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Juventus. Capitani e bandiere
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E-book299 pagine4 ore

Juventus. Capitani e bandiere

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Info su questo ebook

Il racconto dei grandi campioni che hanno fatto la storia della Vecchia Signora

Come si raccontano i grandi campioni bianconeri? Scegliendo non i più forti, non necessariamente i più decisivi in campo. Ma selezionando i cinquanta uomini che più di chiunque altro hanno rappresentato la Juventus. Giocatori che hanno avuto i gradi di capitano intorno al braccio, ma anche coloro che sono diventati vere e proprie bandiere dei tifosi. Le bandiere bianconere sono quei giocatori che hanno creato un legame stretto con una sola squadra, mantenendo sempre fedeltà al club e alla maglia. Hanno suscitato nel corso degli anni sentimenti di identificazione nei tifosi, il cui affetto nei loro confronti sconfina a volte nel culto della personalità. La gloriosa storia bianconera ha prodotto inevitabilmente un gran numero di capitani e bandiere. Fuoriclasse come Boniperti e Del Piero, ma anche difensori come Scirea e Parola, centrocampisti come Marchisio e Del Sol, jolly come Cuccureddu e Di Livio. E tanti altri. Raccontare la loro storia significa raccontare l’epopea bianconera da un punto di vista privilegiato: sulle spalle dei condottieri.

Campioni, idoli, eroi bianconeri: un excursus sulla grande storia della Juventus, tratteggiata attraverso i ritratti dei più grandi giocatori di sempre

Tra i protagonisti della storia bianconera:

• José Altafini • Roberto Baggio • Roberto Bettega • Giampiero Boniperti • Gianluigi Buffon • Antonio Cabrini • Renato Cesarini • John Charles • Giorgio Chiellini • Edgar Davids • Alessandro Del Piero • Didier Deschamps • Angelo Di Livio • Giuseppe Furino • Claudio Marchisio • Paolo Montero Iglesias • Pavel Nedved • Andrea Pirlo • Michel Platini • Paolo Rossi • Gaetano Scirea • Lucidio Sentimenti (Sentimenti IV) • Omar Sivori • Marco Tardelli • David Trezeguet • Gianluca Vialli • Dino Zoff
Claudio Moretti
è autore del programma TV Sfide dal 2007. Scrive programmi per la televisione da quindici anni. È sposato e ha due figli. Ha calcolato di aver visto più di 1200 partite della Juve. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi libri in bianconero: 1001 storie e curiosità sulla grande Juventus che dovresti conoscere; I campioni che hanno fatto grande la Juventus; La Juventus dalla A alla Z; Forse non tutti sanno che la grande Juventus…; 101 partite che hanno fatto grande la Juventus; Tutto quello che avresti voluto sapere sulla Juventus e non ti hanno mai raccontato; La storia della grande Juventus in 501 domande e risposte e Juventus. Capitani e bandiere. È autore inoltre del volume illustrato Storie di grandi campioni per ragazze e ragazzi di talento e di Il grande libro dei quiz sulla storia del calcio italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2020
ISBN9788822750099
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    Anteprima del libro

    Juventus. Capitani e bandiere - Claudio Moretti

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    José Altafini

    Pietro Anastasi

    Roberto Baggio

    Romeo Benetti

    Roberto Bettega

    Carlo Bigatto

    Giampiero Boniperti

    Borel ii Felice Placido

    Sergio Brio

    Gianluigi Buffon

    Antonio Cabrini

    Umberto Caligaris

    Ernesto Castano

    Franco Causio

    Renato Cesarini

    John Charles

    Giorgio Chiellini

    Giampiero Combi

    Antonio Conte

    Antonello Cuccureddu

    Edgar Davids

    Alessandro Del Piero

    Luis Del Sol

    Teobaldo Depretini

    Didier Deschamps

    Angelo Di Livio

    Ciro Ferrara

    Giovanni Ferrari

    Giuseppe Furino

    Claudio Gentile

    Claudio Marchisio

    Paolo Montero Iglesias

    Luis Monti

    Pavel Nedved

    Carlo Parola

    Andrea Pirlo

    Michel Platini

    Pietro Rava

    Virginio Rosetta

    Paolo Rossi

    Sandro Salvadore

    Gaetano Scirea

    Lucidio Sentimenti (Sentimenti iv)

    Omar Sivori

    Stefano Tacconi

    Marco Tardelli

    David Trezeguet

    Gianluca Vialli

    Dino Zoff

    em

    512

    Prima edizione ebook: ottobre 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5009-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale s.r.l.s.

    Claudio Moretti

    Juventus

    Capitani e bandiere

    Il racconto dei grandi campioni che hanno fatto la storia della Vecchia Signora

    omino

    Newton Compton editori

    Al capitano del mio cuore, mia moglie Benedetta.

    Alle bandiere della mia vita,

    i miei genitori Luciano e Francesca.

    José Altafini

    Sostiene José Altafini nel suo solito modo scanzonato di affrontare ogni questione: «Una partita senza un gol è come l’amore senza un bacio». E lui, di baci al pallone, non è mai rimasto a secco nel corso della sua lunga carriera. A dirla tutta, quelli messi a segno dal campione italo-brasiliano non sono semplici gol, sono veri e propri golazi, come li chiamerà anni dopo nelle sue memorabili telecronache. Golazi spesso per la fattura, molte volte per l’importanza, che soprattutto racchiudono una rara prerogativa: quella di essere reti senza tempo e senza età.

    Classe 1938, il filosofo che ama risolvere i problemi con sorrisi e motti di spirito è un cannoniere dotato di fantasia, tecnica e potenza. Tutte qualità che gli garantiranno lunga vita in Italia e che ovviamente torneranno assai utili durante la sua straordinaria avventura juventina. Col passare delle primavere, il saggio Josè manifesterà inoltre una spiccata abilità nell’amministrarsi, tanto nella vita privata quanto sul rettangolo di gioco. Imparerà infatti a risparmiarsi e a togliere prontamente il piede dai tackle troppo irruenti, rimettendolo ancor più prontamente al momento di spingere la palla oltre la linea di porta. Ecco il segreto che gli ha permesso di diventare un autentico fenomeno di longevità.

    Altafini smette di giocare a trentotto anni suonati, con tutti che lo chiamano nonno. In gioventù, invece, i molti italo-brasiliani del xv de Piracicaba, la squadretta della sua città natale, gli affibbiano il nomignolo di Mazzola, riconoscendogli una certa somiglianza con il leggendario capitano del Grande Torino. Nato in una famiglia molto povera da genitori entrambi emigrati dall’Italia, già a nove anni si divide tra scuola e lavoro, fino a conseguire il diploma da meccanico in un istituto professionale. Josè dimostra una spiccata manualità, ma se la cava ancor meglio coi piedi e non gli servono salti mortali per essere inserito nelle giovanili del Palmeiras di San Paolo. Esordisce in prima squadra il 29 gennaio del 1956, entrando nel secondo tempo di un’amichevole contro il Catanduva e stabilendo un record tuttora imbattuto. Dopo aver firmato una sbalorditiva doppietta, infatti, Altafini diventa il più giovane marcatore della storia del club biancoverde: a soli 17 anni, 6 mesi e 5 giorni.

    Le stimmate del fuoriclasse appaiono evidenti e così, appena ventenne, il bomber che somiglia a Mazzola viene convocato per far parte della seleçao verdeoro del 1958, lo squadrone che trionferà al Mondiale svedese. Non gli viene però affidata una maglia da titolare, anzi è costretto a osservare dalla panchina per far posto in attacco a un diciassettenne prodigioso che avrà modo di farsi conoscere col suo soprannome: le due sillabe più famose della storia del calcio. La stella di Pelè inizia a rifulgere proprio a partire da quella Coppa del Mondo, mentre Josè ha tutto il tempo per essere avvicinato in disparte dai ricchi club europei. A mostrare il maggior interesse è il Milan, che arriva a scucire la bellezza di 135 milioni di lire pur di aggiudicarsi i servigi del giovane attaccante italo-brasiliano.

    Ammantato di rossonero, Altafini ripaga la fiducia nel modo che gli è più congeniale, ossia contribuendo a suon di gol alla conquista di 2 scudetti e una Coppa dei Campioni, la prima dell’epopea milanista, sollevata al cielo in quel di Londra contro il Benfica. A ventisette anni, esauritosi l’amore col Milan, il goleador di Piracicaba passa al Napoli. Qui, in coppia con l’ex fuoriclasse juventino Omar Sivori, firma pagine indimenticabili della storia calcistica partenopea, sfiorando addirittura il tricolore.

    La Vecchia Signora conosce l’ultimo Altafini, quello crepuscolare, che arriva a Torino alla venerabile età di trentaquattro anni. È l’estate del 1972 e Giampiero Boniperti, che l’Altafini rossonero lo aveva imparato a conoscere sul campo, decide di proporlo come valido rinforzo per un attacco che già può vantare due bocche di fuoco del calibro di Bettega e Anastasi. Alla Juve, d’altronde, si è cominciato a ragionare in grande: c’è l’ambizione di bissare lo scudetto della stagione precedente e soprattutto c’è la voglia di accarezzare il sogno di un successo europeo. Per farlo è necessario comprare un buon centravanti che costi il giusto e non rovini gli equilibri di gioco. Insomma, il classico panchinaro di lusso. Il vecchio Josè risponde perfettamente all’identikit, dunque viene ingaggiato con un contratto a gettone: tanto giochi, tanto ricevi, con un bonus per le reti messe a segno.

    Prima ancora di iniziare a buttarla dentro, tutti a Torino s’innamorano di quella lingua sciolta, quel muso furbo e quel pelo fulvo che, a ben guardare, inizia a mostrare i primi segni di canizie. Il simpatico scapigliato piace ai tifosi e fa bene all’ambiente, ma le sue indubbie qualità umane e caratteriali hanno pur sempre bisogno di un contraltare sul campo. Il vecchio leone ne è consapevole e non tarderà a sfoderare il suo marchio di fabbrica, costellando gli anni con la Juve di marcature belle e talvolta pesantissime.

    Gioca e segna, l’attempato Josè, divertendosi e facendo schiamazzi, spesso entrando a partita in corso. Le statistiche parlano chiaro: dei suoi 37 gol complessivi in bianconero, 13 li realizzerà da riserva. Altafini è il bomber part-time che, con esperienza e opportunismo, sa trovare in più di un’occasione lo spunto per vestire i panni di uomo della provvidenza. Succede già il 3 dicembre del 1972 contro la Fiorentina. La partita stagna sull’1-1, quando al posto di Cuccureddu entra Josè, che dopo appena cinque minuti mette a segno la zampata del 2-1. Un mese più tardi, contro la Roma, il vegliardo si ripete schiodando lo 0-0 e tenendo la Juventus in corsa per il primo posto in campionato.

    Si arriva così all’ultima, fatidica giornata. È il 20 maggio e la Juve, impegnata di nuovo contro la Roma all’Olimpico, insegue il Milan a una sola lunghezza di distanza. Il primo tempo si chiude con i giallorossi avanti 1-0, ma anche i rossoneri stanno incredibilmente perdendo a Verona. Il momento di Altafini giunge al 46’, quando lo si vede mettere piede sul rettangolo di gioco al posto di Haller. Le stelle sono finalmente allineate e il destino ha già in mano una penna per unire i punti con un unico tratto ineluttabile. Passa infatti un quarto d’ora e nello stadio capitolino rimbomba il ruggito del bomber di scorta, che è appena riuscito a insaccare di testa il pareggio. Poi toccherà a Cuccureddu siglare l’1 a 2 che regalerà il titolo alla Signora.

    Nella sua prima stagione in maglia bianconera, il vecchio Josè totalizza 23 presenze in campionato, da titolare o da subentrato, segnando 9 reti: una più di Bettega e Causio, 3 più di Anastasi. Quest’ultimo, indispettito per lo smacco di dover lasciare spesso il campo in favore dell’attempato compagno, tenta di protestare con l’allenatore Vycpálek, gridandogli a brutto muso le sue ragioni con un proverbiale: «Io sono Anastasi!». Ma Cesto, imperturbabile, risponde con una frase che diventerà ancor più proverbiale: «E quello è Altafini!».

    In quella arrembante stagione 1972- ’73, Josè è anche l’eroe di Coppa: ogni capello perso, un gol fatto. Salva la squadra dall’eliminazione a Budapest, nei quarti di finale, infliggendo all’Ujpest la rete della speranza bianconera. Di seguito spazza via i britannici del Derby County in semifinale con una doppietta e una prestazione monumentale. Peccato solo che le velleità di sollevare la Coppa dei Campioni si infrangeranno in finale, contro l’Ajax innovativo e imbattibile di Johan Cruijff.

    L’anno successivo la Juventus non vince nulla, ma le 21 presenze e i 7 gol di Altafini arrivano puntuali. Poi, nel corso del 1974-’75, il cannoniere nato a Piracicaba torna a frequentare il mito. Con trentasette primavere da trascinare per il campo, il sempreverde Josè è ancora in grado di segnare 8 volte in 20 scampoli di partita, e soprattutto riesce a marchiare a fuoco un giorno fatidico: quello della sfida-scudetto contro il suo Napoli.

    È il ٦ aprile ١٩٧٥. Al San Paolo va in scena la partitissima fra le due regine del calcio italiano, che si stanno contendendo gomito a gomito il primato in classifica. Prima segna Causio, poi pareggia Juliano. Nel frattempo, a bordo campo, un nonnetto petulante tenta di convincere l’allenatore bianconero Carletto Parola a farlo entrare. Le assillanti richieste vengono esaudite al ٧٥’. Parola richiama Damiani: il sempre pronto Josè affonda i tacchetti nell’erba, struscia a malapena tre palloni, il quarto lo spedisce magicamente in rete. Mancano appena due minuti allo scadere e quel gol è l’ipoteca che garantisce l’ennesimo tricolore per la Juventus. L’ultimo dell’era Altafini.

    I tifosi partenopei, dopo averlo amato e pregato, stavolta piangono e non perdonano il loro ex bomber. Quella stessa sera, nella galleria Umberto i a Napoli, viene affissa una scritta emblematica che recita: Josè, core ‘ngrato!. Al popolo juventino, invece, rimane il ricordo di un goleador interinale di assoluta efficacia, in una dorata dissolvenza di immagini felici.

    La parabola è conclusa e un lieto fine l’ha coronata. Sia a Milano che a Napoli hanno conosciuto di Altafini gli aspetti più bizzarri e stralunati: le sue ingegnose iniziative commerciali, i suoi atteggiamenti istrionici e fuori dagli schemi. Ai tempi del Milan, Josè ha vergato il record di 14 reti in Coppa dei Campioni, superato da Cristiano Ronaldo solo nel 2014, ma ha anche dato vita a uno scandalo da cronaca rosa che ha fatto epoca, arrivando ai ferri corti con la società e scatenando un vero e proprio terremoto all’interno dello spogliatoio. A Napoli, la capitale della gioia e della povertà, lo si è visto in molte partite vagabondare per il campo, come ramingo giullare di frustrazioni taciute. In quegli anni il campione italo-brasiliano ha giocherellato con tutto: con il calcio, con i sentimenti, con gli amici, con la vita. A Torino invece no. In fin dei conti, il quadriennio alla Juve può essere considerato il periodo più sereno e positivo della sua tumultuosa carriera. Il popolo bianconero ha applaudito un Altafini più consapevole dei suoi mezzi, più affidabile, più decisivo, più saggio. Il vecchio Josè e la Vecchia Signora: un matrimonio in tarda età basato sulla stima reciproca. Una gerontocrazia fra le più riuscite.

    Pietro Anastasi

    Tra i ricordi di Pietro Anastasi c’è una foto di lui bambino vicino al suo idolo d’infanzia, il prodigioso centravanti John Charles, Gigante buono della leggenda bianconera. Questo cimelio, in un certo qual modo, ritrae l’immagine di un destino già scritto e il fato non può che metterci lo zampino per far sì che la storia di Pietruzzo raggiunga il suo inevitabile compimento.

    Tutto ha inizio un giorno lontano, nel viavai caotico dell’aeroporto di Catania. Pur non avendo un biglietto col posto assegnato, una donna incinta sta supplicando gli astanti affinché la lascino partire per Milano. Il motivo non è importante, quel che conta è che un gentiluomo, mosso a compassione, alla fine decida di offrire alla donna il suo posto, accettando di partire il giorno seguente. Quell’uomo è Alfredo Casati, l’allora general manager del Varese calcio. Non dovendo più sostenere alcun viaggio, Casati pensa bene di trascorrere il pomeriggio su un seggiolino dello stadio Cibali, dove assiste a una partita tra due squadre giovanili. In una di quelle squadrette, manco a dirlo, sgambetta felice Pietruzzo Anastasi. Il gm del Varese lo osserva con attenzione, rimane folgorato dal talento del ragazzo e così, senza troppo rifletterci, avvicina i dirigenti siciliani con una proposta che nessuno sano di mente si sognerebbe di rifiutare.

    L’affare viene concluso nel giro di qualche ora, giusto il tempo di mettere tutto nero su bianco. È il 1966 e il talentuoso picciotto migra in Lombardia, approdando alla corte del presidente Giovanni Borghi, il cumenda del Varese calcio e della Ignis pallacanestro. Alla sua prima esperienza in serie A, il giovane bomber catanese infila ben 11 reti. Anastasi, detto ‘u Turcu, diventa subito uomo-mercato. Borghi stringe un patto con l’Inter, al punto che Pietruzzo gioca con la casacca nerazzurra un’amichevole di fine stagione contro la Roma e addirittura fa in tempo a segnare una doppietta nel solo primo tempo. All’intervallo, però, un colpo di scena inatteso. L’amico fotografo Mario Brogini gli sussurra all’orecchio che è stato comprato dalla Juventus. Possibile? Ma cosa è successo? Brogini si è inventato tutto solo per prenderlo in giro?

    È tutto vero, e il trasferimento ha del rocambolesco. Agnelli si è fatto beffe dell’Inter grazie a una fornitura sottobanco di compressori per i frigoriferi della Ignis. Pietro Anastasi, felice e onorato, corre così a vestire la maglia a strisce verticali bianche e nere della sua squadra del cuore. La maglia del suo destino.

    Sul calendario si legge: 1968. Una stagione di cambiamenti epocali e un anno importante anche per il calcio italiano. La Nazionale gioca in casa e vince gli Europei battendo la Jugoslavia grazie a un gol di Gigi Riva e a una spettacolare mezza rovesciata proprio del Turco, entrato da poco nel giro dei grandi per diritto d’elezione. Il ventenne venuto dalla Sicilia sbarca così a Torino da campione d’Europa in carica, portando con sé una valigia che trabocca di speranze. Tuttavia, anche se siamo in piena estate, il suo entusiasmo viene subito raggelato dal presidente vecchio stampo Vittore Catella, che subito lo redarguisce per aver osato presentarsi al primo raduno senza cravatta. La Juve è così: educazione e stile. Per un emigrato come Anastasi, poco alfabetizzato, ingenuo ma orgoglioso, non è facile ambientarsi.

    Per fortuna, quando si tratta di scendere in campo, il Turco parla la lingua dei campioni e tutto fila a gonfie vele. Quella stagione totalizza 28 presenze, buttando dentro 14 palloni, 3 in più dell’anno precedente nel Varese. I giornalisti dicono di lui che come calciatore è un paradosso. La lacuna più evidente del centravanti siculo finisce col diventare la sua arma più affilata: il controllo di palla approssimativo ha per contraltare uno scatto fulmineo, così a uno stop sbagliato che gli fa allungare il pallone segue una rincorsa che lo vede sempre primo a riacciuffare la sfera, spiazzando gli avversari.

    Allo stadio Comunale, sponda bianconera, comincia a intessersi la leggenda popolare di Pietruzzo. Lui è davvero l’incarnazione dell’anima sradicata del Sud che cerca con fatica di attecchire nel freddo Settentrione. Alle sue prodezze viene conferito un valore simbolico e la tifoseria juventina, composta per buona parte da lavoratori meridionali, finisce per rispecchiarsi in lui, trovando nel Turco una sorta di riscatto sociale mediato. Anastasi è uno di loro e la folla lo idolatra appioppandogli altisonanti nomignoli, come ad esempio Super Pietro o ancora Il Pelè bianco. La sua immagine si incornicia in paradossali ex-voto sportivi e viene ripetuta per centinaia di pose fotografiche tanto in appartamenti torinesi quanto in case siciliane: sopra il letto, sulla porta della cucina, in cima alla credenza. Lui è la bandiera che molti aspettavano e per due stagioni avrà persino l’onore di sfoggiare attorno al braccio la fascia di capitano bianconero.

    Pietro Anastasi segna tanti gol nel corso dei suoi 8 anni alla Juve, per 119 volte lo si vede gonfiare la rete avversaria fra campionato e coppe. Una grandinata di marcature il cui acme coincide, nemmeno a farlo apposta, con l’ultimo sigillo. È il 18 maggio del 1975, la Vecchia Signora disputa l’ultima giornata contro il Vicenza. In palio c’è ovviamente lo scudetto e Anastasi è il capitano dei suoi. Già dopo trenta minuti, per la gioia della bacheca bianconera, la Juventus ipoteca il risultato con un secco 2-0. A quel punto, dagli spalti si comincia a invocare a gran voce un gol di Pietruzzo, e lui non si fa pregare. Eccolo puntuale dopo qualche minuto, un gol alla sua maniera, carico di ardimento. Il centrattacco catanese corre sotto la curva in lacrime. È l’apoteosi che si tinge di tricolore e il tricolore che si tinge di Anastasi.

    Quando ancora era un raccattapalle al Cibali, Pietruzzo sognava la Juve. Ormai adulto il suo ardore etneo gli consente di vincere il gelo del Nord, fatto di incomunicabilità e distacco, ma quello stesso ardore a volte gli scappa di mano e lo mette nei guai. Gli capita soprattutto con i suoi allenatori, coi quali inscena non di rado memorabili siparietti. Frequenti sono state le accese schermaglie tra il Turco e il Ginnasiarca Heriberto Herrera, addirittura feroci i battibecchi con mister Carlo Parola. Il colmo viene raggiunto la volta in cui, ritenendo di essere stato preso di mira, lo scorbutico picciotto si lascia andare con la stampa a roventi dichiarazioni contro l’allenatore e alcuni compagni nella settimana precedente un delicatissimo derby col Toro. Un simile comportamento sancisce il divorzio doloroso tra Anastasi e la sua Juve, perché lo stile bianconero non ammette alzate di testa, neppure se la testa in questione è quella di un fuoriclasse assoluto capace di esaltare le folle con giocate da cineteca del pallone. Nel 1976, tra immancabili polemiche, il bomber venuto dalla Sicilia viene così ceduto all’Inter in cambio di Boninsegna. Per Pietruzzo è un affronto da legarsi al dito: lui all’apice della carriera scambiato per una vecchia gloria sul viale del tramonto. Ma il tempo, come spesso accade, darà ragione alla Vecchia Signora, e al bisbetico etneo non resterà che masticare amaro e meditare vendetta.

    Anastasi torna a Torino tre anni più tardi con la maglia dell’Ascoli. È il 30 dicembre e si gioca al Comunale: il Turco sul campo del suo destino contro la squadra per la quale ha sempre tifato. Pietro è fermo da lungo tempo al gol numero ٩٩ in serie A e spera di trovare il centesimo proprio contro gli juventini. Dopo otto minuti di gioco, con una elevazione felina, colpisce di testa e deposita la sfera alle spalle di Dino Zoff, tra gli applausi scroscianti del suo pubblico. La beffa gli è riuscita in pieno e lui può finalmente festeggiare, ebbro di gioia, correndo all’impazzata come tante volte gli era capitato di fare in passato. La sua è un’esultanza istintiva e sicuramente sfacciata, tuttavia priva di ostilità, perché in fondo la Juventus gli è rimasta nel cuore. E Pietro Anastasi, ormai sazio e rinfrancato, ammette senza giri di parole che nulla al mondo potrà mai cancellarne il ricordo.

    Roberto Baggio

    Si crede che il viola porti male agli artisti, ma Roberto Baggio da Caldogno, genio del pallone che di sfortuna ne ha già avuta abbastanza fin dagli inizi della sua carriera, sceglie di smentire questa superstizione giocando cinque stagioni superlative con la maglia della Fiorentina. Le pennellate d’autore del fantasista vicentino tengono a galla le speranze dei viola anche nel duello tutto italiano che si consuma durante la finale di Coppa uefa contro la Juventus. Sforzi vani, perché i bianconeri, tra mille polemiche, prima si aggiudicano il trofeo e poi, non contenti, decidono addirittura di rapire Roby Baggio dalla culla che gli ha permesso di esordire in serie A.

    Sulle rive dell’Arno scoppia la rivolta: una città intera manifesta a gran voce il proprio dissenso, tra cortei che schiumano rabbia e cassonetti dati alle fiamme. Se qualcuno fosse venuto a prendersi il David di Michelangelo, forse, avrebbe fatto meno scalpore. Ma l’obolo di 25 miliardi versato dalla Vecchia Signora nelle casse gigliate ha chiuso ormai la disputa e il figlio prediletto di Firenze è costretto a cambiare residenza.

    Per fortuna arrivano le Notti Magiche a stemperare i toni e a far sognare un intero Paese, pacificato sotto l’egida del colore azzurro. Finita la tregua estiva, il vicepresidente juventino Luca Cordero di Montezemolo fa saltare il tappo dello spumante, taglia il nastro e presenta al popolo bianconero il nuovo ambizioso progetto della stagione 1990-’91 al grido di Juventusiasmante!, mentre la fanfara di giornali e tv intona un ritornello che racconta di un successo annunciato. Si tratterà invece di un fallimento su tutta la linea: la strategia tattica affidata a mister Maifredi non sortisce gli effetti sperati e il ragazzo del Sud con gli occhi sgranati, Totò Schillaci, non riesce a replicare le prodezze mondiali. Si salva solo il numero 10 con ben 27 gol messi a segno tra pomeriggi di campionato e serate di coppa, questo nonostante Baggio si sia reso protagonista della sconfitta più bruciante dell’anno proprio contro la sua ex squadra.

    Il 6 aprile del 1991, sotto una superba coreografia che abbellisce la curva Fiesole con le sagome di tutti i monumenti di Firenze, prima Roby non se la sente di calciare il penalty che lui stesso ha procurato e poi, sostituito da Maifredi, nel tornare in panchina raccoglie una sciarpa viola che gli viene lanciata dagli spalti. Un gesto istintivo per un ex ancora molto amato, ma un pretesto allettante per chi è a caccia di polemiche. L’amara sconfitta dei bianconeri viene infatti imputata da più parti al gran rifiuto di Baggio, visto che il povero De Agostini si è fatto parare il rigore più discusso dell’anno. E in una simile cornice di eventi, anche l’episodio della sciarpa non poteva certo passare inosservato, anzi rimane famoso ancora oggi e viene spesso citato ogni volta che l’eterna rivalità fra Juve e Fiorentina torna ad accendersi.

    Rinchiusa in cantina un’annata da dimenticare, Roberto si prende un’estate per riflettere e recuperare il sorriso, mentre la Signora sfrutta lo stesso tempo per mettere mano alle fondamenta della squadra. Alla ripresa delle ostilità, la stagione seguente, l’uomo che indossa la maglia di Michel Platini trova il vecchio Giampiero Boniperti dietro la scrivania di amministratore delegato, mentre sul campo di allenamento c’è ad attenderlo Giovanni Trapattoni, al suo secondo mandato da tecnico. È la restaurazione bianconera dopo anni di aspirazioni disilluse, ma Baggio sbuffa. Il Trap comincia subito a fischiargli forte nelle orecchie per spronarlo a correre di più e inoltre, complice un attacco acuto di miopia, dice a tutti di vederlo bene come centrocampista. Interviene a gamba tesa lo stesso Platini, che sul 10 di Caldogno ci mette il carico da 11 definendolo un 9 e mezzo, incerto se considerarlo una punta o un rifinitore. Baggio, come sempre, trova il modo di

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