a sei anni. Partita dal lato più oscuro dei suoi pensieri, la voce del bambino che cantava si faceva sentire sempre più forte. Marco ne ripeté le strofe, intonandosi a bassa voce:

    Il lupo feroce, scappa veloce!

    «Il lupo f-feroce, s-scappa veloce...»

    La strega che danza, non è in questa stanza!

    «La s-strega che d-danza, non è in questa s-stanza...»

    Mostri e cattivi, non sono più vivi!

    «M-mostri e cattivi, non s-sono più vivi...»

    La notte è sempre scura, ma io non ho paura!

    «La notte è s-sempre s-scura, ma io non ho p-paura...»

    Nel sussurrare la filastrocca, non si era accorto che la televisione del soggiorno non emetteva più alcun suono. Al posto di Scooby Doo era comparsa l’immagine statica e muta di un cartello con scritto, a caratteri bianchi su sfondo blu:

    LA TRASMISSIONE SARA’ RIPRESA

    IL PIU’ PRESTO POSSIBILE

    A un certo punto, il bambino nella mente continuò da solo a cantare, invece Marco staccò una mano dal bracciolo della carrozzina e la sostenne, alta e tremante, per dieci secondi sopra i tasti di Horry, puntando il dito indice sulla lettera H.

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    La strega che danza, non è in questa stanza!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    La notte è sempre scura, ma io non ho paura!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    La radiosità azzurrognola della televisione riverberava sul mobilio del soggiorno e sugli oggetti. I quadri alle pareti assunsero colori smorti e uno di loro, che era il ritratto a carboncino del viso di una giovane donna, sembrò essere stato disegnato da un medico di anatomia patologica, con un gusto un po’ macabro.

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    Mostri e cattivi, non sono più vivi!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    In cucina, invece, la lampada sulla tavola da pranzo proiettava un cono di luce sulla cena di Marco (ormai fredda): due piatti coperti da altri due, un bicchiere capovolto, una bottiglia d’acqua, due posate. Un moscerino svolazzava ora intorno ai piatti e ora intorno al becco del rubinetto del lavello, che quella sera perdeva piccole gocce con un ritmo lento ma regolare.

    Plop!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    L’angelo più bello, protegge il mio castello!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    Plop!

    .........................

    .........................

    .........................

    .........................

    ...................

    .............

    ........

    .....

    ...

    Plop!

    Il lupo feroce, scappa veloce!

    ........

    .....

    ...

    Marco calò con forza e determinazione la mano col dito puntato sulla lettera H

    Claptac!

    B

    La strega che danza, non è in questa stanza!

    ........

    .....

    ...

    Senza guardare il risultato della prima battuta, pestò ancora più forte sul tasto della lettera successiva della parola che voleva scrivere: la E

    Claptac!

    BA

    Mostri e cattivi, non sono più vivi!

    ........

    .....

    ...

    Pure questa volta non guardò il foglio, continuò invece a battere sugli altri tasti che componevano la parola che aveva in mente, ovvero un nome: HENRY. Perché a Marco era stato concesso un dono speciale insieme alla vita, quello di possedere un intuito formidabile! Lui supponeva che HENRY fosse la password di Horry e stava sforzandosi di battere sulle lettere giuste. Ora la N.

    Claptac!

    BAT

    La notte è sempre scura, ma io non ho paura!

    ........

    .....

    ...

    Sentì dolergli il polpastrello ma si concentrò, sudando, con quel bambino in testa che gli ripeteva la cantilena a sfinimento. Pensò che una volta scritta la password sarebbe finito il canto, finito l’incubo e quella cosa si sarebbe magari aperta in due e gli avrebbe rivelato un segreto che custodiva dentro: il suo cuore, forse. Cercò di mirare bene la quarta lettera, prima di pestarci sopra il dito già indolenzito. Era la R.

    Claptac!

    BATT

    L’angelo più bello, protegge il mio castello!

    ........

    .....

    ...

    L’ultima lettera, l’ultima! Poi Horry avrebbe reagito. Con questa certezza, Marco tenne gli occhi sull’ultimo tasto che avrebbe dovuto schiacciare. Era sicuro di essersi spezzato un’unghia già alla seconda lettera ma non volle nemmeno guardare se il dito sanguinasse.

    Forza, su! Mancava solo la Y.

    Claptac!

    BATTI

    Bravo hai completato, rileggi il risultato!

    Prima di guardare il risultato delle sue cinque battute sul foglio, Marco staccò la mano sinistra dal bracciolo, (lasciandovi una impronta ben marcata e umida di sudore), per stringere in pugno il dito indice della mano destra. Gli faceva davvero male e sanguinava tra l’unghia e il polpastrello. Poi ci soffiò sopra guardandolo con una smorfia tra il dolore e il senso di colpa. Pensò di aver esagerato a battere così forte, bastava meno. Pensò che pure Horry poteva aver ragione di lamentarsi. Lui le aveva fatto male e alcuni tasti erano macchiati di sangue.

    Marco aveva fissato così intensamente la tastiera che questa gli era rimasta impressa negli occhi. Anche chiudendoli, la rivedeva, sbiadita e dai contorni incerti e sfumati, come se si fosse debolmente proiettata sulle sue palpebre congiuntivali.

    immagine 1

    Quando recuperò pieno possesso del suo campo visivo, controllò ciò che aveva scritto. Sulla parte del foglio ancora aderente al rullo, con grandissimo sconcerto lesse:

    BATTI

    BATTI? Che diavoleria era mai questa? Lui era sicuro di aver pestato il dito sui tasti giusti! Infatti, su ben quattro lettere delle cinque che doveva pigiare c’erano macchie di sangue, del suo sangue! Quindi lui aveva battuto quelle lettere! Forse poteva essergli sfuggita la H, battendo la B che le stava proprio sotto ma le altre lettere le aveva battute bene, c’era la prova del sangue!

    Battute... Batti. Questo non ti suggerisce niente, Marco? Su, fai un piccolo sforzo! Credi che davvero sia un caso?

    La vocina interiore, che era sempre la stessa della filastrocca, spinse Marco a riprovarci. Questa volta con meno enfasi, non c’era bisogno di tutta quella forza, Horry rispondeva bene anche al tocco di un bambino. Per prima cosa si voltò verso Lapo, che gli stava ancora accanto e col respiro sempre affannato.

    «B-buono, Lapo! Ho c-capito, so cosa d-devo fare!»

    Il cane gli ubbidì emettendo un guaito più simile ad uno sbadiglio e si accucciò accanto alla carrozzina, incrociando le zampe anteriori per appoggiarvi sopra il muso. Marco ruotò, abbassò e alzò la testa, per sciogliere i muscoli del collo. Un’improvvisa arietta gelida gli asciugò il sudore alla base della nuca. L’avvertì come la carezza di uno spirito che volle immaginare buono, perché forse poteva essere quello di suo padre. Anzi, ne fu proprio sicuro e questa sensazione gli dette anche il coraggio di continuare senza altri indugi. Quindi sollevò di nuovo la mano destra sui tasti tondi e color avorio, (forse erano veramente d’avorio e incassati in anelli d’acciaio), pronto per ribattere la parola Henry. Però volle fare un’altra cosa prima di ricominciare. Prese dalla tasca il fazzoletto, ne bagnò un pezzetto con la saliva e pulì i tasti sporchi del suo sangue. Lo fece per due motivi: il primo perché non voleva lasciare Horry in quello stato, il secondo perché il suo dito ne perdeva ancora qualche goccia e lui avrebbe avuto ancora una volta la prova della sua precisione (o imprecisione), nel rilasciare macchie rossastre sui tasti che si accingeva a ribattere. Poi avrebbe di nuovo ripulito tutto a lavoro finito. Avrebbe anche cercato un foglio nuovo da rimettere nella macchina, non sia mai che la madre si accorgesse di quella sua incursione. Per fortuna sulla scrivania e proprio vicino ad Horry c’era una risma di fogli vergini, già aperta. Per la verità gli sembrava non ancora avviata ma di certo non si sarebbe messo a contare tutti i cinquecento fogli che garantiva contenere, come dichiarato sull’involucro:

    FABERCART pura cellulosa 80 gr – 500 x A4

    Ricominciò tenendo la mano più vicina alla tastiera. Calò con meno forza ma con più convinzione l’indice sulla H e poi si sentì più sicuro nel battere la E, senza stare tanto a pensarci sopra. Così premette la N e poi la R e infine la Y. Claptac, claptac, claptac, claptac, claptac. Ding! Era arrivato a fine rigo. Già! era partito inizialmente da ben oltre il centro pagina. Il campanello di fine corsa gli fece rimettere gli occhi sul foglio. Un’altra cosa strana davvero era che quella tastiera lo ipnotizzava. Fintanto che batteva sui tasti, non riusciva a staccare la sua attenzione da quelli. Di nuovo aveva sbagliato. Oppure, di nuovo Horry si era sbagliata.

    BATTI

    Eppure, c’era sempre la prova del sangue. Aveva lasciato le macchie proprio su quelli che potevano comporre la parola HENRY, (o tutte le

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1