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L’Anima di un Richiamo
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E-book404 pagine4 ore

L’Anima di un Richiamo

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Info su questo ebook

Febe è una ragazza sveglia, dalla risposta pronta e soluzione alla mano che vive con la madre sulle colline torinesi. La donna lavora per una ricca famiglia, così Febe è spesso costretta a doversi occupare del figlio della matrona, un ragazzino viziato e dispettoso. Ed è proprio durante uno di questi momenti che la sua vita prende una piega completamente inaspettata…

Sono Stefano Magnetti, cresciuto a Torino dal 1989. Sono un chimico riqualificato a capo progetto da quando ho saputo apprezzare appieno la mia indole per l’organizzazione. Vivo la vita in maniera ordinaria dividendomi tra le tempistiche e i costi di progetti su quattro ruote, la famiglia e qualche hobby, tra cui i giochi di società, il beach volley e la scrittura. Dopo trent’anni di solitudine amorosa ho trovato finalmente la persona che spero mi potrà accompagnare per un lungo periodo… almeno questo è il proposito per il mio di progetto.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830675971
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    Anteprima del libro

    L’Anima di un Richiamo - Stefano Magnetti

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PROLOGO

    «Diamine! Dove sono?» protestò il soldato accovacciato dietro ad un grosso masso di pietra calcarea.

    «Finiscila di lamentarti. Non riesco a concentrarmi!» rispose il secondo, al suo fianco, ad occhi socchiusi.

    «Lo sapevo che non avrebbero dovuto andare da sole ad ispezionare la gola. L’aria in quella zona è strana, puzza di marcio» disse il primo inspirando piccole dosi di atmosfera. «Ma io dico solo fesserie, no?»

    «Taci, Teo!» intimò il secondo infastidito.

    «Si saranno cacciate in un bel guaio.» blaterò Teo, grattandosi la chierica. «Da giorni si volevano appartare e hanno sfruttato l’occasione ieri sera, l’ultima possibilità per trarre profitto dall’oscurità della notte questo mese.»

    Il secondo si limitò a sbuffare senza rispondere, tanto valeva non farlo dal momento che il primo sembrava avere una galleria fra le orecchie.

    «Che poi… ce n’era il bisogno? Solo uno sciocco non se ne sarebbe accorto» proseguì Teo tastando il rosario che portava al collo.

    «Niente da fare. Di messaggi ne ho mandati a bizzeffe, ma di loro non c’è traccia» rispose il secondo destandosi d’improvviso. Scosse la testa lasciando cadere alcune ciocche dei capelli cremisi che teneva raccolti.

    «Intendi dire che il nostro Quattro è diventato un Due?» domandò Teo, ansioso, guardandosi attorno. Erano soli, nel bel mezzo di un deserto composto da dure rocce e tronchi di albero oramai resi secchi dal tempo. Sulle loro fronde pendevano tristi i resti dei licheni, un ricordo sbiadito di una natura che aveva vissuto periodi più floridi.

    «Spero di no. Voglio partecipare alla lotta quando sarà giunta l’ora» rispose pensieroso il secondo. «Su, forza, andiamo a recuperarle» aggiunse alzandosi in piedi.

    «Egemone ci ha espressamente vietato di inoltrarci nella gola. Sta facendo diverse analisi sul terreno e vuole attendere il risultato prima di avviare una spedizione di sopralluogo» ribatté Teo correndogli dietro.

    «E dovremmo fidarci di lui? Non voglio fare la stessa fine!» replicò il secondo tornando a concentrarsi. Una sottile brina luminosa si formò sulla sua pelle addensandosi fino a diventare liquida. Scorreva lentamente dall’alabarda che teneva sulla schiena, alle gambe robuste fino al terreno disegnando sul suolo arido il perimetro di quelle che dovevano essere le orme delle compagne passate da quella parte qualche ora prima.

    «Beh?! Hai intenzione di darmi una mano o preferisci passare da un Due a un Uno?»

    «Se fossi un Uno sarei io a prendere le decisioni» replicò Teo, aggiustandosi il saio.

    «Saresti capace di lamentarti di te stesso. Ora tappati la bocca e muoviti» rispose seccato Rygan.

    «Bisogna sempre fare quello che dici tu, come lo vuoi tu, quando lo vuoi tu. Sei insopportabile!»

    «Senti chi parla…» mormorò Rygan ridacchiando.

    «Ti pare il momento di prendermi in giro? Soffro di attacchi di panico e questa è la classica situaz…»

    «Sssh!!!» lo zittì Rygan mettendogli una mano sulla bocca. «Hai sentito?»

    «No… mi stai facendo paura.»

    «Allora nascondici alla svelta!»

    Teo strinse fra le dita il rosario. In un primo istante il corpo suo e di Rygan vennero avvolti da una tenue aura brillante, poco dopo entrambi scomparvero nel nulla.

    «Ottimo lavoro. Hai mascherato anche il nostro odore? Ormoni compresi?» chiese osservandosi le braccia divenute trasparenti.

    «Ovviamente. Forse ti sei scordato di qualcosina, ma è da tempo che non sono più un cadetto!» replicò infastidito Teo.

    Rygan si voltò mimando il passo stentato di un carcerato con una pesante palla al piede. Teo replicò facendosi il segno della croce ed invocando la virtù della pazienza.

    Seguirono le orme che Rygan aveva materializzato sul terreno fino a giungere al limitare della gola. Tutto si sarebbero aspettati tranne quello che si trovarono davanti. Il mare di Orbian era diventato un insignificante laghetto e quel che mostrava era la superficie frastagliata del cratere omonimo che lo avrebbe dovuto contenere.

    «L’aria sta diventando insopportabile» disse tossendo Teo.

    «Ora riesco a percepirla anche io. Sa di avvizzito, putrefatto» aggiunse Rygan.

    «E quelle due sono scese lo stesso? Pazze!» disse Teo.

    «È ciò che faremo anche noi. Sono state delle stupide ma non per questo meritano di essere ignorate» rispose Rygan.

    «In pratica si sono suicidate e noi dovremo ritenerle un buon esempio» chiocciò Teo, continuando a seguire il compagno che si stava accingendo a scendere il ripido pendio. Quella pista di orme pareva condurli in fondo alla gola.

    «C’è qualcosa di strano. Le impronte non sono più nitide. Sembrano far fatica a formarsi.»

    «Scompariranno tra 452 passi» precisò Teo aguzzando la vista. «Uno, due, tre, quattro…» aggiunse contando i passi che stavano facendo.

    «Li conterai tutti?» domandò Rygan alzando gli occhi al cielo.

    «Quindici, sedici… sì, tutti… diciassette…»

    Camminarono per una decina di minuti circa prestando sempre più attenzione a dove posavano i piedi. Il terreno scosceso poteva riservare loro un infortunio e, senza la loro collega farmacista, avrebbero avuto un problema in più da affrontare. Anche l’invisibilità perse di efficacia mano a mano che si inoltravano nel cratere fino a farli sembrare delle immagini distorte più che occultate.

    «Fermo!» ordinò Rygan.

    «Questa volta ho sentito anche io!» esclamò Teo.

    «Che sarebbe?» domandò Rygan.

    «Strano…è come se qualcosa si muovesse sottoterra. Non sembra un animale, non ne sento il cuore ma…ma…l’inno dei Cherubini?»

    «L’inno dei Cherubini? Qui? Mi sembra impossibile» disse Rygan guardando la desolazione attorno a loro.

    «Scarsa fede. Questo è il problema. Devi avere fiducia nelle mie abilità» rispose il compagno.

    «Inizi con la tua solita solfa ora? Piuttosto, quello cosa può essere?»

    Teo accostò l’orecchio al terreno. «Non ne ho idea. Dal suono sembra un liquido, ma le falde acquifere fanno un rumore diverso. Si muove molto in fretta, in varie direzioni. Come se fosse in cerca di qualcosa.»

    «Forse hai ragione tu, è il caso di tornare indietro» concluse Rygan osservando sospettoso il suolo.

    «No, credo sia giusto continuare» rispose Teo.

    «Possibile non essere mai d’accordo su nulla?»

    «Ancora mi chiedo come abbiano potuto metterci nello stesso gruppo di Quattro» controbatté Teo.

    «Come mai hai cambiato idea?» rispose Rygan.

    «L’odore non è più come prima. Non lo senti? È gradevole ora. Mi ricorda gli incensi bruciati in chiesa. Da chierichetto adoravo venire immerso in quel fumo carico di fede.»

    «A me pare che non sia cambiato nulla. L’esperto dei sensi sei tu. Procediamo!»

    Scesero giù per la gola affidandosi al puro istinto poiché le orme delle ragazze erano scomparse da tempo. Il paesaggio attorno a loro era formato da macigni aguzzi privi di qualsiasi tipo di forma di vita, immersi in una nebbiolina dalle sfumature ocra particolarmente sinistra. La loro voce, per quanto bassa la stessero tenendo, rimbalzava da parete a parete fino a rimbombare impetuosa in quello scenario distopico.

    I due compagni decisero di marciare silenziosi. Guardavano un punto fisso davanti a loro, rapiti da un qualcosa che non sapevano definire, senza domandarsene il motivo, fino a ritrovarsi a terra, esausti, incoscienti… moribondi.

    CAPITOLO 1

    -» LA SIGNORA ZERONTE «-

    Tra le colline di Torino, immersi nella natura dei boschi, l’unico suono che si riusciva a udire era il festoso fischiettio degli uccelli.

    La poca neve rimasta sui tetti delle case si stava sciogliendo, e il ticchettare insistente delle gocce che scoppiettavano sul terreno suggeriva che l’inverno stava passando il testimone alla primavera.

    Febe non si era ancora svegliata del tutto. Accoccolata sotto gli strati caldi e seducenti delle coperte di flanella, era impegnata nell’immaginare quei brevi sogni di cui si sarebbe scordata appena avrebbe aperto gli occhi. Continuava a strofinare i piedi contro le lenzuola eseguendo una danza composta da microscopici movimenti, ostinata com’era a non volersi arrendere alla sveglia.

    I giorni precedenti erano stati i più gelidi degli ultimi anni. Spese i momenti di svago in cameretta componendo un puzzle regalatole chissà quanti anni prima da un’amica d’infanzia. Non era una tipa pigra, ma il freddo le era sempre stato nemico.

    La stanza da letto, che condivideva con la mamma, risultava talvolta angusta, ma per qualche strano motivo anche accogliente. L’arredamento aveva un gusto anni Ottanta e le pareti erano rivestite da una carta da parati ingiallita a losanghe verticali interrotte soltanto da qualche scatto fotografico di quando Febe era ancora in fasce. L’ombra di una polaroid era rimasta impressa sulla tappezzeria. Lì c’era un’immagine di cui Febe era gelosa, custodita quindi in un posto segreto.

    Quando si decise ad alzarsi, guardò fuori dalla piccola finestra romboidale e, accorgendosi della giornata promettente, si buttò le prime cose che riuscì ad afferrare addosso, senza far troppo caso allo stile o agli abbinamenti, per correre più in fretta possibile a prendere la bici.

    Non c’era niente di meglio che sentirsi avvolti dalla natura, alla mattina presto, quando ancora tutti stavano dormendo ed il trantran della città in lontananza non recava disturbo a quella fragile quiete.

    Si immaginò a pedalare tra i sentieri indefiniti del bosco, fino ai piedi del colle che era diventato il rifugio segreto di lei e di Joker, l’inseparabile gatto. Stranamente non aveva dormito con lei quella notte. Difatti si era svegliata senza le sue morbide zampette occupate ad impastarle le guance.

    Aveva percorso il viottolo di ghiaia che la conduceva nella cucina e una volta aperta la porta della villa in stile coloniale, si imbatté nella mamma con la sua copertina di Linus, il grembiule dai peperoncini fiammanti, pronta a servirle la colazione.

    E non una colazione qualsiasi. Per mamma Nuccia non esisteva al mondo servire solo del caffè con dei biscotti. Da cuoca provetta presentava un buffet ricco di qualsiasi prelibatezza ogni mattina, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno.

    Per quanto Febe si potesse svegliare presto, dopo sedici anni, si chiedeva ancora come facesse sempre ad anticiparla.

    «Alla buon’ora scansafatiche!» esordì Nuccia portandosi le mani sulle anche.

    «É domenica ma’ e non sono neanche le otto e mezza.»

    «E quindi?»

    «Anche il Signore si è riposato di domenica.»

    «Bella questa!» rispose sbeffeggiandola. «Da quando sei diventata così devota?»

    In effetti, Febe non lo era mai stata. Sin da piccola provava una certa riluttanza ad andare in chiesa. Le persone che parlavano troppo potevano produrre una delle due sensazioni che mal sopportava: fastidio o torpore. Le omelie riuscivano a scatenarle entrambe. In più si era sempre chiesta perché certa gente sbracciasse tanto per prendersi l’ostia della comunione. Era un po’ come ammettere di essere inclini a cadere nel peccato, eppure pareva che fossero riconosciute dalla comunità come esempi di rettitudine.

    «Siediti qua» continuò Nuccia. «C’è una torta speciale che ho preparato. È un esperimento ma spero faccia il suo effetto» disse entusiasta, indicando un piatto con una fetta di torta dall’aspetto invitante.

    «Sembra ottima, ma sono di fretta stamattina. La mangerò più tardi» rispose la figlia quando lo sguardo di Nuccia si tramutò in un lampo da affettuoso ad autoritario. Si era scordata della regola numero uno: mai dire no al cibo preparato da sua mamma. Soprattutto se si trattava di una novità.

    «E sentiamo, che urgenze avresti di domenica mattina, quando anche il Signore si riposa?» chiese prendendo la figlia sotto il braccio e accompagnandola al tavolo. «Vestita in questo modo, poi? Dove pensavi di andare? Al circo? O a prenderti una broncopolmonite?»

    Il problema delle malattie non era da sottovalutare in quel piccolo nucleo famigliare.

    Il lavoro della madre era l’unica entrata economica e consisteva nel fare giorno e notte da governante per una facoltosa famiglia torinese, i Zeronte, la cui fortuna era frutto di una delle aziende vinicole più prestigiose d’Italia.

    Oltre ad essere ricchi, erano esigenti, al limite del sopportabile.

    Abituati al lusso e viziati fin da piccoli, i figli della matrona, così la chiamava Febe, non erano mai contenti di nulla. Più avevano e più volevano. Tante volte si era chiesta come facessero ad aprire le mani dal momento che avevano così tanta paura che ciò che vi stringevano potesse accidentalmente scivolare via, lontano da loro.

    Un Natale, sebbene avessero ricevuto regali di ogni genere dalla madre e nonostante si fossero rimpinzati a dovere, decisero che i pasticcini di Nuccia per la figlia fossero troppi.

    Così durante il pranzo, fingendo di non avere più fame, si intrufolarono in cucina divorandone una grossa parte. Coincidenza volle che, prima di aver vuotato il vassoio, Febe li colse in flagrante riuscendo a salvarne giusto un paio dalle loro fauci fameliche grazie al lancio di mestoli e tazzine da caffè.

    Risultato: un rimprovero a Nuccia da parte della matrona per aver usato in maniera impropria gli ingredienti della cucina della famiglia Zeronte e un congruo, a suo dire, decurtamento dallo stipendio per le tazzine rotte.

    La matrona e prole non vivevano più con loro. Avevano deciso qualche mese prima che una casa con cinque camere da letto, tre bagni, un salotto nel quale si sarebbe potuto comodamente stendere un elefante, e un vivaio, fosse troppo modesta.

    Pur essendo poco più che adolescenti i figli convinsero la madre a traslocare in una sontuosa villa a trecento metri da quella in cui Febe e Nuccia vivevano insieme all’unica mela non bacata della famiglia Zeronte: la nonna Verdiana.

    Così la ragazza amava chiamarla, lontana da orecchie indiscrete, dal momento che era cresciuta con lei.

    Mentre Febe controvoglia si sedeva al tavolo per gustarsi la colazione, giunse in cucina proprio la padrona di casa. Una signora distinta, seria, austera. Paragonando lei a Nuccia, sembravano due mondi opposti o, come piaceva pensare a Febe, due facce della stessa medaglia. Una buona sintesi della variabilità femminile italiana, insomma. La nonna era alta, elegante, con tratti che davano un senso di nord Europa. Al contrario la madre era bassina, calorosa e con due grandi occhi nocciola che ricordavano un cerbiatto.

    Verdiana aveva un carattere piuttosto freddo e distaccato, ma con Febe e la madre era sempre stata buona e generosa. Niente di esagerato s’intende, ma con piccoli gesti riusciva a dimostrare l’affetto che provava nei loro confronti.

    D’altronde non poteva fare molto di più, altrimenti avrebbe scatenato le gelosie dei nipoti o, peggio ancora, le antipatie della matrona. Anche per questo motivo decise di farle vivere nella dependance, lontane – per così dire - dalle angherie della nuora e dei nipoti.

    «Buongiorno, Signora Zeronte» dissero in coro madre e figlia, appena si accorsero della presenza dell’anziana.

    Indossava un soprabito piuttosto leggero per la stagione corrente, di color verde mela con un orlo in velluto. Sui capelli portava una cuffietta in organza per preservare la leggera cotonatura che soleva effettuare, almeno una volta a settimana, dal parrucchiere di fiducia, e nella mano tremolante impugnava il portamonete in pelle di coccodrillo, quello buono, quello che non si lascia mai in giro.

    Mentre gli occhi erano ancora socchiusi, la voce era calda e limpida.

    «Buongiorno ragazze, stavo dormendo così bene…» disse facendo un piccolo sbadiglio quasi impercettibile, «basta usare quel cognome. Mi fa venire il voltastomaco di primo mattino» le rimbeccò l’anziana con aria sonnolenta.

    «Ha ragione Signora Verdiana. Ci perdoni per il rumore, mia figlia è maldestra e non fa molta attenzione al tono di voce» disse la madre schioccando le dita per invitare la figlia a scusarsi.

    Verdiana l’anticipò. «Non sono i rumori ad avermi svegliata, bensì il dolce profumo della colazione» rispose sedendosi al lato opposto del tavolo.

    Era proprio tipico da parte sua. Con un po’ di bastone e un po’ di carota riusciva a tener sempre tutti sulle spine.

    Febe l’ammirava. Era un esempio. Sicura di sé, amabile a suo modo, sincera ma con parsimonia.

    C’era un detto particolarmente offensivo per i piemontesi. Si diceva fossero falsi e cortesi.

    Febe comprese col tempo come in realtà si trattasse più di un pregio che di un difetto. Verdiana le fece capire che l’onestà va dosata, non tutti ne sono meritevoli, altri non la sanno apprezzare e pochi ne sentono il bisogno.

    Essere falso e cortese, nel contesto in cui Febe conosceva l’anziana signora, significava avere il rispetto altrui, valutando se fosse più congeniale una verità scomoda oppure un silenzio di circostanza.

    Solo in questa maniera Verdiana, pur detestando come aveva cresciuto i nipoti, riusciva a rimanere in rapporti civili con la nuora.

    Non mancava giorno in cui cercasse di insegnar loro ad essere generosi in quanto la fortuna che avrebbero ereditato non sarebbe stata tutto nella vita.

    Ovviamente gli sforzi erano vanificati ogni qualvolta la matrona etichettava nei modi più meschini tutti coloro che non riteneva all’altezza dei suoi standard. Poteva scagliarsi contro il poveretto che soleva passare la notte sull’uscio della panetteria perché aveva osato avvicinarsi per chiederle l’elemosina rischiando di sporcare una delle sue preziosissime pellicce, oppure seppellire di insulti una commessa di qualche negozio di lusso per essersi osata a darle una taglia più grossa di quella che in realtà indossava o – e questo era per certo ciò che preferiva fare – rimarcare le origini umili di Nuccia con appellativi di vario genere che spaziavano dal fiammiferaia al lavapiatti.

    «Come mai di fretta oggi, Febe?» chiese l’anziana signora versandosi del tè bollente al finocchio e liquirizia.

    «Pensavo di fare un giro in bici insieme a Joker. Sembra un’ottima domenica per passare del tempo all’aperto» rispose la ragazza mordendo la fetta di torta all’arancia della mamma.

    Era deliziosa: uno strato di frolla, uno di arance candite che componevano un decoro geometrico sul fondo di una gelatina agrumata e un sentore di un ulteriore aroma che non riusciva ad identificare.

    «È una buona idea, ma ti ricordo che avevi promesso di aiutarmi con il vivaio questa mattina. È tempo di semina e non possiamo tardare» disse Verdiana e, stiracchiandosi, la sua faccia si indurì. «Sono quasi più vecchia di Matusalemme. Prima o poi giungerà anche per me il riposo eterno.»

    «Non dica così, Signora Verdiana» disse Nuccia girandosi verso Febe con la stessa aria di quando aveva osato rifiutare il pezzo di torta. «Ogni promessa va mantenuta! Stamattina ti occuperai del vivaio e poi potrai andare dove ti pare e piace.»

    La decisione era presa: che a lei andasse a genio o meno, doveva aiutare la nonna nel vivaio.

    Non che le dispiacesse, amava stare nel verde e passare del tempo con la nonna. Il suo pollice verde lo definiva magico. Tante volte pareva facesse le cose al contrario, senza alcun senso eppure otteneva dei risultati straordinari, da reputare alla stregua di miracoli. Il che suscitava in lei un certo interesse, anche se Febe con le piante non ci sapeva proprio fare.

    Aveva fatto diversi tentativi. Alcuni erano stati un vero e proprio azzardo. Come quando decise di diventare un’esperta di bonsai. Ne acquistò uno qualche anno prima. Iniziò quindi a documentarsi per capire come farlo crescere rigoglioso e nel primo periodo sembrava che le cure fossero state efficaci. In breve tempo la chioma raddoppiò di volume, finché un giorno di primavera non decise di spostarlo in balcone per fargli prendere un po’ di aria fresca, come se ci fosse una grande differenza con la qualità dell’aria di camera sua. Il risultato fu che la piantina si cosparse di piccoli animaletti bianchi e pelosi che la resero appiccicosa e spoglia.

    Fu un giorno molto triste quando realizzò che gli insetticidi spray, non solo uccidono gli insetti, ma anche le piante sulle quali essi vivono.

    «Sta bene. Allora per le otto e trenta in punto mi aspetto di vederti pronta per darti da fare» disse Verdiana, e avvicinandosi a Febe si piegò aggiungendo a bassa voce, così che la madre non potesse sentire, «vedrai che ci divertiremo. Vecchia sì, ma solo fuori. Dentro sono giovane e arzilla come un tempo» disse strizzandosi le rughe sulla fronte.

    Come deciso, per le otto e trenta, Febe si recò al vivaio, un lungo terrazzamento costruito al di sotto della dependance.

    Si trattava di una serra nella quale le piante crescevano rigogliose e senza limiti. Per chi non fosse stato abituato poteva sembrare una sorta di giungla, ed entrarci significava accedere al mondo della nonna. Difatti, non esisteva posto dove lei si trovasse più in pace con se stessa e in quei momenti sembrava di aver a che fare con una persona totalmente diversa, pronta ad imbrattarsi di fango per coltivare ortaggi e arbusti di ogni genere. I suoi malori si affievolivano e la tempra che dimostrava era paragonabile a quella di un giovane agricoltore.

    Il vivaio era un ammasso indefinito di piante sparse su più livelli, rampicanti che si attorcigliavano ovunque occupavano anche la maggior parte del terreno contendendosi il suolo con un piccolo ruscello, popolato da rospi e pesci di piccola taglia, che timidamente si faceva strada tra una pozza di acqua limpida e l’altra.

    Un sentiero, realizzato con lastre e pezzi di pietra lavica, percorreva tutta la serra e gli unici elementi in metallo erano i secchi, le attrezzature per il giardinaggio e la struttura che doveva sostenere le pareti in vetro, anche se sembravano le piante ad avere questo onere piuttosto che quei paletti di acciaio arrugginito.

    Una volta entrata, Febe fu travolta da un gradevole tepore e da un tenue profumo di fiori.

    «Calicanto d’inverno» suggerì l’anziana signora. «Una delle poche piante che fiorisce in inverno e ci ricorda che non tutto è perduto anche quando sembra che lo sia» disse sorridendole mentre le porse un rametto cosparso di piccoli fiorellini gialli. «La sopravveste e gli stivali dovrebbero trovarsi accanto all’attrezzatura» aggiunse indicando un angolo dove erano accatastati vanghe, rastrelli e altri utensili.

    Infilatasi il rametto in tasca, la ragazza si annodò sulla schiena il grembiule tecnico a righe e indossò gli stivaletti di gomma verdi, alti fino alle caviglie. Guardò il riflesso nel vetro di fronte a sé prima di raggiungere l’anziana e d’istinto uno sbuffo di risata le riempì le guance. Tra i calzini ricamati con le angurie, i pantaloni a coste viola e la fantasia datata del maglioncino, era un vero spasso guardarsi allo specchio.

    Non aveva mai prestato troppa attenzione alla moda. Qualche volta ci aveva anche provato a stupire Nuccia, e soprattutto se stessa, valutando con attenzione cosa indossare per cercare di sembrare al passo con

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