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Il Tiranno
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E-book614 pagine9 ore

Il Tiranno

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Info su questo ebook

La battaglia sta per iniziare

333 a.C. Varcato l’Ellesponto, Alessandro Magno ha sconfitto Dario a Isso e si prepara a continuare la sua strabiliante campagna per la conquista dell’Asia. Kineas, nobile cavaliere ateniese, ha combattuto coraggiosamente al suo fianco, ma ora il grande condottiero macedone non ha più bisogno di lui e al ritorno a casa lo attendono l’onta e l’esilio per essersi schierato dalla parte dell’acerrimo nemico di Atene. Rimasto senza patria e senza famiglia, Kineas accetta l’unica opportunità che viene offerta a lui e ai suoi fidi compagni: mettersi al servizio dell’arconte della ricca città di Olbia, sul Mar Nero, per ottenerne un giorno la cittadinanza. Ma presto Kineas scoprirà chela città è in mano a un despota senza scrupoli, e che una terribile minaccia sta per abbattersi sui suoi abitanti. Combattuto tra la fedeltà al tiranno, la lealtà verso i suoi uomini e l’amore impossibile per una donna splendida e selvaggia che gli ha rubato il cuore, il valoroso ateniese dovrà fare appello a tutto il suo coraggio e al suo senso di giustizia per decidere da che parte stare, e prepararsi a una guerra dura e inevitabile…

La grande epopea di un eroe ateniese tra amore e morte, gloria e sconfitte, pericoli e presagi divini. Il primo episodio di una nuova incredibile serie

«Grandioso. Non vedrete l’ora di leggere il secondo episodio.»
Huddersfield Daily Examiner

«Cameron riesce a ricostruire l’atmosfera dell’epoca e descrive con grande minuzia le operazioni militari e le rivalità tra fazioni opposte. Una serie avvincente.»
Irish Examiner

«Appassionante. Lo leggerete tutto d’un fiato.»
Ancient Warfare Magazine


Christian Cameron

laureato in storia ed esperto di storia militare, vive a Toronto. Dopo una lunga carriera da ufficiale nella marina statunitense, ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Il Tiranno è il primo episodio di una nuova serie che ha come protagonista l’eroe ateniese Kineas.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854131545
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    Anteprima del libro

    Il Tiranno - Christian Cameron

    PARTE PRIMA

    LO SCUDO DI ACHILLE

    Ivi inoltre scolpite avea due belle

    Popolose città. Vedi nell’una

    Conviti e nozze. Delle tede al chiaro

    Per le contrade ne venìan condotte

    Dal talamo le spose, e Imene, Imene

    Con molti s’intonava inni festivi.

    Menan carole i giovinetti in giro

    Dai flauti accompagnate e dalle cetre,

    Mentre le donne sulla soglia ritte

    Stan la pompa a guardar meravigliose.

    […] Era l’altra città dalle fulgenti

    Armi ristretta di due campi in due

    Parer divisi, o di spianar del tutto

    L’opulento castello, o che di quante

    Son là dentro ricchezze in due partito

    Sia l’ammasso.

    Iliade, XVIII, 680-689 e 702-712

    CAPITOLO 1

    La burrasca che aveva sbattuto la pentecontera³ controvento, facendo urtare il fondo contro le onde e coprendo d’acqua la vela, sommerse il mercantile più piccolo a sud. Il carico si rovesciò, l’imbarcazione affondò, le urla dell’equipaggio si sparsero nitide nel vento. La pentecontera mantenne quella rotta, la vela issata a riprova dell’inesperienza del suo trierarca, il carico intatto a omaggiare le doti del suo capitano. La nave sarebbe di certo affondata nell’Eusino con tutto il suo equipaggio, ma il capitano si lanciò sull’albero, sguainò il pugnale di bronzo dal fodero che aveva appeso al collo e tagliò le corde che tenevano la vela legata alla nave.

    Sotto la tenda a poppa, il trierarca giaceva paralizzato dal terrore, le spalle alla prua, incapace di far fronte alle conseguenze della sua disastrosa decisione di lasciare l’albero fissato nella scassa. La confusione sulle panche, tra i rematori, lo preoccupava quanto la vela zuppa d’acqua. Poco prima che arrivasse la burrasca, il trierarca aveva ordinato ai vogatori di fissare i remi cercando invano di usarli per tenersi sopravento e, quando la nave straorzò, le onde spinsero indietro, attraverso i perni, i lunghi remi di legno, strappandoli dalle mani dei rematori e facendo sbattere le teste degli uni contro le costole degli altri. Due uomini erano morti, uno di loro era il capovoga.

    L’unico passeggero, un signore ateniese, quando la nave si era rovesciata aveva perso l’equilibrio, come gli altri, ma non la testa. Vomitò, aggrappandosi all’altra fiancata della nave appena si piegò dalla prua sopra di lui, e si rimise in piedi. Con un’occhiata si accorse che il carico non si era rovesciato, con un’altra che i vogatori erano nel panico.

    «Dateci dentro, laggiù», urlò. «Rematori! A babordo!». La sua voce superò con facilità il vento della burrasca morente, l’abitudine al comando e le aspettative di obbedienza forti almeno quanto l’urlo stesso. Tutti gli uomini al centro della nave capaci di intendere e di volere obbedirono, arrampicandosi l’uno sull’altro per raggiungere la parte ancora all’asciutto mentre l’acqua saliva.

    Il capitano dispiegò la vela. Il passeggero sentì il peso cambiare e il ponte muoversi attraverso un piccolo arco verso una chiglia stabile. Si gettò sulla cinta, appeso con le braccia e con tutto il suo peso fuori bordo, e alcuni rematori lo imitarono, aggiungendo il loro peso al suo. L’acqua al centro della nave si spostò, la falchetta di destra salì in superficie, e il capitano si liberò della vela e nuotò verso la prua.

    «Sta nuotando!», urlarono marinai e rematori, agli occhi dei quali la nave era un uomo. Ogni segnale di riuscita attraeva altri uomini a metà nave.

    «Sgottate!», urlò il passeggero.

    Due dei rematori più anziani avevano già montato la pompa di legno d’ulivo, e l’acqua cominciava a sgorgare come sangue dalle arterie. Altri uomini usavano elmetti, vasi, e qualunque cosa avessero a portata di mano. Quando il passeggero si tirò su a bordo, le panche non erano più inondate. L’attenzione del capitano era al mare.

    «Un’altra folata e siamo morti. Devo tenere la prua sopravento», disse con un’occhiata feroce al trierarca. Urlò ordini ai rematori e ai marinai, che cominciarono a tagliare l’albero. Una delle giunture a babordo si era aperta quando la nave si era girata; l’acqua entrava a ogni onda, e con la furia del vento dietro di sé allagava la parte centrale della nave arrivando fino alle panche. L’assenza del capovoga si sentiva. I rematori esitavano, le loro speranze distrutte già dalla seconda onda.

    Il passeggero si lanciò al centro della nave, prendendo l’elmo dal suo bagaglio a prua quando ci passò vicino, e raccolse l’acqua lungo la fiancata. «Sgottate!», ordinò. E poi, mentre gli uomini tornavano alla loro attività, cominciò a spingerli verso le panche. Non conosceva i loro nomi, né le loro origini, ma la sua forza di volontà fu sufficiente per farli spostare. Impiegarono un intero minuto per trascinare i remi ancora interi da babordo a dritta e per inserirli nei perni. La nave galleggiava ancora. Alla prima, esitante vogata, dopo l’urlo sonante del passeggero, la nave si mosse di una frazione per tutta la sua lunghezza.

    «Remate!», urlò di nuovo, prendendo il ritmo da un rematore curvato sulla panca sotto i suoi piedi. Solo sei remi per lato erano in mare, la nave era piena d’acqua e la carena era carica di erbacce, eppure si muovevano. Il passeggero scivolò verso un’altra panca, spingendo a sedere due vogatori terrorizzati e mettendogli tra le mani il remo. Sull’estremità opposta della panca c’era un cadavere. Lo sollevò ‒ non ricordava di aver mai sentito niente di più pesante, e un altro paio di mani lo aiutarono a rovesciare quel peso sul fianco, mentre urlava di nuovo: «Remate!». L’asta del remo, libera dal cadavere, ricominciò a muoversi come fosse viva, lo urtò a una spalla e lo fece cadere dalla panca. L’uomo che lo aveva aiutato a sollevare il cadavere sollevò il remo fuori dall’acqua e si mise a sedere sulla panca. Il passeggero prese il remo al volo, aggiunse la sua forza e urlò «Remate!» appena il remo raggiunse l’acme della vogata. L’asta si muoveva in circolo e la pala mordeva l’acqua con decisione. Il remo tra le mani sembrava muoversi di vita propria. Alzò la testa e vide il capitano a poppa, in piedi vicino al remo-timone. Intercettò il suo sguardo e il capitano prese in mano l’ordine di vogata, lasciando il passeggero a remare, le mani umide e lisce già provate dal peso del remo.

    «Remate!», ordinò il capitano.

    Era la quarta o la quinta vogata e l’uomo al remo-timone disse: «Voga a dritta!». Il capitano gli diede un ordine.

    Poi fu un’ora di vero inferno per il passeggero, non più angosciato per l’opprimente pericolo, ma tormentato da un forte dolore alle spalle e dalla vista delle sue mani che diventavano una polpa sanguinolenta mentre continuava a remare senza sosta, e sentiva l’acqua salirgli fino alle cosce. Un’altra burrasca li colpì e poi un’altra ancora. Non avanzavano. Ogni volta che le onde si alzavano, la vela si spostava. L’unica cosa che i remi potevano fare era tenere la testa della nave sopravento per impedire alle onde di frangersi contro la poppa.

    Fecero tutto quello che potevano fare come uomini e pregarono gli dèi, e proprio quando i rematori stavano per mollare e gli sforzi per tenere la prua sopravento sembravano ormai disperati, proprio quando il secondo remo a babordo affondò a vuoto rischiando di compromettere la vogata, il vento diminuì, e prima che il passeggero potesse dare di nuovo uno sguardo alle sue mani scorticate, tra le nuvole uscì il sole, e le nuvole stesse si fecero più rade, finché si ritrovarono a cavalcare le onde in una magnifica giornata di sole sull’Eusino. Erano vivi.

    Fu solo quando il vento cessò che il passeggero riuscì a sentire un debole grido che veniva da dritta, oltre il parapetto, dove una povera anima stava lottando contro il mare.

    «Su i remi!», urlò il capitano, con la voce rotta, come le mani del passeggero. Non era abituato a ordinare la vogata così a lungo. I remi venivano spinti avanti e indietro lungo le panche, con un movimento rozzo ma efficace, le impugnature che si abbassavano sotto le spinte, mentre le pale pescavano decise l’acqua. Il compagno di panca del passeggero si allungava fino al poggiatesta, le braccia sui remi, la guancia contro i manici. Inspirava ed espirava.

    Il passeggero sentì un altro grido provenire da dritta. Si infilò sotto l’incrocio dei remi, l’acqua salata gli bruciava le mani come fuoco.

    Il suo compagno di panca lo guardò e gli sorrise. «Bella vogata, compagno».

    «C’è un uomo in mare», rispose il passeggero, raggiungendo una panca vuota a dritta. La stiva sotto i loro piedi era semidistrutta, e c’era acqua su quasi tutto il carico. Eppure galleggiavano ancora.

    Se ne stava occupando il capitano. Aveva ordinato ai marinai, a tutto l’equipaggio del ponte, di gettare fuori i corpi e qualunque altra cosa ritenessero inutile a bordo. Ogni minuto che passava la nave era più leggera e i banchi dei rematori un po’ più all’asciutto.

    Il passeggero guardava il mare azzurro e deserto, la mano sugli occhi per proteggersi dal sole accecante che si rifletteva sulle onde, e sentì un altro grido. Era più vicino di quanto si aspettasse: un uomo nuotava a fatica, pur riuscendo a stare a galla, vicino alla prua, a distanza di una fune. Si tuffò senza pensarci e nuotò meglio che poteva attraverso le onde ormai basse, con l’acqua che gli gelava il corpo e il sale che gli bruciava ancora le mani.

    Raggiunse velocemente il sopravvissuto, ma l’uomo cercò di difendersi, sorpreso dal contatto e forse temendo che Poseidone fosse venuto a prenderlo. Il passeggero gli urlò contro, lo prese per i lunghi capelli e cominciò a trascinarlo verso la nave. La resistenza dell’uomo li metteva entrambi in pericolo, ma l’acqua nei polmoni lo fece desistere. Il passeggero lo portò fino al fianco della nave. I rematori esitarono, e lui ne fu sorpreso, ma alla fine lo tirarono su a bordo.

    L’uomo rimase disteso su una panca per molto tempo, alternando il respiro al vomito. Il passeggero risalì a bordo aiutato da mani più volenterose, e vide che qualcuno tirava su la sacca di pelle che conteneva la sua armatura e gran parte dell’attrezzatura. Stremato, l’uomo riuscì comunque ad essere abbastanza veloce.

    «No», bofonchiò. «È… mia».

    Il capitano strappò la sacca dalle mani del marinaio e la lanciò sul ponte con fragore metallico. «Ti dobbiamo davvero molto», disse in tono aspro. Indicò con il mento l’uomo dai capelli lunghi che vomitava su una panca al centro della nave. «A loro non piace. I marinai non rubano le prede a Poseidone. I naufraghi…». Non finì il suo pensiero, probabilmente era troppo superstizioso per pronunciarlo a voce alta.

    Il passeggero era ateniese; aveva una visione diversa di Poseidone, signore dei cavalli, e delle sue prede. «Mi occuperò io di lui. Abbiamo bisogno di più gente possibile alle panche per far arrivare questa barca a un approdo».

    Il capitano mormorò qualcosa a denti stretti, una preghiera forse, o una maledizione. Il passeggero tornò alla sua panca. Fu solo dopo aver pulito dal vomito la faccia dell’uomo dai lunghi capelli e aver sentito un abbozzo di ringraziamenti pronunciati con accento spartano, che si rese conto che il trierarca non era più a bordo.

    Sgottarono e remarono per tutto il giorno finché non apparve di nuovo la terra a dritta. Quella costa dell’Eusino era nota per l’assenza di spiagge: solo un’infinità di scogli che si alternavano a paludi desolate. Il capitano non cercò di costringere gli uomini a portare la nave a terra, nonostante la lenta emorragia d’acqua dalla giuntura aperta. Mangiarono pesce secco, bagnato con l’acqua salata, e questo li fece stare meglio. Fecero i turni per dormire, anche il passeggero, pomparono e sgottarono tutta la notte, e all’alba del giorno dopo il sole illuminò un paesaggio identico. La colazione fu più scarsa della cena. Piccoli mercantili toccarono terra durante la notte, ma portarono poco in fatto di viveri. Le anfore di acqua fresca erano capovolte nella sabbia della stiva e quasi tutti i tappi di cera erano aperti, l’interno vuoto spalancato al cielo azzurro. Il passeggero non aveva idea di quanto mancasse fino al porto successivo, ma ebbe il buon senso di non chiederlo.

    A mezzogiorno il sopravvissuto stava meglio, e sgottava con vigore. Si muoveva calmo e circospetto; naturalmente era consapevole di non essere il benvenuto tra rematori e marinai, e intendeva guadagnarsi un posto sulla nave lavorando sodo. Il fatto che avesse il mal di mare ogni qual volta le onde aumentavano non lo aiutava. Era un uomo di terra, non apparteneva al mare; aveva mani troppo lisce e non aveva mai preso in mano un remo. E sul volto e su ognuno dei suoi riccioli era scritto Spartano.

    Il passeggero fece in modo di avere il turno alla pompa insieme allo straniero. Dovette fare la maggior parte del lavoro; lo spartano era debole per il mal di mare e le sofferenze patite, ed era quasi sul punto di lasciarsi sopraffare dagli eventi.

    «Mi chiamo Kineas», disse. «Sono di Atene». L’onestà lo costrinse ad aggiungere: «Quantomeno lo ero fino a poco fa».

    Lo spartano rimase in silenzio ai piedi della pompa, concentrando tutte le forze sul lavoro. «Filocle», ansimò. «Di Mitilene. Anzi no, per tutti gli dèi, di nessun luogo». Continuò ad ansimare mentre il braccio della pompa saliva.

    Kineas continuò a pompare. «Risparmia le forze», disse. «Ci penso io. Tu muovi solo le braccia».

    Il sangue del giovane gli schizzò in faccia. «Ce la faccio», rispose. «Ho forse l’aria di uno schiavo, per cui non dovrei onorare i miei obblighi verso di te?»

    «Fa’ come credi», disse Kineas.

    Pomparono per più di un’ora sotto il sole cocente, e non si scambiarono più una parola.

    Al crepuscolo, tutto il cibo e l’acqua rimasti erano stati distribuiti, ed era evidente che il capitano non sapesse più cosa fare. I rematori erano di pessimo umore; sapevano com’erano andate le cose, e sapevano che il trierarca era morto. Non ne erano contenti, per quanto avessero pagato caro il suo errore con l’albero.

    Kineas aveva molta esperienza con gli uomini, li aveva visti spesso in situazioni di pericolo, e conosceva fin troppo bene il loro umore. E sapeva che cosa avrebbe fatto il capitano, che aveva già ucciso il comandante, per restare alla testa della nave. Quando scese la sera portò la sacca a prua, si sedette sulla panca più vicina e si mise a pulire ostentatamente il pettorale dell’armatura dall’acqua di mare e a massaggiare gli stivali con l’olio. Poi affilò la pesante spada da cavaliere e pulì le punte dei giavellotti. Era un chiaro gesto di intimidazione. Era l’uomo meglio armato sulla nave e adesso brandiva le armi, e per questo perse l’occasione di farsi nuovi amici nell’equipaggio.

    Lo spartano sedeva di fronte a lui sulla panca di prua, ignaro di quello che stava accadendo, riversando tutta l’ira sulla pompa. «Cavaliere!», disse, sorpreso. Era la prima parola che pronunciava dopo ore. Guardò i pesanti stivali, così rari tra i Greci, che erano sempre scalzi o indossavano solo sandali. «Dov’è il tuo cavallo?». Abbozzò un sorriso.

    Kineas fece un cenno col capo, lanciando uno sguardo verso gli uomini al centro della nave e il capitano, che parlava con due vecchi rematori a poppa. «Hanno intenzione di buttarti in mare», disse calmo.

    L’uomo dai capelli lunghi si tirò su a sedere. «Per Zeus», disse. «E perché?»

    «Hanno bisogno di un capro espiatorio. Anche al capitano ne serve uno, o sarà lui la vittima sacrificale. Ha ucciso il comandante. Capisci?». La faccia del giovane era ancora verde, e la sua bocca appariva sottile e tirata. Kineas si chiese se gli fosse entrato in testa qualcosa. Continuò, come pensando ad alta voce, più che per comunicare qualcosa. «Se uccido il capitano, dubito che riusciremo a condurre in porto questa maledetta nave. Se uccido i marinai, mi trascineranno con loro nella rovina». Si alzò, tenendosi in equilibrio sul moto ondoso, e si mise in spalla il balteo⁴. Si diresse a poppa, mostrando di non preoccuparsi di avere metà dell’equipaggio alle spalle, finché non ebbe l’attenzione del capitano.

    «Quanto manca al prossimo porto, capitano?», disse.

    Sulle panche calò il silenzio. Il capitano si guardò intorno, per sondare l’umore dell’equipaggio, chiaramente impreparato al conflitto, se ce ne fosse stato uno. «I passeggeri dovrebbero pensare a se stessi, non al funzionamento della nave», disse.

    Kineas fece un cenno come di assenso. «Sono stato zitto quando il trierarca ha issato la vela», disse. «E guardate che cosa ho ottenuto». Scrollò le spalle e alzò le mani per mostrare le piaghe sanguinolente, cercando con questo di portare dalla sua una parte dell’equipaggio. In risposta ottenne qualche risata soffocata, appena percettibile. «Devo essere a Tomis⁵ tra dieci giorni. Calco di Atene mi aspetta». Si guardò intorno, intercettando lo sguardo degli uomini che aveva di fronte, e temendo quelli alle sue spalle poiché sapeva che le persone spaventate sono immuni alla persuasione. Non poteva dirlo più chiaramente: «Se non raggiungo Tomis, persone importanti ne chiederanno conto a questo equipaggio». Vide che aveva colto nel segno con il capitano e pregò, pregò che l’uomo avesse un po’ di buon senso. Calco di Atene era il proprietario di metà del carico di quell’imbarcazione.

    «Non abbiamo acqua», disse un marinaio di servizio in coperta.

    «Abbiamo bisogno di remi, e quella falla si sta aprendo come una puttana del Pireo», aggiunse uno dei rematori più vecchi.

    Guardavano tutti il capitano ormai. Kineas sentì che le cose stavano cambiando. Saltò su una panca prima che potessero fargli domande più pericolose. «C’è un posto su questa costa in cui si possa approdare e sistemare la falla?», chiese con tono sommesso, ma la sua posizione sulla panca, a sovrastare gli uomini, lo rendeva più autorevole.

    «Conosco un posto, a un’ora di vogata da qui», disse il capitano. «Smettetela, voialtri. Gli ordini non si discutono. Forse il passeggero vuole aggiungere qualcosa?».

    Kineas fece un gran sorriso forzato. «Posso remare un altro giorno», disse, e saltò giù dalla panca.

    A prua, lo Spartano malato imbracciava un giavellotto e teneva l’anello di lancio tra le dita. Kineas gli sorrise e gli accarezzò la testa, e l’uomo dai capelli lunghi abbassò il giavellotto.

    «Avremo bisogno di tutti», disse Kineas in tono amichevole. L’uomo che era stato suo compagno di panca fin dalle prime ore della burrasca annuì. Gli altri uomini guardarono altrove, e Kineas sospirò, perché il dado era stato lanciato, e sarebbero morti o sopravvissuti solo per capriccio degli dèi.

    S’incamminò a prua, dando le spalle ai marinai, e il capitano urlò: «Voi laggiù», e lui si irrigidì. Ma la frase successiva fu musica per le sue orecchie. «Voi due idioti vicino all’albero! Tornate alle pompe, figli di cagna!».

    I due uomini vicino all’albero obbedirono. Come la nave cominciò a muoversi un po’ dopo che i remi avevano cominciato a spingere, così l’umore sul ponte cominciò a migliorare un po’, poi un altro po’, e poi, malgrado il brontolio, gli uomini tornarono alle panche o ricominciarono a sgottare. Kineas sperò che il capitano sapesse davvero dove si trovavano, e dove sarebbero potuti approdare, perché la prossima volta la sua voce o la sua spada – pensò – non sarebbero bastate per sciogliere il groviglio d’odio che si era creato sul ponte.

    CAPITOLO 2

    I due anziani custodi del faro di Tomis avvistarono la pentecontera in arrivo mentre era ancora al largo.

    «Ha perso l’albero», disse uno. «Deve essere saltato via con questo vento».

    «Anche i rematori sono esausti. Avranno un bel da fare per raggiungere il molo prima di sera», disse l’altro.

    Si sedettero e condivisero il disprezzo per quel marinaio tanto sciocco da perdere l’albero.

    «Per tutti gli dèi dell’Olimpo, guarda la fiancata!», disse il primo mentre il sole attraversava l’orizzonte. La pentecontera si avvicinava a terra, la prua non era lontana dal molo. La fiancata era rammendata con cascami di lino e spalmata grossolanamente di catrame, una visione pietosa. «Sono fortunati a essere ancora vivi».

    Il compagno bevette una sorsata dall’otre ormai quasi vuoto che dividevano, lanciò un’occhiata torva al cugino e si asciugò la bocca. «Abbi pietà di quei poveri marinai, compagno».

    «Mai parole furono più vere», disse il cugino.

    La pentecontera spinse la prua oltre il molo prima di sera. Fatta eccezione per l’ordine di vogata, il ponte era silenzioso come quello di una nave da guerra. Le remate erano corte e deboli, e chiunque lì nel porto avesse un buon occhio poteva vedere che gli uomini avevano remato tanto, oltre le loro possibilità. La pentecontera passò il lungo pontile su cui si ormeggiavano in genere i mercantili e condusse la prua fino alla spiaggia di ciottoli che circondava la foce del fiume. Solo allora l’equipaggio esultò, con un grido che disse alla città tutto quello che voleva sapere sugli ultimi quattro giorni.

    Tomis era una grande città per gli standard dell’Eusino, ma i cittadini erano pochi e le notizie viaggiavano in fretta. Quando Kineas recuperò il bagaglio sul lato opposto della nave, l’unico uomo che conosceva in città lo aspettava sulla spiaggia, sotto la prua, con una torcia in mano, e lo chiamava per nome.

    «Calco, per tutti gli dèi», urlò, e si lanciò sulla ghiaia per abbracciarlo.

    Calco lo strinse a sé, e prima si abbracciarono, poi si avvinghiarono in una presa da lotta e caddero sulla ghiaia in un battito d’ali di gabbiano. Calco serrava le ginocchia di Kineas per tenerlo giù, Kineas si aggrappava al collo dell’amico, più robusto, come un fattore che lotta con un vitello. Di colpo furono di nuovo in piedi, e ridevano. Calco si sistemò la tunica sul torace muscoloso e Kineas si strofinò via la sabbia dalle mani.

    «Dieci anni», disse Calco.

    «L’esilio ti dona», rispose Kineas.

    «Già. Non tornerei indietro», e dal suo tono traspariva che sarebbe tornato se avesse potuto, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo.

    «Hai ricevuto la mia lettera?». Kineas detestava chiedere ospitalità, la sorte di ogni esule.

    «Non fare l’idiota. Certo che l’ho ricevuta. Ho la tua lettera, qualcuno dei tuoi cavalli e il tuo iperete con la sua banda di zoticoni. Gli ho dato da mangiare per un mese. Qualcosa mi dice che non hai neanche un vaso per pisciare».

    Kineas si adombrò. «Ti ripagherò…», attaccò.

    «Certo che lo farai. Kineas… ci sono già passato. Indicò svogliatamente il fardello di Kineas allo schiavo che reggeva la torcia, che sollevò la sacca con un forte grugnito e un lungo sospiro. «Non essere orgoglioso, Kineas. Tuo padre mi ha salvato la vita. Ci era giunta la spiacevole notizia che tu fossi morto… ma in esilio, naturalmente. Atene è una città di ingrati. Ma noi non ti abbiamo dimenticato. Per di più, il timoniere dice che hai contribuito a salvare la nave… c’era il mio carico là sopra. Probabilmente sono io in debito con te». Guardò in lontananza: nella debole luce della torcia vide un uomo che dalla fiancata della nave saltava giù sulla spiaggia.

    Lo Spartano si chinò, i ricci che gli coprivano il volto, e baciò la spiaggia con gesto plateale. Poi raggiunse Kineas e, esitando, si fermò dietro di lui.

    Kineas fece un cenno verso di lui. «Filocle, signore di… Mitilene». La pausa era voluta; poté vedere la confusione – persino la rabbia – sul volto di Calco.

    «È spartano».

    Kineas alzò le spalle.

    «Sono esule», disse Filocle. «Trovo che l’esilio abbia questa virtù: nessun esule può essere responsabile delle azioni compiute dalla sua città».

    «È con te?», chiese Calco. La sua ospitalità e la buona educazione si erano consumate un po’ sull’Eusino, pensò Kineas. Calco era abituato a comandare.

    «Il nobile Ateniese mi ha salvato la vita, tirandomi fuori dall’acqua quando le forze mi stavano abbandonando». Lo Spartano era grassoccio. Kineas non aveva mai visto uno Spartano grassoccio prima d’ora. In mare non lo aveva notato ma ora, alla luce della torcia, era evidente.

    Calco girò i tacchi – nel migliore dei casi era solo un gesto rude, in questo era un insulto voluto – e fece un cenno verso la spiaggia. «Bene. Anche lui può stare da me. È troppo tardi per restare fuori, Kineas. Ti risparmio per domani le domande su tutto quello che è accaduto».

    Se lo Spartano era offeso, non lo diede a vedere. «Molto gentile, signore».

    Nonostante i giorni di duro lavoro e le notti insonni che aveva alle spalle, Kineas si svegliò prima dell’alba e uscì di casa per ritrovare i primi schiavi assonnati che portavano l’acqua dal pozzo alla cucina. Filocle aveva passato la notte sotto il portico, come un servo, ma non sembrava aver patito poi tanto perché dormiva ancora, russando sonoramente. Kineas osservò l’alba, e quando ci fu abbastanza luce scese lungo il vicolo dietro la casa fino al recinto che ospitava i cavalli. Al pascolo ce n’erano una ventina, la maggior parte dei quali – notò con piacere – erano suoi. Camminò lungo il recinto finché non vide proprio quello che si aspettava di trovare: un piccolo fuoco che bruciava in lontananza e un uomo lì accanto con una piccola lancia in mano. Kineas si avventurò lungo il terreno impervio finché la sentinella non lo riconobbe, e allora tutti si svegliarono, nove uomini con grosse barbe e gambe storte altrettanto grosse.

    Kineas li salutò uno per uno. Erano soldati professionisti, uomini di cavalleria che avevano accumulato decine di ferite e anni di guerra, e nessuno di loro aveva le ricchezze o gli amici necessari per aspirare allo status di cavaliere in nessuna città. Antigono, il Gallo, aveva più probabilità di diventare schiavo che cittadino e aveva cominciato, come il suo amico Andronico, con altri mercenari mandati via da Siracusa. Gli altri, un tempo, erano stati ricchi possidenti in città che non li volevano o non esistevano più. Lykeles era di Tebe, che Alessandro aveva distrutto. Ceno era di Corinto, amava la letteratura e il suo passato era alquanto misterioso. Era un uomo ricco e colto che sembrava incapace di tornare a casa. Agide aveva vissuto a Megara e ad Atene, era povero ma di nobili natali, e non aveva conosciuto altra vita all’infuori della guerra. Gracco, Diodoro e Laerte erano gli ultimi cittadini di Atene, gli ultimi ad aver seguito Kineas in Asia. Erano esuli senza un soldo.

    Nicia, che era stato il suo iperete per sei anni, si alzò per ultimo e lo abbracciò. Con i suoi quarant’anni, era il più vecchio. Aveva delle striature di grigio tra i folti capelli neri e una cicatrice che gli attraversava il volto, regalo di una spada persiana. Era nato schiavo in un bordello ateniese.

    «Ecco tutti i ragazzi. E tutti i cavalli».

    Kineas annuì, riconoscendo nel recinto il suo cavallo grigio, il suo preferito. «Siamo i migliori. Sapete tutti dove andremo?».

    Per la maggior parte erano ancora mezzi addormentati. Antigono si stava già stirando i muscoli dei polpacci come un atleta. Scossero tutti la testa con poco interesse.

    «L’arconte di Olbia mi ha offerto una fortuna per creare e addestrare l’hippeis, la sua guardia del corpo a cavallo. Se sarà soddisfatto di noi, diventeremo cittadini». Kineas sorrise.

    Se si aspettava di scuoterli, rimase invece deluso. Ceno fece un gesto con la mano e poi parlò con il disprezzo del vero aristocratico. «Cittadini della città più barbara dell’Eusino? Al servizio di un qualche meschino tiranno? Prenderò quel che mi spetta in civette⁶ d’argento».

    Kineas scrollò le spalle. «Non siamo più così giovani, amici», disse. «Non disprezzate la cittadinanza prima di aver visto la città».

    «Chi è il nemico, allora?», chiese Nicia, toccandosi distrattamente l’amuleto che aveva al collo. Non era mai stato cittadino di nessun luogo, la sola idea per lui non era altro che una fantasia.

    «Non lo so… ancora. La sua gente, penso. Non c’è tanto da combattere qui».

    «La Macedonia, forse». Diodoro parlava a bassa voce, ma con grande autorità. Sapeva di politica molto più degli altri. Kineas si rivolse a lui. «Sai qualcosa?»

    «Solo voci. Il giovane re è lontano, impegnato nella conquista dell’Asia, e Antipatro sta pensando di conquistare l’Eusino. Lo abbiamo sentito dire nel Bosforo». Sorrise. «Ti ricordi Filippo Kontos? Ora comanda lui la compagnia di Antipatro. Lo abbiamo visto. Ha cercato di arruolarci».

    L’altro uomo annuì. Kineas rifletté per un minuto, con la testa appoggiata sul pugno come faceva sempre quando qualcosa lo rendeva perplesso, e poi disse: «Prenderò quello che vi serve nella casa e ve lo porterò. Tu scrivi un paio delle tue famose lettere e procurami altre informazioni. A Ecbàtana e ad Atene nessuno ha mai detto che Antipatro si sarebbe messo in marcia». Diodoro annuì seccamente. Kineas li guardò tutti. «Siamo sopravvissuti», disse all’improvviso. C’erano stati tempi in cui, senza ombra di dubbio, tutto sembrava indicare che nessuno di loro ci sarebbe mai riuscito.

    Nicia scosse la testa. «A mala pena». Prese in mano una coppa di vino e si affrettò a versarla per terra in libagione per riparare alla sua ingratitudine verso gli dèi. «Questo è per gli spiriti di coloro che non l’hanno fatto».

    Tutti quanti annuirono.

    «È bello vedervi di nuovo. Partiremo insieme da qui a cavallo. Basta navi per quanto mi riguarda». Si avviarono tutti verso i destrieri eccetto Diodoro, che rimase a fare da sentinella. Era una delle regole imprescindibili: avere sempre una sentinella. L’avevano imparata dalle brutte esperienze. E troppe volte era stata pienamente giustificata.

    I cavalli erano in forma, gli zoccoli induriti dalla roccia e dalla sabbia del terreno, i dorsi scintillanti. Ne avevano quindici pesanti e sei leggeri, e diverse bestie da soma: un vecchio cavallo che aveva passato i suoi anni migliori ma reggeva ancora, e due muli che avevano catturato durante l’invasione della Tracia insieme al giovane re e non avevano mai abbandonato. Per Kineas ogni cavallo aveva una storia; per la maggior parte si trattava di destrieri persiani guadagnati come bottino nella battaglia di Isso, ma c’era un baio che avevano comprato al mercato militare dopo la caduta di Tiro; e poi il cavallo grigio metallo, la più grande giumenta che Kineas avesse mai visto, che vagava senza cavaliere dopo una schermaglia al guado sull’Eufrate. Il cavallo più grosso gli ricordava l’altro grigio, lo stallone che aveva preso a Isso, morto di fame e di freddo. La guerra era crudele con i cavalli. E con gli uomini. Kineas si scoprì commosso al pensiero che fossero rimasti solo in pochi. Ma la gioia di vedere i suoi compagni sopravvissuti gli gonfiava il petto.

    «Va bene. Ho bisogno di un giorno o due; non ci aspettano a Olbia prima della Kharisteria⁷ quindi abbiamo tempo. Lasciate che mi rimetta in sesto, e poi partiremo».

    Nicia agitò le braccia verso di loro. «Dobbiamo partire tra un giorno? Ma ci sono un mucchio di cose da fare, signori. Il cibo, l’armatura, le armi». Cominciò a elargire suggerimenti che suonavano più come ordini, e gli altri uomini, quasi tutti nati ricchi e potenti, gli obbedirono, sebbene lui fosse nato in un bordello.

    Kineas posò la mano sulla spalla del suo iperete. «Prenderò il mio equipaggiamento e vi raggiungerò nel pomeriggio». Un’altra abitudine: ogni uomo puliva il suo equipaggiamento, come facevano gli opliti. «Mandami Diodoro. Sto andando al ginnasio».

    Nicia annuì e condusse gli altri al lavoro.

    In quella che passava per essere la città, solo tre cose erano di pietra: i pontili, i magazzini e il ginnasio. Kineas si recò al ginnasio con Diodoro. Filocle si unì a loro appena partirono, e Calco insistette per far loro da guida e da garante.

    Se le dimensioni della casa non ne rivelavano immediatamente la ricchezza, l’accoglienza che ebbe nell’agorà e al ginnasio ne fu invece una prova più che sufficiente. Nell’agorà, Calco fu salutato con cenni di rispetto e molti uomini chiedevano a gran voce la sua benevolenza mentre attraversava la città. Al ginnasio, gli altri tre uomini furono subito ammessi gratuitamente di fronte alla sua insistenza.

    «L’ho costruito io», disse Calco con orgoglio. Poi cominciò a elencare i pregi dell’edificio. Kineas, forse con la mente ancora ad Atene, lo trovò soddisfacente ma provinciale. La vanagloria di Calco lo irritò. Nonostante questo, il ginnasio gli offriva la migliore opportunità di allenarsi che avesse avuto negli ultimi mesi. Si spogliò, lasciando cadere i vestiti sui sandali.

    Calco sghignazzò. «Troppo in sella sei stato!», rise.

    Kineas si irrigidì, risentito. Le sue gambe erano un po’ troppo muscolose in cima, mentre sotto al ginocchio non erano mai state un granché da guardare. Per gli Elleni suoi compagni, che veneravano il fisico maschile, le sue gambe erano tutt’altro che perfette, ma era dovuto andare al ginnasio per ricordarselo.

    Cominciò il riscaldamento. Calco, al contrario, aveva un corpo vigoroso, allenato, nonostante avesse cominciato ad accumulare un rotolo di grasso intorno alla vita. E aveva le gambe lunghe. Cominciò a esercitarsi nella lotta con un uomo molto più giovane sulla sabbia del cortile. Gli spettatori facevano commenti volgari. A quanto pareva il giovane era un frequentatore abituale del ginnasio.

    Kineas si rivolse a Diodoro: «Che ne dici di un paio di incontri?»

    «Quando vuoi». Diodoro era alto, magro, sembrava un asceta. Non aveva nulla dell’ideale ellenico di bellezza.

    Kineas si mosse in cerchio, aspettando che l’avversario, più alto di lui, gli saltasse addosso per attaccarlo e spingerlo al contatto, sfruttando il suo allungo. Diodoro trasferì lo slancio dell’attacco dalle braccia alle anche e Kineas si ritrovò disteso nella sabbia.

    Si rialzò lentamente. «Era necessario?».

    Diodoro era imbarazzato. «No».

    Kineas fece un sorriso amaro. «Se stai cercando di dimostrarmi che nella lotta sei più forte di me, lo sapevo già».

    Diodoro alzò la mano. «Quando mai ho la possibilità di usare quella mossa? Tu mi sei venuto incontro. Non ce l’ho fatta a trattenermi». Stava sorridendo, e Kineas si massaggiò la schiena dolorante e si fece avanti per un’altra presa. Sentiva un po’ la morsa della paura, quella paura costante che si portava dietro in ogni sfida, in ogni battaglia. Si lanciò in una presa bassa, che in parte gli riuscì, e lui e Diodoro si ritrovarono al suolo in un brutto groviglio, nessuno dei due in grado di fermare l’altro, entrambi coperti da sabbia e ghiaia. Per una forma di mutuo, tacito consenso, lasciarono entrambi la presa e si aiutarono l’un l’altro ad alzarsi.

    Fuori, Calco aveva bloccato il giovane con cui stava lottando. Non sembrava aver fretta di lasciarlo alzare, e gli altri cittadini ridevano fragorosamente. Kineas affrontò di nuovo Diodoro. I due si attaccarono, si avvicinarono e si ripresero a un ritmo più normale. Sembrava quasi una danza, e Diodoro si limitava ai movimenti imparati nelle lezioni al ginnasio, che non preoccupavano Kineas. Vinse persino un incontro.

    Diodoro si massaggiò l’anca e sorrise. Kineas era caduto sopra di lui, un gesto perfettamente legittimo nel gioco ma inevitabilmente doloroso per la vittima. «Addirittura?»

    «Addirittura». Kineas lo aiutò a rialzarsi.

    Calco era lì in piedi con il giovane e altri cittadini. Urlò. «Vieni a lottare con me, Kineas».

    Kineas aggrottò le sopracciglia e girò la testa, in imbarazzo in mezzo a tutti quegli estranei, con la paura che aumentava al pensiero che Calco era più grosso, era un lottatore più forte, e ricordando che ad Atene, da ragazzo, gli piaceva usare il suo vantaggio fisico per provocare un po’ di dolore all’avversario. A Kineas non piaceva il dolore. Dieci anni di guerra non lo avevano abituato ad affrontare distorsioni, contusioni e ferite profonde che ci mettevano settimane per guarire; se non altro, dieci anni passati a guardare uomini vivere o morire secondo il volere degli dèi lo avevano reso più timoroso.

    Alzò le spalle. Calco era il suo ospite, era un buon lottatore e contava di dimostrare la sua superiorità. Kineas strinse i denti e lo assecondò, perdendo il primo incontro in un prudente combattimento corpo a corpo e vincendo il secondo grazie a un movimento di una frazione di secondo dovuto più alla fortuna che all’abilità, e che sorprese entrambi. Calco lo colse ancora alla sprovvista rialzandosi dalla caduta con grazia, riempiendosi le labbra di lodi e continuando senza rancore. Dieci anni prima, il giovane Calco sarebbe arrivato al sangue. Il terzo incontro fu come il primo; prudente, con un ritmo che lo faceva assomigliare più a una danza che a un combattimento, e quando alla fine Kineas fu messo al tappeto, l’azione fece esplodere gli spettatori in fischi di approvazione.

    Calco respirava profondamente, con il braccio intorno alla vita di Kineas mentre lui lo aiutava a camminare. «Bell’incontro. Lo avete visto tutti?», chiese agli altri. «Una volta era un bersaglio facile».

    Gli uomini si affrettarono a complimentarsi con Calco per la vittoria e a dire a Kineas quanto era stato bravo. Era tutto piuttosto stucchevole: un’enorme quantità di lodi profuse per una cosa così piccola. Ma Kineas era infastidito soprattutto per la consapevolezza di aver donato al suo ospite una ricompensa migliore del denaro: un incontro memorabile in cui gli aveva fatto fare bella figura.

    Il giovane con cui Calco aveva combattuto prima era piuttosto bello; si notò quando arrivò per complimentarsi con gli sfidanti. Kineas non era sensibile alla bellezza maschile, ma la apprezzava come ogni altro Greco, e sorrise a quel giovane zelante.

    «Io sono Aiace», disse il ragazzo in risposta al sorriso di Kineas. «Sono figlio di Isocle. Posso dirvi che avete combattuto benissimo? Infatti io…». Esitò, si mangiò le parole e rimase in silenzio.

    Kineas non ebbe difficoltà a interpretare il suo comportamento: era un attento osservatore dei giovani. Stava per dire che Kineas era risultato il lottatore migliore. Era un ragazzo intelligente. Kineas mise una mano sulla spalla liscia del giovane. «Ho sempre immaginato che Aiace fosse più grosso».

    «Ha sentito questa battuta stupida per tutta la sua vita», disse il padre.

    «Cerco di crescere per raggiungerlo», replicò Aiace. «E poi c’era anche un Aiace più piccolo».

    «Un po’ di pugilato? Ti va di fare un po’ a pugni?». Kineas indicò le fasce per i pugili e il volto del ragazzo si illuminò. Il giovane guardò il padre, che scosse la testa con simulata indignazione. «Non farti conciare troppo male o nessuno vorrà portarti a casa dal simposio», disse. Fece l’occhiolino a Kineas. «O dovrei dire fatti conciare male, così da non aver più voglia di tornare a casa? Tu hai figli?».

    Kineas scosse la testa. «Be’, è un’esperienza. Comunque, sentiti libero di fargli qualche livido».

    Diodoro aiutò entrambi a fasciarsi le mani, poi iniziarono. Prima per un mutuo accordo si esibirono in movimenti di routine, colpetti e bloccaggi, poi passarono agli scambi lunghi e per finire cominciarono a combattere sul serio.

    Il ragazzo era bravo ˗ più di quanto un campagnolo vissuto in una laguna sull’Eusino avesse il diritto di essere. Le sue braccia erano più lunghe di quanto non apparissero e sapeva fare le finte, ruotando le spalle per annunciare un gancio che non arrivava mai, per poi colpire corto con il braccio basso. Questo stimolò Kineas, ormai caldo e impaziente; un colpo corto alla gola aumentò il suo interesse per il combattimento, e in un attimo c’erano dentro.

    Kineas non si era reso conto che avevano trascinato tutti i cittadini al ginnasio. Il suo mondo si limitava alle sue mani fasciate e a quelle dell’avversario, agli occhi, al torso nudo di quest’ultimo. In una raffica di colpi, ciascuno di loro mise a segno il diretto dieci o dodici volte, schivando ogni attacco alzando un braccio o piazzando un colpo alto sul torace per poi arrivare alla testa.

    La raffica finì in un giro di applausi che li fece separare. Si guardarono con diffidenza, ancora posseduti dal daimon del combattimento, ma la scarica di energia si dileguò subito e tornarono a essere semplici mortali in un ginnasio di provincia. Si strinsero calorosamente la mano.

    «Ancora?», disse il ragazzo, e Kineas scosse la testa.

    «No, non potrebbe essere così bello di nuovo. Lasciamolo com’è». Poi, dopo un istante aggiunse: «Sei molto bravo».

    Il ragazzo abbassò la testa con sincera modestia. «Stavo andando più veloce che potessi. In genere non lo faccio mai. Sei migliore di chiunque altro qui».

    Kineas scrollò le spalle e si rivolse al padre del ragazzo, dicendogli quanto talento avesse il figlio. Era un modo efficace per farsi degli amici al ginnasio. Tutti volevano congratularsi con lui per le sue capacità, per la bellezza del momento. Questo lo rese felice. Ma aveva bisogno di un massaggio e di riposo, e lo disse, declinando innumerevoli offerte di altri combattimenti, finché qualcuno disse che stavano andando tutti a tirare di giavellotto, e non poté resistere. Li seguì fuori e sentì una stretta al cuore quando vide… Filocle, dimenticato o ignorato, che stava girando a vuoto nel campo pieno di pecore. Kineas non sapeva cosa fare con quello Spartano, che sembrava essere diventato un suo dipendente. In genere un signore come lui avrebbe dovuto mantenere un certo contegno, ma Kineas suppose che a lui stesso non sarebbe andata molto diversamente se fosse approdato su una costa straniera senza beni né casa. Lo salutò. Filocle ricambiò il saluto.

    Uno schiavo radunò le pecore in fondo al campo e gli uomini cominciarono a lanciare. Non era un gioco formale; gli uomini più vecchi a cui non era piaciuto il loro primo lancio, ne facevano un secondo o anche un terzo finché non erano soddisfatti, mentre i più giovani dovevano accontentarsi di un solo tiro. Non sarebbe mai stato permesso alle Olimpiadi, ma si stava così comodi, mentre le ombre cominciavano ad accorciarsi, distesi sull’erba (incuranti degli escrementi delle pecore) a guardare l’intera comunità di uomini che si sfidavano. Kineas era consapevole delle sue gambe e delle imperfezioni del suo corpo, ma si sarebbe dimostrato un atleta ed era uno di loro ormai, mentre conversava con Isocle della raccolta delle olive nell’Attica e dei problemi dello spostamento in mare dell’olio d’oliva.

    Calco lanciò emettendo un urlo, e il suo giavellotto arrivò abbastanza vicino alle pecore da farne scappare una con insolita velocità. Rise. «È il migliore finora. Voglio lanciare ancora. E quelle sono le mie pecore, potremmo tutti mangiare carne di montone questa sera».

    Kineas era il penultimo a lanciare e Filocle l’ultimo, due posti d’onore che erano stati riservati loro in quanto ospiti. Diodoro aveva lanciato; un buon lancio, senza grugniti né urli, battuto solo da quello di Calco. La maggior parte degli altri cittadini era stata capace, ma il giovane Aiace aveva sorpreso Kineas con un lancio scarso. Isocle lo aveva battuto con un bel tiro, forse un po’ corto nella parte finale, e aveva preso in giro suo figlio.

    Kineas in genere lanciava da cavallo, e lanciò troppo basso, ma fu comunque un tiro lungo, e non appena il suo giavellotto atterrò vicino alle pecore, quelle partirono di nuovo.

    Calco trasalì. «Sei diventato un atleta mentre io mi ingrassavo in esilio», disse.

    Filocle valutò molti giavellotti prima di sceglierne uno. Camminò verso Calco, che stava parlando d’affari con un altro uomo. «Questo non è molto sportivo. Ricordati che sono Spartano». Lo disse con un sorriso: era uno Spartano sovrappeso con un certo senso dell’umorismo.

    Calco non capì. Fece un movimento della testa come a dire che era stato interrotto. «Se puoi fare di meglio allora fallo, vediamo».

    Infastidito, Filocle indicò le pecore. «Quanto mi dai per la pecora che si sta allontanando?».

    Calco lo ignorò, tornando alla conversazione, e poi ruotò la testa di scatto, in tempo per vedere Filocle lanciare, con il corpo inarcato e quasi sollevato da terra. Il giavellotto saltò dalla sua mano, volò alto e poi scese veloce. Stese la pecora a terra, le zampe divaricate: la freccia venuta dal cielo l’aveva gettata al suolo trapassandole il cranio.

    Ci fu un momento di spaventoso silenzio e poi Kineas cominciò ad applaudire. Poi applaudirono tutti il lancio e presero in giro Calco per la sua pecora, suggerendo vari prezzi per lei, alcuni osceni, finché non rise anche Calco. La maggior parte dell’interazione sociale in città sembrava girare intorno al compiacimento di Calco. A Kineas la cosa non piaceva.

    Isocle indicò il fondo del campo. «Facciamo una corsa», disse. Stabilirono le distanze e partirono, correndo per un po’ in gruppo finché i corridori migliori non cominciarono ad annoiarsi e si staccarono. Fecero il giro del campo tre volte, una buona distanza, e finirono nel cortile del ginnasio. Kineas era quasi ultimo e si beccò qualche bella canzonatura sulle sue gambe; poi si diressero verso il bagno.

    Stanco e pulito, con un paio di lividi e un generale senso di eudaimia, lo stato di benessere che gli veniva inevitabilmente dall’attività al ginnasio, Kineas camminava accanto a Calco. Diodoro era andato via con degli uomini più giovani a fare un giro al mercato.

    «Potresti fare qualcosa di buono qui», disse Calco all’improvviso. «A loro piaci. Questa guerra che fai… non è cosa da uomini. In difesa della tua città sarebbe diverso. Ma… un mercenario? Tu sprechi quello che gli dèi ti hanno donato. E un giorno una spada barbara qualunque ti si conficcherà nello stomaco e rimarrai lì. Resta qui, compra una fattoria. Prendi moglie, Isocle ha una figlia carina, intelligente e brava nelle faccende domestiche. Ti potrei proporre per la cittadinanza dopo i festeggiamenti in onore di Eracle. Per Zeus, ti accetterebbero domani, dopo quel combattimento».

    Kineas non sapeva cosa dire. La cosa lo tentava. Gli sarebbero piaciuti quegli uomini. I cittadini di Tomis erano un buon gruppo, provinciali ma non rustici, dediti ai giochi rozzi e alla filosofia spicciola. E a tutti gli sport migliori. Alzò le spalle. «Lo devo ai miei uomini. Sono venuti qui per unirsi a me». Kineas non aggiunse che qualcosa in lui non vedeva l’ora di lanciarsi in un’altra campagna.

    «Possono spostarsi senza problemi e prendere servizio altrove. Sei un signore, Kineas. Non devi niente a nessuno».

    Kineas aggrottò le sopracciglia. «Anche loro sono signori, per la maggior parte, Calco».

    «Oh, naturalmente». Rispose Calco, sdegnato. «Ma non sarà più così. Davvero. Forse Diodoro? Potrebbe essere un fattore o il tuo assistente. E quei Galli… dovrebbero essere schiavi. Sarebbero felici di essere schiavi». Calco parlò in modo autorevole e definitivo.

    Kineas alzò di nuovo le sopracciglia e ciò gli permise di distrarsi con un uomo che era in strada. Non aveva bisogno di litigare con il suo ospite. «Un barbaro?», chiese, indicandolo. L’uomo in strada era chiaramente un barbaro. Indossava pantaloni di pelle e aveva lunghi capelli sudici intrecciati e una giacca di pelle coperta di decorazioni colorate, ed era vestito d’oro.

    La giacca aveva molti ornamenti d’oro e mostrava dei buchi dove erano stati rimossi altri braccialetti. Aveva un orecchino. E un cappello in testa secondo l’usanza tracia.

    Puzzava di urina e vomito e di sudore marcio. Sembrava quasi che ne fosse ricoperto. Non stava dormendo, i suoi occhi erano aperti e persi nel vuoto. Calco lo guardò con profondo disprezzo. «Uno Scita. Gente disgustosa. Brutti, puzzolenti, barbari. Nessuno conosce la loro lingua e non sono buoni neanche come schiavi».

    «Pensavo fossero pericolosi». Kineas guardò l’ubriacone con interesse. Immaginò che a Olbia ci sarebbero stati molti Sciti nati praticamente in sella, nemici pericolosi. Questo non sembrava un guerriero. «No, non credere. Non sanno reggere il vino, non sanno parlare, non sanno neanche camminare. Non hanno molto di umano. Non ne ho mai visto uno sobrio».

    Calco proseguì e Kineas gli tenne dietro, sebbene malvolentieri. Avrebbe voluto guardare meglio quell’uomo, ma Calco non era interessato. Guardò indietro e vide che l’ubriaco si stava rimettendo in piedi, barcollando, per poi crollare di nuovo a terra. Kineas seguì Calco dietro un angolo e perse di vista lo Scita.

    Aveva sentito parlare molto degli Sciti al simposio perché era l’ospite più anziano, così introdusse l’argomento. Il vino scorreva a fiumi; le solite etère⁸ e i piatti di pesce si susseguivano come d’abitudine, poi gli uomini più vecchi si misero a parlare, spostando i loro giacigli in modo che i più

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