Poesie. Lavorare stanca - Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
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«La città mi ha insegnato infinite paure: / una folla, una strada mi han fatto tremare, / un pensiero talvolta, spiato su un viso.» Sono frasi da I Mari del Sud, la poesia che apre Lavorare stanca (pubblicata una prima volta nel 1936 – con qualche censura – e poi, con l’aggiunta di alcune liriche, nel 1943): vi si può leggere il punto di vista da cui muove la scrittura poetica di Pavese, un’osservazione partecipata ed emotivamente coinvolta, e insieme un distacco, una distanza incolmabile e paurosa dagli altri. Ma allo stesso tempo già dagli inizi, questa raccolta mostra un’unità d’accenti e nei suoi versi lunghi e “narrativi” Pavese riesce a raccontare delle Langhe e della città (Torino) come di campi bruciati dal sole e di amori crudeli quanto può esser crudele la vita. Ben più intima è la voce che si strugge nella raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951), in cui una speranza d’amore, luminosa e definitiva, è cercata e dolorosamente negata.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
Cesare Pavese
nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese delle Langhe cuneesi. A Torino si laureò in letteratura americana con una tesi sulla poetica di Whitman. Visse l’esperienza del confino sotto il regime fascista, quindi l’occupazione tedesca e la guerra di liberazione. Intellettuale dalle profonde inquietudini esistenziali, scrittore, poeta e traduttore, fu una delle colonne portanti della casa editrice Einaudi. Morì suicida a Torino nell’agosto del 1950, nello stesso anno in cui aveva vinto il Premio Strega con La bella estate. Furono pubblicati postumi i suoi diari, sotto il titolo Il mestiere di vivere. La Newton Compton ha pubblicato La casa in collina, La luna e i falò, Poesie e il volume unico I capolavori (La spiaggia; Dialoghi con Leucò; Il compagno; La casa in collina; La bella estate; Il diavolo sulle colline; Tra donne sole; La luna e i falò; Lavorare stanca; Verrà la morte e avrà i tuoi occhi).
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Poesie. Lavorare stanca - Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - Cesare Pavese
Accettare la vita
Bisognerebbe provare a entrare nei suoi libri dimenticando, o fingendo di dimenticare, il finale di partita. La «cappa di piombo» che si è addensata, dopo il suicidio, sulla sua figura. Riavvolgere il nastro dall’inizio senza subire l’ombra del gesto conclusivo. E ritrovare la sua infanzia sofferta, da orfano di padre; l’adolescenza consumata in fretta – Cesare Pavese, il ragazzo langarolo approdato a Torino, che studia, studia, studia. A diciassette anni è certo di avere posto l’ideale della sua vita nella poesia e – quasi dovesse già fare un bilancio – sente che «l’unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa colla penna».
Si tratta di una vocazione inflessibile, assorbe interamente gli anni della giovinezza – non fosse che per qualcuno degli amori difficili di cui sarà costellata la sua vita. Legge gli americani, si laurea su Walt Whitman, traduce Moby Dick per mille lire, scopre Lee Masters e l’Antologia di Spoon River. Intanto scrive: versi che raccontano il paesaggio dell’infanzia – la collina
, le colline, centrali nella sua opera come nel suo orizzonte visivo. Sembrano detti a voce, sussurrati, sono canzoni di strada, senza musica. Racconti in cui si va a capo. Storie di gente nata in campagna, come lui, e approdata in città, stordita da troppe promesse.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi piú.
Nei versi di Lavorare stanca (1936) Pavese ricorda, evoca il paesaggio delle origini; trascrive frasi rubate a chi beve in un’osteria, sotto un pergolato; saccheggia – come lui stesso dice – «la mia esperienza fin dal giorno in cui apersi gli occhi». E anche se gli pare di avere esaurito la vena, scrivendo in poesia, riproduce nel passaggio alla prosa lo stesso movimento dei versi: andare e venire fra città e collina, assecondare il desiderio di fuga e l’improvvisa urgenza di tornare.
Dice Doro, un personaggio di La spiaggia (1942), al suo amico: «Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie». Gli è venuta voglia di fare un giro nelle sue colline, lasciando la moglie al mare. «Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta». L’amico sa che non è vero, che c’è di più, che ha risposto a qualcosa come a un richiamo, a una sete, ma lo tiene per sé, resta in silenzio.
Quando Anguilla, l’io narrante di La luna e i falò (1950), pronuncia la frase, quasi proverbiale, «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», trova l’epigrafe involontaria per l’intera opera di Pavese, divisa fra racconto rusticano
e bohème borghese, con al fondo la stessa ansia, o smania, adolescente di mettere alla prova la propria innocenza.
Penso a una scena del romanzo breve La bella estate (1949): quando la ragazza Ginia si accorge di non essere più la stessa. Ha fatto l’amore con Guido; lui poi se n’è andato. «Scese la scala, sbalordita, e stavolta era convinta di non essere più lei e che tutti se ne accorgessero». Passa davanti alle vetrine, si specchia, sente di essere un’altra «da quell’immagine molle che passava come un’ombra».
Nelle pagine forse più belle che siano state scritte su Pavese, Natalia Ginzburg scrive: «Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così». Racconta che era, qualche volta, molto triste: «Ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo […]. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande». Conclude così: «Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana».
Il nome di Pavese non viene pronunciato mai, nel ricordo di Natalia Ginzburg. Tornano però, alla fine, i suoi versi – quando alla scrittrice tocca rammentare una poesia in cui l’amico, anni prima di uccidersi, aveva forse immaginato la sua morte. «Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. / Basterà la finestra a vestire ogni cosa / D’un chiarore tranquillo, quasi una luce».
Ritratto d’un amico – questo il titolo – vale molte pagine critiche, vale un’introduzione a Pavese. O almeno un manuale di istruzioni all’umore di Pavese, uomo e scrittore. C’è, nel testo di Ginzburg, l’intenzione di rintracciare nei gesti, nel tono della voce, nel modo in cui qualcuno – un amico, uno scrittore – ci appare, le ragioni e i segreti della sua opera. E c’è un cercarlo nei luoghi, come per un atto di restituzione, o per un incontro ulteriore: «Andammo, poco tempo dopo la sua morte, in collina. C’erano osterie sulla strada, con pergolati d’uva rosseggiante, giochi di bocce, cataste di biciclette; c’erano cascinali con grappoli di pannocchie, l’erba falciata stesa ad asciugare sui sacchi: il paesaggio, al margine della città e sul limitare dell’autunno, che lui amava. Guardammo, sulle sponde erbose e sui campi arati, salire la notte di settembre».
Il paesaggio che finisce per somigliargli. Un paesaggio di fine estate, di festa o di fiera conclusa. Nella cenere dei falò c’è ancora vivo il fuoco dell’estate, ma come sopito.
Leggere Pavese oggi significa anche misurare la distanza che ci separa da lui. Nato nel 1908 e morto nell’agosto del 1950, Pavese pare confinato (e in qualche modo auto-confinato) in quella prima metà di secolo: l’aria dei luoghi, il paesaggio, perfino i gesti, nei suoi libri, sono legati a un’Italia diversa, a un’altra Italia. E forse davvero non c’è nessuna, tra le sue opere, che non ci faccia avvertire – a volte con uno strappo – il nostro venire, essere dopo.
Spesso sbrigativamente ridotta a una serie di formule manualistiche o giornalistiche («specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi», diceva ironicamente di sé), l’opera di Pavese racconta un mondo di cui non sappiamo quasi più niente: sta scritto, come rughe, sulle mani dei nonni, dei bisnonni, dei trisavoli, di chi ha avuto il destino stretto tra due guerre mondiali. E ha conosciuto, nelle fatiche della terra, un calendario diverso. Così si legge in una pagina di La luna e i falò:
Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girar le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla – quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavamo nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.
L’amarezza, la durezza della vita della campagna. Il suo fascino, la sua povertà, la sua violenza. La città come una promessa ambigua. La cascine da un lato, le mansarde dei pittori dall’altro. Il rapporto fra verginità e corruzione, fra purezza e maturità.
I personaggi di Pavese non fanno che ripetere, ciascuno a suo modo, un percorso di iniziazione alla vita adulta, «un’educazione e una scoperta», fra un paesaggio e l’altro, o piantati a metà strada, nell’impossibilità di scegliere, di decidersi. C’è sempre un’incertezza, un’esitazione: anche di fronte agli impegni