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Le sospensioni
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E-book146 pagine1 ora

Le sospensioni

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«Era il momento della giornata che preferivo, una sospensione. Non ero in sala operatoria, dunque non dovevo stare attento e concentrato come un raggio laser, ma non ne ero del tutto fuori, là dove la vita continuava e il mondo ingoiava la folla che andava di fretta.»

Il dottor Michele Santonicola, famoso e stimato cardiochirurgo, è considerato presso il suo ospedale e non solo “il re dei trapianti di cuore”; non cinico, ma neanche moralmente impeccabile, ha scelto la professione che – lui stesso ammette nel profondo del suo animo – gli avrebbe permesso di ottenere fama, successo e molto denaro. Vive la sua professione con freddo distacco, considerando esclusivamente il lato materiale dell’importantissimo organo che si ritrova spesso, gelido, a tenere tra le mani. Senonché, un evento imprevisto lo costringe a mettere in discussione tutto e soprattutto fargli fare i conti con un incontro che va oltre il reale e il percepibile sensorialmente. Le sospensioni di Domenico Miceli è un fine romanzo su come la vita spesso ha i suoi modi insoliti di rindirizzarci su vie alternative, mai per punirci, il più delle volte per farci ritrovare.

Domenico Miceli è nato a Napoli, dove attualmente vive. È medico specialista in Cardiologia, ha lavorato in ospedale e tuttora come libero professionista. 
Ha una particolare predilezione per la medicina divulgativa e ha pubblicato articoli e interventi in tema anche sul web. È appassionato alla lettura, in particolare la narrativa classica e la saggistica, e alle tecniche della sceneggiatura. Ama Buzzati, Sciascia, Simenon, Camilleri. È componente della Giuria dei Lettori del Premio Napoli. Le sospensioni è il suo primo romanzo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9791220139403
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    Le sospensioni - Domenico Miceli

    uno

    Ottocentotrentacinque watt di potenza per diciassette altoparlanti: la musica dell’impianto stereo Mark Levinson della mia nuova Lexus era a palla e mi avvolgeva col suo effetto discoteca.

    È mia abitudine stordirmi di note per non pensare a nulla mentre guido.

    Le auto sono sempre state la mia più grande passione: cambio vettura ogni due anni e le curo con diligenza maniacale. Basta un graffio per andare dal carrozziere o un rumorino per fiondarmi in assistenza.

    Giunto al parcheggio dell’ospedale, mentre il vigilante sollevava la sbarra per farmi entrare, a malincuore troncai le prime note di un pezzo di De André.

    «Buongiorno, Anna.»

    Anna Vinciguerra, la caposala, era sempre la prima ad arrivare. Una presenza storica.

    «Buongiorno, professore.»

    Gli specializzandi del trimestre erano in piedi davanti alla porta dello studio, mentre sulle sedie, assieme alla mamma e alla fidanzata, c’era Alessandro, un giovane da tempo in lista per il trapianto di cuore.

    Ho un confortevole studio con bagno e doccia collegato a un ambulatorio dove posso visitare i pazienti in privato. Ne approfitto per suggerire la possibilità di essere operati da me a pagamento, sempre in ospedale, interventi alle coronarie, anche a cuore battente, con un taglietto anziché con la segatura verticale dello sterno, su questo mi sono particolarmente specializzato, saltando la lista d’attesa e quindi riuscendo anche a moltiplicare lo stipendio.

    Il trapianto cardiaco, che non è eseguibile in regime privato anche per le implicazioni legate alla gestione successiva, mi serve come bandiera, cioè per mettermi in mostra e alimentare la mia reputazione. E per rimpinguare quindi il conto in banca.

    Ricordo il mio primo trapianto: quando avevo avuto tra le mani, freddo di frigorifero, il pezzo di muscolo da impiantare, non avevo provato emozione, se non quella legata alla gloria e al denaro che mi avrebbero garantito quelle masse troncoconiche. Il mio comportamento, pur rispettoso della legge e del fisco, ma eticamente non irreprensibile, non riduceva la mia clientela, ma la moltiplicava.

    Facevo il secondo anno del classico quando uno zio ebbe una malattia al cuore. Sentendone parlare in casa, avevo manifestato l’intenzione di fare il medico. Annuncio al quale s’era aggiunto il commento di mamma.

    «Il medico è un professionista che non muore mai di fame, Miche’. E se ci sa fare può garantire a sé e alla sua famiglia una vita più che agiata.»

    Già, non era stato esattamente un impulso umanitario a spingermi verso quella facoltà, ma la prospettiva del successo economico, peraltro non facilissimo da conquistare, vista la lunghezza del corso di studi e l’impegno che avrei dovuto profondere. E così sono diventato il dottor Michele Santonicola, famoso e stimato cardiochirurgo.

    Dopo aver rivolto un cenno di saluto al ragazzo e alla famiglia, feci entrare gli studenti.

    L’università ci assegnava ciclicamente tre specializzandi in cardiochirurgia per frequentare reparto e sala operatoria. In quel periodo c’erano due ragazzi e una ragazza e, come di consueto, anche in quel terzetto c’era qualcuno più incline alla ricerca che alla pratica. Ne approfittavo per fargli selezionare aggiornamenti dalle riviste scientifiche, che mi tornavano utili per le relazioni ai convegni a cui dovevo partecipare per mantenere il mio ruolo.

    «Professore…» esordì Ludovico, lo scienziato di turno, quello che alla sala operatoria preferiva la biblioteca e i database sulla Rete «Alessandro aspetta di parlare con lei. È stato chiamato perché è arrivato il cuore, però…»

    «Però?» chiesi mentre leggevo la mail di Anita, la mia segretaria, con l’elenco delle visite private del giorno dopo.

    «Però se ha un attimo volevo esporle sinteticamente il risultato di questo lavoro uscito su «Lancet» a proposito delle suture chirurgiche riassorbibili, che ho esplicitato in dieci diapositive.»

    Mi porse un pacchetto di fogli A4.

    «Metti qua.» Mi ravviai i capelli mentre scambiavo uno sguardo di compiacimento con Carmen, una graziosa specializzanda molto volitiva, col carattere giusto per sostenere, anche fisicamente, molte ore consecutive in sala operatoria.

    Ho sempre avuto una capigliatura folta, e ora, a cinquantasette anni, ho un ciuffo bianco e liscio che casca su fronte e occhi, che con gesti spesso studiati riporto di continuo al suo posto.

    Le donne mi sono sempre piaciute, ma più che altro per l’adrenalina della conquista e il gusto di soddisfare la mia vanità. Non ho mai provato tumultuose pulsioni sessuali: se in qualche occasione ho sollecitato visite di controllo, naturalmente in privato, per rivedere la moglie o la sorella di un paziente, con cui avevo scambiato sguardi malandrini, non ero però mai andato oltre.

    Sono consapevole di attrarre il gentil sesso soprattutto per il ruolo, per il fascino che esercitano le mie mani, quelle di uno che prende un cuore in mano, lo manipola, lo aggiusta, lo cambia. Come un dio disceso tra i mortali.

    «Va bene, Ludovico, guarderò con calma e ne riparliamo.»

    E aggiunsi:

    «Una volta tanto un trapianto che non si farà di notte. Tra espianto e impianto si farà al massimo il pomeriggio. Chi di voi si vuole lavare?» chiesi usando la tipica locuzione del chirurgo che s’accinge all’intervento.

    Ovviamente si fece subito avanti Carmen.

    Provavo un’istintiva simpatia per gli studenti che, come ero stato io da giovane, preferivano dedicarsi alla manualità, alla pratica. Certo, l’aggiornamento è una reale necessità per un medico e non potevo farne a meno se volevo presenziare ai convegni; tuttavia imparare, come diceva Cammilli, il mio maestro di chirurgia, a buttare le mani, ritenevo dovesse essere l’aspirazione suprema per un cardiochirurgo. La chirurgia è vedere, osservare e poi fare.

    Il trillo del cordless nella tasca del camice.

    «Professore.»

    «Federico.»

    Il mio braccio destro mi informava che era già partita l’équipe destinata a prelevare e portare a Roma il cuore.

    L’organo veniva da Cagliari e apparteneva a una donna di trent’anni deceduta per un incidente d’auto. L’aereo militare doveva già essere stato avvisato del volo da compiere, mentre in Sardegna, dopo l’accertamento della morte cerebrale ma con persistenza di attività elettrica del cuore, chiedevano ai familiari il consenso per far rivivere un altro essere umano grazie all’organo del loro congiunto.

    Con Federico stabilimmo gli ultimi preparativi e, mentre l’équipe dell’espianto era già al lavoro in Sardegna, mi accertai dell’organizzazione della sala operatoria per l’impianto. Immediatamente dopo, alla presenza dei tre studenti, feci entrare Alessandro coi familiari. Come tutti quelli che aspettavano un cuore nuovo, lo conoscevo bene. Veniva sempre a salutarmi dopo i controlli: trentaquattro anni e occhi neri e profondi come un pozzo, che mi fissavano in maniera talvolta inquietante. Una di quelle persone che sapeva nascondere il dolore dietro una finta sicurezza; però, quando ci salutavamo, aveva l’abitudine di girarsi sulla soglia della porta e guardarmi, come fosse sul punto di chiedere qualcosa che poi non chiedeva mai.

    Il colloquio fu breve.

    I pazienti in lista d’attesa si preparano con un lavoro preventivo che contempla anche un percorso psicologico e chiarisce loro che la legge proibisce di rendere noti i dati del donatore. Si predispose subito il necessario per portare Alessandro in sala operatoria. Dal momento dell’espianto all’impianto non devono trascorrere più di quattro ore. Col volo militare Cagliari – Roma saremmo ampiamente rientrati nei tempi. A quel punto le due équipe via telefono si coordinano: non appena arriva il segnale OK CUORE, il torace del ricevente viene aperto per accogliere l’organo che sta volando da lui.

    due

    Centrale Acquisti, Procedure di Approvvigionamento Appalti e Lavori: era scritto a iniziali maiuscole su una targa appesa sotto il simbolo dell’università, sulla porta in fondo al corridoio. Se il nome era grandioso, altisonante, l’ufficio era piccolo, appena sufficiente per due scrivanie dotate di computer, in un casermone grigio con un balconcino da cui si intravedevano il Lungarno di Firenze e il fiume che luccicava sotto il cielo opaco. I tavoli erano ingombri di carte e un unico telefono su un tavolino separava il posto di lavoro di Marta Ripoli da quello della collega Agnese.

    Nel corridoio lastricato di piastrelle verde chiaro, fra tre armadietti metallici e la fotocopiatrice Xerox, c’era la porta della stanza del dottor Attilio Bisaglia, il dirigente responsabile. Aveva poco più di sessant’anni. Nativo di un paese dell’Abruzzo, era un po’ rustico nei modi ma sempre rispettoso delle colleghe. Sotto la scorza era un uomo buono e Marta ne apprezzava la capacità di mettere a fuoco i problemi. Un funzionario sensibile quanto bastava alla puntualità e alla regolarità delle pratiche, ma senza rigidezze mentali: non si impuntava mai sull’orario della presenza ma guardava al risultato. Un uomo intelligente che mostrava padronanza della macchina amministrativa. Bisaglia era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via, e aveva solamente una cosa a cui teneva e che ripeteva come una litania: la qualità di un ufficio pubblico è inversamente proporzionale agli squilli che il telefono fa prima che venga sollevata la cornetta. Un principio che costringeva Marta e Agnese a non lasciare mai sguarnite le postazioni della stanza. Marta Ripoli aveva quarantasei anni ma non li dimostrava. Biondina, esile, bassina. Un po’ maniaca del cibo: non mangiava fritture né carni rosse, il colmo per una fiorentina d.o.c.; soltanto pollo, verdure, frutta, orzo, farro e legumi in genere.

    Viveva sola per scelta, a pochi isolati dai genitori. In fondo Firenze è piccola. Non che li trascurasse. Anzi, li sentiva tutti i giorni e una domenica sì e una no andava a pranzo da loro,

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