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La Fiorentina dalla A alla Z
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E-book763 pagine13 ore

La Fiorentina dalla A alla Z

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Tutto quello che devi sapere sul mito viola

Sulle rive dell'Arno batte un cuore viola

La fede calcistica è un elemento imprescindibile nella città dei Medici. Chi ci vive sa bene quanto sia difficile rimanere estranei a questa febbre. I protagonisti delle glorie viola, del presente e del passato, sono diventati eroi cittadini. La Fiorentina, i suoi successi, coloro che l’hanno fatta grande, dagli allenatori ai dirigenti, passando per i tanti giocatori, sono raccontati in ordine alfabetico, con aneddoti curiosi e dovizia di particolari, in questo libro che rappresenta un punto di riferimento straordinario per i tifosi della Viola, sparsi in tutta Italia.
Stefano Prizio
È nato a Firenze nel 1974. Giornalista, è stato tra i fondatori del sito www.fiorentina.it. Ha collaborato con le emittenti televisive «Canale 10» e «Rete 37», con quelle radiofoniche «Radio Fiesole», «Lady Radio», «Radio Blu» e «Radio Toscana», e con le testate giornalistiche «l’Unità» e «Il Tirreno». Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sulla Fiorentina che dovresti conoscere.
Leonardo Signoria
è nato a Firenze nel 1984. Nel 2012 si è laureato in Scienze politiche con una tesi dal titolo Gli scudetti della Fiorentina 1956 e 1969: cronache di una passione cittadina. Lavora per diverse testate sportive locali e collabora con il sito Giovani Firenze del capoluogo toscano.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2016
ISBN9788854199279
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    Anteprima del libro

    La Fiorentina dalla A alla Z - Stefano Prizio

    429

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9927-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Stefano Prizio - Leonardo Signoria

    La Fiorentina dalla A alla Z

    Tutto quello che devi sapere sul mito viola

    Newton Compton editori

    Introduzione

    È facile per chi è tifoso della Fiorentina essere tentato di guardarsi alle spalle, al passato. La dimostrazione inequivocabile sono i festeggiamenti dei novant’anni. Gli striscioni dei club portati con l’orgoglio da vecchi reduci, le immagini di chi non c’è più, la tenerezza per i campioni del passato, con pancia, capelli grigi, occhiali tenuti con un nastrino viola, le rughe come solchi, il passo strascicato. È quel senso di paura che ha quasi bloccato campioni di sempre che si sono trovati dopo anni e anni davanti al tifo del Franchi, il boato dello stadio. Nostalgia, pericolosissima e figlia, sia chiaro, di un presente, quello del Progetto dei Della Valle, che non scalda, non coinvolge, non fa sognare, anzi fa pure arrabbiare una parte del tifo. Meglio davvero ricorrere ai ricordi? Forse sì, il passato è sicuramente migliore anche solo per il fatto di essere stati… più giovani.

    Ma c’è modo e modo di ricordarsi chi siamo stati: Stefano Prizio e Leonardo Signoria hanno trovato una strada che mi piace, che funziona, che non attinge alla polvere, bensì all’energia che tanti episodi ci hanno regalato e possono ancora regalare. C’è vita nel passato viola di Prizio, c'è la forza che l’autore ha sempre avuto anche quando ha dovuto smettere di correre per camminare. C’è consapevolezza di quello che è stato, ma è come se fosse il sussidiario di una vita. Pagine di vita che confermano che quel che abbiamo incrociato non era solo un sogno, era una battaglia. Passaggi di un’esistenza, di una sfida che continua e va avanti.

    In questa nuova sfida, a collaborare con Stefano c’è Leonardo, un altro innamorato della Viola, un altro che vorrebbe emozionarsi ancora davanti ai colpi dei fuoriclasse che hanno illuminato un passato non troppo lontano.

    Consigliamo la lettura a tutti, specialmente a chi mi pare ancora non aver completamente capito cosa sia stata e continua a essere la Fiorentina. Buona lettura ai fratelli Della Valle se davvero vogliono capire cos'è la squadra che stanno gestendo. Frammenti dello specchio di una storia lunghissima, dove esisteva una sola plusvalenza, quella del cuore. Buona lettura, grazie ad autori che sanno anche riflettere e pensare su quello che è stato. Un libro intelligente in un mondo, quello del calcio, dove non ci si ferma sempre a pensare. Un libro di vita, dolce e sofferente, come sono stati gli anni della nostra vita. Ma anche un modo per provare a rinnovarsi alla ricerca di un nuovo futuro. Ma, quello che conta di più, un compagno per ore mai banali.

    alessandro rialti

    A

    a, serie Il nostro viaggio all’interno del mondo Fiorentina non può che partire dalla prima lettera dell’alfabeto, intesa come serie. La Fiorentina infatti è praticamente un tutt’uno con la serie a, la massima serie del campionato di calcio; una serie che prende la veste definitiva, ancora attuale, di torneo a girone unico nella stagione 1929-1930. Per vedere il giglio di Firenze scendere sui campi di a si deve aspettare due stagioni: nel 1931-1932 inizia così la lunga avventura nel cosiddetto calcio che conta, un’avventura che ha visto qualche caduta, una particolarmente rovinosa (nel 2002), seguite da pronti riscatti. Su 84 edizioni della serie a la Fiorentina, con la stagione 2015-2016, è alla sua partecipazione numero 78; volendo contare anche le presenze in Divisione Nazionale, il torneo in vigore fino al 1929, e in serie mista a-b Centro-Sud, uno dei tre tornei della stagione 1945-1946 (stagione provvisoria dovuta ai disagi post bellici), la squadra gigliata arriva a quota 80 presenze in massima divisione. Nella classifica perpetua della serie a aggiornata alla stagione 2014-2015, classifica che raccoglie le statistiche di tutte le squadre italiane con almeno una partecipazione, la Fiorentina è al quinto posto assoluto, sia per punti conquistati che per media punti.

    acciai alessio La vita della Fiorentina è divisa in due periodi: il primo va dal 1926 al 2002, poi la società fallisce e sembra sparire dal calcio. Questo accade il 1° agosto, ma già pochi giorni dopo nasce una nuova compagine che si chiama Florentia Viola: in attesa di tornare ai livelli più consoni al suo blasone, i Della Valle fanno ripartire questa nuova creatura dalla c2. Lo sconvolgente esordio, con una banda di ragazzi a comporre il grosso della squadra, avviene nella Coppa Italia di categoria contro il Pisa. In uno stadio pieno come per una normale partita di a, tra i pochi giovani che non tradiscono e rimangono a Firenze dopo il crack c’è Acciai, centrocampista nato il 12 agosto 1984; quella del 21 agosto 2002 è la prima delle sole due presenze gigliate, a lui come a tutti gli altri giovani compagni resterà sempre l’emozione indimenticabile di aver contribuito alla rinascita di un club così glorioso, il vanto e gloria di Firenze.

    acconcia italo Uno col fiuto: fiuto per il talento, che nel mondo degli osservatori di calcio vuol dire capacità di trovare potenziali campioni ancora sconosciuti. L’abruzzese Acconcia è infatti ricordato dai fini conoscitori dell’italico pallone per aver scovato un bel gruppetto di campionissimi del calcio italiano, ma anche da giocatore ha un discreto pedigree. Nato difensore e in seguito avanzato alla mediana, Acconcia è quello che la critica definirebbe un calciatore fisico (come se gli altri non l’avessero…), ma con i piedi non è certo una ciofeca. Classe 1925, si fa largo, come spesso accadeva ai tempi, nel campo dell’oratorio, all’Aquila; si fa notare in serie b tra le fila del Catanzaro, e la Fiorentina, che non ha molti danari da scialacquare, se lo porta in a nel 1947. In maglia viola ci resta tre stagioni, la migliore è quella di mezzo 1948-1949, dove gioca 29 partite e segna 3 reti; l’anno seguente gioca poco e lascia la squadra. Inizia quindi un lungo via vai per l’Italia, tra Udine, Roma giallorossa, Genova rossoblu, Modena, Salerno e Pistoia. La discesa in d a San Giovanni Valdarno è l’apprendistato per la carriera che ha intenzione di intraprendere, quella di allenatore: torna quindi a Firenze per prendere il patentino a Coverciano, poi entra nei ranghi della federazione nazionale e si dedica alle rappresentative giovanili. È tra i baby azzurri che lancia i futuri campioni del mondo del 1982 Tardelli, Oriali e Franco Baresi. Ma il suo capolavoro è il pratese Paolo Rossi: è Acconcia che scova il ragazzino nella squadra fiorentina della Cattolica Virtus, ed è sempre lui a vestirlo di azzurro Italia; a Spagna ’82 Rossi sarà pure capocannoniere, e a fine anno gli verrà assegnato il Pallone d’Oro. Italo Acconcia si spegne a Firenze nel 1983, a soli 57 anni.

    acosty maxwell A 24 anni un calciatore straniero, ovunque giochi, può essere tante cose: una promessa in attesa di sbocciare definitivamente; un veterano, se ha lasciato casa da ragazzino; un talento mancato, se le aspettative sono andate deluse. Boadu Maxwell Acosty rischia di essere tutte queste cose: scovato dalla Reggiana nel 2008, quando ha 17 anni, il ghanese passa alla Fiorentina nell’estate del 2009 e viene inizialmente inserito nel settore giovanile. Esterno destro di centrocampo, a Reggio ha giocato benino da seconda punta, ed è in quel ruolo che Delio Rossi lo getta nella mischia a Cagliari nel gennaio 2012. A fine stagione saranno 5 le presenze in campionato, e con l’arrivo di Montella la società lo manda a farsi le ossa in quel di Castellammare di Stabia, in b. Acosty si fa apprezzare e per l’annata successiva torna in massima serie, stavolta al Chievo, ma non gioca quasi mai: ecco dunque il prevedibile prestito, di nuovo tra i cadetti, al Carpi. Nell’estate del 2014 la Fiorentina, poco convinta di puntare sul ghanese, lo manda ancora in prestito in Emilia, a Modena, ma anche tra i canarini non è che Acosty impressioni molto. Nel 2015 nessuno quindi si lacera le vesti nell’apprendere che la promessa della Primavera è stata ceduta a titolo definitivo: il ragazzo che sognava Drogba è ora un onesto giocatore del Latina, in serie b.

    adani daniele Da giocatore non è che accettasse tanto volentieri le critiche, e allora ha scelto di saltare… il fosso: Adani è infatti da qualche tempo opinionista di Sky, e a giudicare dai pareri dei telespettatori pure piuttosto bravo. Chi l’avrebbe mai detto, certo che quando stava in campo Daniele da Correggio, la stessa città di Luciano Ligabue, non era male; tuttavia al difensore emiliano non è riuscito il passo decisivo verso l’affermazione ad alti livelli. Daniele Adani è un classe 1974, dal fisico potente e dalla tecnica discreta; cresce nel Modena e nel 1994 Zeman, neo tecnico della Lazio, lo porta nella Capitale. A novembre si capisce che in biancoceleste l’emiliano non avrà spazio (il boemo, in difesa, sta inserendo progressivamente il più giovane Nesta), Adani accetta dunque il trasferimento al Brescia, dove nel tempo diverrà un punto fermo della retroguardia e si farà apprezzare da squadre più blasonate. Nel 1999 è la Fiorentina a presentare l’offerta più alta al presidente Corioni, il venticinquenne Adani ha finalmente l’occasione di spiccare il volo. In panchina c’è Trapattoni, uno che ci mette poco ad innamorarsi dei calciatori come l’ex bresciano, tutto grinta e determinazione; infatti scocca la scintilla: partito come riserva, l’emiliano gioca quasi sempre in campionato, dove segna il gol-vittoria contro l’Inter, ed esordisce in Champions League. Nel 2000-2001 viene momentaneamente messo in panchina da Terim, poi però arriva Mancini e Adani torna ad essere un punto fermo; i due si stimano fin da subito, tanto che molti anni più tardi l’ex Bobby-gol gli offrirà invano il ruolo di vice allenatore sulla panchina dell’Inter. La stagione 2001-2002 è quella della vergogna, con comportamenti indegni di chiunque sia a libro paga della Fiorentina; Adani non sfigura in questa classifica al contrario (ma non è nemmeno tra i peggiori), e ad agosto, affossato Cecchi Gori, può andare liberamente a Milano, sponda interista. In nerazzurro parte bene, ma non riesce mai a spodestare dal centro della difesa il duo Cordoba-Cannavaro, e nel 2004 torna nell’amata Brescia. Amore non esattamente ricambiato, se è vero che a metà stagione gli ultras lo convincono a rescindere il contratto; altri anni in a ad Ascoli ed Empoli, poi il salto indietro in seconda categoria, fino ai giorni nostri e alla carriera televisiva. In nazionale vanta cinque presenze spalmate dal 2000 al 2004, convocato dal vecchio maestro Trap.

    adriano Quando le notizie sul conto del centravanti carioca da comiche son diventate quasi tragiche, il mondo del pallone si è domandato se davvero il caso di Adriano Leite Ribeiro fosse più serio del classico enfant prodige rovinato dagli eccessi. Nato il 17 febbraio 1982 a Rio de Janeiro, il ragazzone del Flamengo viene portato in Italia dall’Inter nell’estate del 2001. Bastano pochi sprazzi di partita per intuire le potenzialità di Adriano: sembra la versione xl del compagno di club e di nazionale Ronaldo (almeno finché il Fenomeno seguirà una dieta da atleta…), e ovviamente supplisce alla minore tecnica con una forza atletica degna dell’altro bomber nerazzurro, Vieri, con cui condivide pure il piede da guerra (sono mancini). Insomma, stavolta Moratti ha forse speso un prezzo equo, 15 miliardi di lire, ma nelle gerarchie Adriano è il settimo attaccante, urge quindi un apprendistato altrove. Il Venezia sembra la meta, ma Moratti è mosso a compassione e decide di prestarlo gratis alla Fiorentina, che è allo sbando più totale dopo le dimissioni, caldamente consigliate dagli ultras, di Mancini: proprio l’uomo che da settimane implorava rinforzi, non ha neppure il tempo di allenarli! Adriano parte subito titolare a Verona contro il Chievo, e con un imperioso stacco di testa salva i suoi al novantesimo; le sensazioni che il carioca sia un fenomeno si fanno più forti una settimana dopo, quando sempre all’ultimo tuffo acciuffa il pari contro il Milan. Due settimane più tardi impallina la Roma e subito dopo incenerisce Buffon a Torino; la Fiorentina cola a picco, ma dimostra quantomeno di volersela giocare anche contro avversari nettamente superiori, e con un bomber come Adriano chissà che non avvenga il miracolo. Inizia il tour de force contro i concorrenti per la salvezza, i viola però tradiscono e si fanno umiliare da chiunque. L’allegra brigata (eufemismo) agli ordini (vedi sopra) di Ottavio Bianchi a marzo è già in ferie, in attesa di una nuova sistemazione i beniamini del tifo se la spassano in giro per i locali. Una sera Adriano viene beccato in centro da un gruppetto di ultras non esattamente uscito da Oxford, in mezzo ad avvenenti connazionali ballerine di samba e in condizioni discutibili: con mezzi piuttosto spicci viene accompagnato a casa, con l’avvertimento a non trasgredire più. Da lì in poi invece anche l’Imperatore, ovvio soprannome che gli affibbia la stampa, sarà un fantasma in campo; nonostante tutto riuscirà a chiudere la breve esperienza viola con 6 gol in campionato. Il resto è storia nota: lanciato da Prandelli nel Parma, torna a peso d’oro a Milano, dove fa furore per un anno abbondante prima di calare progressivamente. Le storie sul suo conto si moltiplicano fino all’ammissione del diretto interessato: Adriano si devasta ogni sera di alcol e donne, è depresso dopo la morte del padre, vuole ritirarsi a soli 27 anni. In realtà torna in Brasile e sembra riprendersi, ma la patetica comparsata nel 2010-2011 alla Roma affossa definitivamente la sua carriera.

    agostini alessandro Il terzino di Vinci, la città che ha dato i natali al Genio per eccellenza, si è da poco ritirato dal calcio giocato (giugno 2015); lo ricorderanno con molto affetto i tifosi del Cagliari, meno quelli della Fiorentina. Agostini è un laterale sinistro, elemento tra i più interessanti delle giovanili viola; nato il 23 luglio 1979, dal 1998 al 2001 è in prestito in serie b, prima a Pistoia e poi a Terni. L’estate del 2001 è per la Viola l’anteprima del disastro, gli acquisti possibili sono solo prestiti gratuiti e si cerca di riportare alla base più gente possibile, compreso Agostini. L’esordio in campionato avviene il 16 settembre 2001, durante una delle poche partite decenti della stagione contro l’Atalanta. I gigliati vanno sempre più giù, l’unica competizione dove si comportano dignitosamente è la Coppa uefa; qui Agostini non si comporta male e totalizza 4 presenze, che vanno ad aggiungersi alle 13 di campionato. Il 1º agosto del 2002 la Fiorentina non esiste più, Agostini riesce a restare in a e si avvicina pure a casa, trasferendosi ad Empoli; dopo un prestito al Siena, il terzino toscano prende la via di Cagliari nel gennaio 2004. Gli isolani centrano la promozione in massima serie, Agostini diviene un punto fermo della compagine sarda, che lascerà nel 2012 (ultima partita proprio a Firenze) dopo 266 presenze in a e quasi 300 in totale. Seguono due anni e mezzo al Verona fino al ritiro, come detto, dall’attività agonistica.

    agroppi aldo Uno come Agroppi era destinato a incrociare la Fiorentina, così come era prevedibile che le frizioni sarebbero state tante; questione di carattere, un toscano di mare che vuol dettare le regole ai fiorentini, ma quando mai! Peccato, perché specie nella prima avventura viola si erano viste buone cose. Aldo Agroppi nasce a Piombino il 14 aprile 1944; ancora minorenne viene aggregato al Filadelfia, il mitico settore giovanile del Torino. Dopo vari prestiti il mediano veste finalmente il granata in serie a, e con quei colori disputa oltre 200 incontri di campionato, arrivando pure a indossare l’azzurro della nazionale. Chiude con il calcio giocato nel 1977 a Perugia, e in Umbria passa immediatamente sulla panchina delle giovanili; si mette in luce sulle panchine vere di Pisa (promozione in a nel 1982) e ancora Perugia (record di sconfitte subite, una sola, in b), quando nell’estate del 1985 arriva finalmente la grande occasione: la Fiorentina del neo ds Nassi, suo concittadino, lo prende come allenatore. Agroppi ha il compito di rilanciare una squadra delusa e pure orfana del suo asso, Socrates, tornato senza tanti complimenti in Brasile; i viola vanno a corrente alternata, perfetti in casa e fragili in trasferta, ma esprimono un gioco gradevole e raccolgono scalpi illustri. I guai iniziano quando torna il mito assoluto e lungodegente Antognoni: per Agroppi le gerarchie sono tutte da stabilire, per la città intera è un affronto vedere la propria Bandiera scaldare la panchina per un Onorati qualsiasi, quasi si arriva alle mani tra il mister e i tifosi durante un allenamento. Alla fine la stagione 1985-1986 termina bene, con il quarto posto finale che vuol dire zona uefa, e la vittoria contro la Juve, il capolavoro di Agroppi sulla panchina viola; il mister piombinese lancia pure un giovane promettente, Nicola Berti, ed è ormai in rampa di lancio un nuovo fenomeno, Roberto Baggio. Tutto volge al meglio quando arriva la mazzata: scoppia un nuovo scandalo scommesse, e non sarà certo l’ultimo, il nome di Agroppi viene tirato in mezzo; la squalifica di quattro mesi lo costringe a lasciare Firenze, per il tecnico inizia il declino. A inizio degli anni ’90 il popolo viola ha imparato a conoscere le bizze del vice-presidente Vittorio Cecchi Gori, che con un colpo da maestro decide di mandare a rotoli una stagione nata bene: nel gennaio del ’93 il Laureato esonera Radice, coi gigliati sesti, e nello sconcerto generale affida la panchina ad Agroppi, fermo da quasi tre anni. Il risultato è 15 punti in 20 giornate e la Fiorentina affonda verso la b, 54 anni dopo l’ultima volta. Agroppi dirà sempre di aver prodotto un capolavoro, e ne ha ben donde: neanche il tempo di arrivare e litiga con Batistuta (perché non rientra a difendere), con Orlando e altri (perché hanno i capelli lunghi e l’orecchino), e per non scontentare nessuno litiga pure con tutti i dirigenti della Federcalcio. Dice di voler passare da un gioco a zona a uno a uomo per migliorare la fase difensiva, e all’esordio ne prende 4 a Udine, con l’Udinese che a fine anno si salverà a discapito dei viola per gli scontri diretti. Quel campionato balordo è la fine della carriera da allenatore, da lì in poi il buon Aldo diverrà ospite fisso e maestro della polemica in programmi di calcio locali e nazionali per almeno un decennio, fino al ritiro per qualche problema di salute; Agroppi è zio del capitano del Livorno ed ex giovanili viola Andrea Luci.

    aguirre diego vicente L’estate del 1988 è piena di fermenti per il calcio italiano: la rinnovata nazionale di Vicini coglie un buon quarto posto agli Europei, utile rodaggio per i Mondiali di casa; il campionato è ufficialmente diventato il più bello del mondo: con il terzo straniero ammesso in campo altri fuoriclasse approdano in Italia, inizia una messe di coppe per i club del Belpaese. La Fiorentina ha Hysen, rimpiazza Diaz con Dunga e occupa la terza casella con un centravanti uruguaiano: il capocannoniere del Penarol Diego Aguirre. Il delantero nasce a Montevideo il 13 settembre 1965 e si afferma nella Libertadores del 1987; i gigliati lo prendono in prova nell’estate del 1988, approfittando del ritardato inizio del campionato (ci sono le Olimpiadi) per rodare il nueve in Coppa Italia. Aguirre veste la maglia viola il 24 agosto 1988 contro l’Avellino: settanta minuti senza particolari sussulti; peggio ancora al turno successivo, quando la Fiorentina ne becca quattro a Pisa. Alla terza presenza ecco il primo gol, il 31 agosto contro il Virescit, ma Eriksson non è del tutto convinto; la dirigenza nel frattempo sta seguendo l’evolversi delle situazioni a Roma di Pruzzo, scaricato come bollito, e a Milano di Borgonovo, chiuso dal futuro Pallone d’Oro Van Basten. Quando Roma e Milan danno via libera al trasferimento dei rispettivi attaccanti il mister svedese va in sede e scarica senza tanti complimenti la meteora sudamericana: per Diego Aguirre 4 presenze e un gol nella sola Coppa Italia.

    agyei daniel kofi I giovani che Corvino scopre a giro per il mondo riportano le squadre giovanili viola a vincere trofei che mancavano da tempo, e hanno modo di esordire in prima squadra; peccato però che dopo l’addio di Pantaleo nessuno o quasi di queste belle speranze sia stato confermato. Accade ad esempio questo a Daniel Agyei, mediano ghanese nato ad Accra il 1º gennaio 1992: esordisce in a il 16 maggio 2010, entrando al posto di Donadel a inizio ripresa; due anni più tardi va a farsi le ossa alla Juve Stabia, società di b che accoglie numerosi prestiti viola. A fine stagione la Fiorentina non sembra tuttavia interessata a riprendersi il ghanese, e lo dà in comproprietà al Benevento; viene acquistato per intero dai sanniti nel 2015.

    aiana ramon La Fiorentina 1991-1992 è una squadra dal potenziale elevato, ma male assortita; molti giocatori non rendono come previsto e la rosa, numericamente ben fornita, in talune occasioni è paradossalmente corta. In una di queste il giovane Aiana ha l’opportunità di scendere in campo: il 15 dicembre 1991 il centrocampista della Primavera (nato a Cesano Boscone il 14 marzo 1973) subentra allo scadere a Borgonovo. Un minuto per la prima e ultima presenza di Aiana con i gigliati, che nella stagione 1993-1994 si trasferisce alla Carrarese.

    albertosi enrico Ricky Albertosi ha tutti i requisiti che l’immaginario collettivo attribuisce al portiere di calcio: balzi felini, uscite spericolate, carattere da guascone; tutto vero, e Albertosi va anche oltre, non facendosi mancare neppure le manette! Ma andiamo con ordine: Ricky nasce a Pontremoli, in Lunigiana, il 2 novembre 1939; viene indirizzato a giocare in porta dal padre, calciatore pure lui, e in breve finisce allo Spezia in Interregionale. Bastano poche partite per intuire le potenzialità del ragazzo, la Fiorentina anticipa tutti e lo acquista nel 1958; nei cinque anni successivi gioca poco, tra i pali c’è il grande Sarti, ma che Albertosi sia un predestinato lo sanno tutti, compreso il ct azzurro Giovanni Ferrari, il quale lo fa esordire in nazionale nel 1961 proprio a Firenze. Nel 1963 Sarti va all’Inter e Ricky diventa finalmente titolare; tra i pali dei gigliati Albertosi conferma quanto di positivo detto sino a quel momento, e le coppe del 1966, Italia e Mitropa, portano anche la sua firma. In nazionale è ora titolare indiscusso, e se i Mondiali inglesi di quell’anno sono un flop colossale, ben diverso è l’Europeo di casa nel 1968, concluso con la vittoria dell’Italia. Desta scalpore e suscita proteste la cessione del portierone viola in quella stessa estate al Cagliari: è vero che le casse gigliate sono sempre piuttosto sguarnite, ma ai tifosi non va giù che uno dei beniamini, anzi due visto che lo accompagna Brugnera, vada a rinforzare una squadra ambiziosa come quella sarda. Anche a Ricky il trasferimento non va tanto giù, leggenda vuole che il presidente del Cagliari lo debba far ubriacare per strappargli il sì! Ciucco o meno, Albertosi lascia Firenze, e lo fa con un palmarès di tutto rispetto: due Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Mitropa Cup; in maglia viola vanta 240 presenze comprese tutte le competizioni ufficiali. Il primo anno a Cagliari è ottimo, ma la sua Fiorentina fa ancora meglio e vince lo scudetto; la stagione 1969-1970 è storica per tutta la Sardegna: il Cagliari vince il titolo, Ricky subisce solo 11 reti in 30 partite, un record. A coronamento ci sono i Mondiali in Messico, dove l’Italia perde sonoramente in finale, ma vince la celeberrima Partita del secolo contro la Germania Ovest. Nel 1974 il portierone passa al Milan, dove si toglie lo sfizio di vincere un altro scudetto nel 1979; sono gli ultimi fuochi prima di una clamorosa uscita a vuoto: a ottobre di quell’anno una sua papera costa l’eliminazione dei rossoneri in Coppa dei Campioni. Nulla in confronto alla papera di qualche mese dopo: scoppia lo scandalo Totonero, alcuni dei più famosi campioni (sic!) vendono le partite, si preannuncia un cataclisma giudiziario; il 23 marzo 1980 Carabinieri e Guardia di Finanza fanno irruzione nei principali stadi italiani, per quella che diviene la domenica delle manette. A San Siro vengono arrestati alcuni milanisti, tra cui Albertosi: l’accusa è di aver fatto da tramite con i suoi dirigenti per combinare Milan-Lazio. Ricky si professa innocente ma nessuno gli crede e viene radiato, mentre il Milan finisce, come la Lazio del resto, in serie b. Una macchia cade su una carriera da protagonista del calcio nazionale, con ben 532 presenze in massima serie (gli verrà comunque concessa l’amnistia nel 1982 e tornerà a giocare in c2). Durante la gestione Cecchi Gori Albertosi fa per qualche anno da preparatore dei portieri delle giovanili viola.

    alessandrelli giancarlo La storia di Alessandrelli è quella del classico numero 12, il portiere di riserva degli anni ’70 e ’80; all’epoca le partite erano poche, anche chi giocava le coppe europee al massimo poteva arrivare a 50 gare stagionali, ma voleva dire arrivare fino in fondo a tutte le competizioni. Le riserve erano… tali, il secondo portiere poi serviva solo per eventuali defezioni del titolare; insomma, il profilo di Alessandrelli. Marchigiano di Senigallia, classe 1952, esordisce ragazzo in serie a con la Ternana, nella stagione 1972-1973; nel 1975 passa alla Juventus, dove resta fino al 1979. Non scende mai in campo e alla vigilia dell’ultima di campionato 1978-1979 va da Boniperti per chiedere la cessione: nonostante dimostri una quarantina d’anni per il riporto very seventies che scende fino alle spalle, Alessandrelli ha solo 27 primavere e vorrebbe giocare. L’allenatore Trapattoni decide di congedarlo con la soddisfazione del sospirato ingresso sul manto verde; entra al 45 di Juve-Avellino, partita da sbadigli per il portiere, dato che al settantesimo i bianconeri sono avanti per 3-0. Invece è l’inizio dell’incubo sportivo di Giancarlo, che in un quarto d’ora viene impallinato tre volte; è l’ultima volta che gioca in massima serie, visto che nel 1983-1984, alla Fiorentina, chiude senza mai timbrare il cartellino. Molto meglio era andata la stagione precedente nella seconda squadra di Firenze, la Rondinella Marzocco, al suo apice in c1.

    allodi italo Ogni periodo storico ha un personaggio, nel mondo del calcio, che tutto muove o tutto fa muovere tramite i suoi uomini; questo tipo di personaggi, dei Kissinger pallonari, rende grandi le squadre che usufruiscono del loro servigio, ma inevitabilmente a ogni alleato si contrappongono dei nemici giurati. Nemici che cercano in tutti i modi di dimostrare che questi soggetti hanno troppo potere per essere puliti e che cercano qualunque prova per smascherarli. Dietro questo identikit di dirigente-Belzebù in molti potrebbero identificare Luciano Moggi, ma già negli anni ’60 si muoveva nel calcio nostrano Italo Allodi da Asiago. Figlio di un ferroviere (per scherzo del destino il Lucky Luciano di Monticiano aveva iniziato come capostazione…), dopo una modesta carriera da calciatore diviene il ds del Mantova; Moratti senior lo scova lì nel 1959 e lo assume all’Inter, dove in pochi anni allestisce uno squadrone leggendario. Negli anni le vittorie fanno a braccetto con le accuse di essere un corruttore, ma nessuna prova è mai venuta fuori. Dal 1974 al 1982 è a Firenze, dove gestisce il Centro Tecnico di Coverciano (è uno degli ideatori del famoso patentino); i Pontello pensano a lui per il grande salto e lo prendono come dirigente, coadiuvato da Corsi, ma nel 1985 litiga con Ranieri e se ne va. Nei successivi due anni è a Napoli, il più grande Napoli della storia con il più grande giocatore della storia, Re Diego Armando, ma il nome di Allodi sbuca dalle indagini del Totonero-bis. Anche in questo caso il dirigente viene scagionato da ogni accusa, ci pensa la salute a metterlo ko: l’ictus che lo colpisce non è letale, ma la sua carriera finisce qui. Viene sostituito al Napoli, indovinate da chi? Esatto, proprio da Luciano Moggi!

    allori ardelio Il primo presidente della Fiorentina per ordine alfabetico è anche uno dei più sconosciuti, eppure il suo mandato, brevissimo, è in realtà importante. Ardelio Allori è il presidente della società viola, allora in via del Parione, per la sola stagione 1947-1948; la guerra è finita da poco e soldi per il calcio non ce ne sono molti a Firenze, anzi, si può dire che dopo Ridolfi ai ricchi tifosi cittadini sia venuto il braccino (sindrome mai più guarita, peraltro…). Per evitare però che il giochino finisca c’è bisogno di liquidi e si cercano sponsor: vengono trovati a Prato, all’epoca il vero serbatoio industriale di Firenze e non ancora il multietnico feudo juventino dei giorni nostri. L’industria trainante è ovviamente quella tessile, si fa avanti Allori, titolare di una ditta affermata del settore; nel campionato più lungo della storia (21 squadre) la Fiorentina arriva settima, non male ma nulla di entusiasmante. Per il presidente è abbastanza, a fine stagione vende la società a Carlo Antonini; Allori rimane come sponsor esterno, e soprattutto convince un altro imprenditore rampante di Prato a seguirne le orme, qualche anno più tardi: ma quella di Befani è già un’altra storia…

    almir Dei giocatori sconosciuti o dimenticati della Fiorentina questo brasiliano è forse uno dei più celebri, senza dubbio per il soprannome ingombrante, Pelé Bianco, e per la tragica fine. Almir Moraes de Albuquerque, conosciuto in patria anche come Almir Pernambuquinho, nasce a Recife il 28 ottobre 1937; piccolo centravanti forte e irruente, viene acquistato nel 1957 dal Vasco da Gama. Qui mostra una bella intesa col celebre Vavà, e in vista dei Mondiali del 1958 si contende il posto con un ragazzino non ancora diciottenne, tale Pelé; il ct Feola all’ultimo sceglie la Perla Negra, forse per il carattere più malleabile (Almir è assai facile a perdere la brocca e a finire anzitempo sotto la doccia), e cosa diventino Pelé e la Seleção dopo quel Mundial lo dice la storia… Passa del tempo e il mitico 10 del Brasile è in tournée in Italia, il suo Santos incrocia il Milan di Altafini; il grande Josè consiglia alle squadre italiane di acquistare Almir, ottimo attaccante dice lui, mentre Pelé addirittura esclama: I migliori tre del mondo? Io, Sivori e Almir!. Dal Pelé vero arriva così l’investitura ufficiale al Pelé Bianco, che però nel marzo ’62 si rompe un ginocchio; la Fiorentina, che ha invano sedotto Amarildo, si decide in estate a prenderlo in prova. Almir esordisce in amichevole a Sansepolcro e dà spettacolo, ma nello stesso momento in cui i gigliati si convincono il brasiliano sparisce: la giustificazione sono presunti infortuni. Ad autunno Almir è già stato scaricato al Genoa. Con i liguri esordisce in campionato ma la storia è la stessa, il Pelé Bianco è un malato immaginario, o comunque non può reggere la serie a. Se ne torna in patria al Santos, in tempo per vincere l’Intercontinentale contro il Milan in coppia col Pelé originale, fino al ritiro prematuro causa infortunio. Per scherzo del destino rimane ucciso in un locale malfamato di Copacabana il 6 febbraio 1973: l’unica volta forse che tenta di sedare una rissa il povero Almir si becca una coltellata (o un colpo di pistola, la verità non è mai venuta fuori) letale.

    almiron sergio bernardo Ahi Almiron, vituperio delle genti… fiorentine! Il buon Sergio, ottimo elemento di squadre di medio-bassa classifica, stecca l’esame da grande, sia con la Juve che con i viola. Nato a Santa Fe, Argentina, il 7 novembre 1980, Almiron è figlio d’arte: il padre è stato addirittura campione del mondo 1986. Arriva in Italia nel 2001, scovato dall’Udinese; centrocampista potente (un metro e ottanta per 82 chili), dotato di discreta castagna, l’argentino fa la classica gavetta, ma senza conquistare la fiducia dei friulani. Ceduto prima in comproprietà e poi definitivamente all’Empoli, si mette finalmente in luce: tanta sostanza e sapienza tattica, arricchite da 18 gol in tre campionati; la stagione 2006-2007, che vede la clamorosa qualificazione in uefa degli azzurri, lo consacra a pezzo pregiato del mercato: se lo aggiudica la Juve di ritorno in a dopo Calciopoli, che lo paga ben 9 milioni di euro. Almiron parte titolare, ma poi si perde: El Checho non è un fulmine di guerra e gioca accanto ad Andrade e Tiago, letteralmente ancorati a terra; a gennaio i piemontesi si sono già pentiti e lo mandano in prestito al Monaco. Nell’agosto 2008 la Fiorentina propone un acquisto in prestito con riscatto a 4,5 milioni, chissà se con Prandelli non torni l’Almiron di Empoli… Risposta negativa: il suo ruolo viene immediatamente occupato dall’altro acquisto Felipe Melo, Almiron quando gioca, e accade di rado, non incide mai. A fine stagione sono 18 le presenze in maglia viola, e se ha la soddisfazione di giocare quasi sempre in Champions League, El Checho è anche protagonista negativo del breve passaggio in Coppa uefa: un suo pallone perso a centrocampo, sul finire di Ajax-Fiorentina del febbraio 2009, consente ai lancieri di iniziare l’azione che li porta al pareggio-qualificazione. A fine stagione la società viola non esercita il riscatto, Almiron finisce a Bari, dove gioca piuttosto bene per due stagioni prima di piantare le tende in Sicilia: quattro anni a Catania e la chiusura all’Akragas, dove è attualmente coordinatore dell’area tecnica.

    alonso marcos Il ragazzo di Madrid che sogna di emulare Bale discende da una famiglia di predestinati: il padre è stato attaccante di Atletico e Barcellona per tutti gli anni ’80, e ha partecipato ad Euro ’84 in Francia; il nonno, che si chiamava pure lui Marcos Alonso e faceva il difensore, è stato addirittura una colonna del Real Madrid anni ’50, quello de gli anni d’oro del Grande Real. L’Alonso viola nasce nella capitale iberica il 28 dicembre 1990 e viene ovviamente indirizzato verso il pallone già da bambino; sembra seguire le orme del nonno quando viene preso dal Castilla, la squadra b del Real, ma poi la dirigenza lo dimentica e Alonso finisce nel campionato inglese, al Bolton. Alto e possente, trova nel calcio d’Oltremanica l’ambiente ideale; il suo ruolo è terzino sinistro, ma lo scatto e le lunghe leve lo rendono un pendolo di tutta la fascia. Dopo tre stagioni rimane senza contratto e nel maggio 2013 la Fiorentina lo tessera con un blitz; Montella lo fa esordire subito, poi lo relega all’Europa League, riservando il campionato a Pasqual. A gennaio 2014 il ragazzo ottiene di andare via in prestito, torna nell’amata Albione vestendo la maglia del Sunderland. Con i Black Cats gioca (bene) sia da terzino che da centrale di difesa, tanto che per la stagione seguente Montella punta deciso su di lui; nel girone d’andata del 2014-2015 è titolare fisso, poi, complice qualche distrazione di troppo, va in panchina e viene impiegato solo in el, dove gioca sempre fino alle semifinali. Segna il suo primo gol con i gigliati alla penultima di campionato. Per la stagione 2015-2016 il nuovo allenatore Sousa decide di schierare Alonso da ala pura, e i risultati danno ragione al lusitano: due reti nelle prime due giornate e un’intesa subito affinata con il nuovo centravanti Kalinic. All’occorrenza lo spagnolo può giocare anche sulla fascia destra del centrocampo, dimostrando di essere un perfetto atleta del ventunesimo secolo. Il 31 agosto, tuttavia, la società accetta la ricca offerta del Chelsea (si parla di una cifra vicina ai 27 milioni di euro) e per Alonso si riaprono le porte della Premier League.

    amaral All’anagrafe Alexandre Mariano da Silva. Nato a Capivari, Brasile, il 28 febbraio 1973, il piccoletto Amaral cresce calcisticamente nella squadra italiana di San Paolo, il Palmeiras; è un mediano di tecnica mediocre, ma di elevato furore agonistico, tanto che è il titolare del Brasile sia alla Gold Cup che alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. La Parmalat, sponsor del Palmeiras, decide di portarlo a casa agli ordini di Ancelotti; sarà che gioca sulla fascia, sarà che Carletto voleva Stanic, fatto sta che a gennaio il paulista torna a San Paolo. Va alla grande al Vasco da Gama, e il fresco ex viola Edmundo lo convince ad accettare la proposta della Fiorentina per la stagione 2000-2001. Il ds Antognoni ci va cauto e lo presenta come un buon giocatore che ci sarà utile; Amaral si presenta come esperto nel far segnare i compagni, e dice di aver trovato nel mister viola Terim un secondo padre; l’obiettivo è presto detto, vincere tutto. Il brasiliano forse esagera un tantino nei peana, però è sempre allegro e gioviale, tanto che si sente lusingato dal coro dei tifosi viola a lui dedicato, un coro che omaggia la blefaroptosi dell’occhio destro e l’aspetto non proprio da Adone del mediocampista. Ad agosto si infortuna gravemente in amichevole e nella prima stagione scende in campo una decina di volte; va meglio nel 2001-2002, per modo di dire ovviamente, perché la Fiorentina è ormai una farsa e chiude un anno indegno con il fallimento societario. Amaral gioca 25 partite ma non possono essere certo i suoi piedi gli strumenti adatti a salvare una barca alla deriva; quanto basta comunque per restare nel ricordo degli amici ultras. Pare che tutt’oggi continui a giocare a calcio, nella squadra della sua città natale.

    amarildo Grande Garoto, campione tricolore! La Fiorentina si innamora del Brasile dopo aver conosciuto Julinho, e da allora cercherà sovente un altro carioca in grado di guidarla al successo: impresa fallita finché non arriverà appunto Rildo. Amarildo Tavares da Silveira nasce nello stato di Rio de Janeiro il 29 giugno 1939; di ruolo fa il centravanti, per quanto atipico possa essere un centravanti brasiliano, specie in quel periodo. Mancino, viene notato dal Flamengo ma è con un’altra compagine di Rio, il Botafogo, che Amarildo si crea fama di goleador. Per imporsi definitivamente ci vuole però la vetrina internazionale, e la grande occasione arriva ai Mondiali del 1962: in Cile il Brasile è strafavorito, ma si fa male Pelé; il sostituto è proprio il Garoto, che insieme ai fuoriclasse e compagni di club Nilton Santos, Didì e Garrincha guida gli auriverde alla vittoria finale. La Fiorentina, che lo segue da qualche tempo, si mangia le mani: il suo valore è adesso fuori budget e deve rinunciare all’acquisto. In Italia Amarildo ci arriva l’estate seguente, comprato dal Milan per comporre una coppia da sogno con Altafini; il primo anno è discreto ma i due si pestano un po’ i piedi. Nel 1964 Josè saluta e il Garoto ha modo di giocare nel suo ruolo, ma dopo un inizio promettente il carioca si spegne progressivamente. È il 1967 quando il nuovo presidente del Milan Carraro propone alla Fiorentina il vecchio pallino in cambio di Hamrin: lo scambio si fa, Rildo viene accolto tra le acclamazioni alla stazione di Santa Maria Novella. La prima stagione è alterna: i viola partono male ma si riprendono nel girone di ritorno, il carioca inizia invece bene ma è frenato da un infortunio. Nell’estate del 1968 il fattaccio: Amarildo fugge in Brasile e fa sapere che non tornerà fino ad aumento salariale; il presidente Baglini non ne vuol sapere, ma il nuovo allenatore Pesaola ha bisogno del Garoto e media personalmente con la sorella del giocatore. Alla fine la frattura si ricompone e la Fiorentina riaccoglie il figliol prodigo. Nel ruolo che Pesaola crea per il brasiliano, una specie di mezz’ala offensiva, sta il segreto della squadra che stupisce tutti e vince lo scudetto 1968-1969: Rildo non segna tanto, 6 gol in 25 partite, ma con i suoi assist, le sue giocate, il suo carisma permette il salto di qualità. Il nuovo Julinho, si dirà, ma con il mitico paulista non ha molto in comune: uno elegante, altruista e corretto, l’altro sgraziato, egoista e cattivo; li accomuna la classe superiore alla norma, oltre che la passione del tifo viola. Ci sono grandi obiettivi per la stagione 1969-1970, con i gigliati chiamati a difendere il titolo e a farsi valere in Coppa Campioni; speranze deluse in realtà, e anche per Amarildo le cose non vanno più come dovrebbero. Dopo un inizio lanciato i viola si spengono, il brasiliano è sempre più irascibile e colleziona squalifiche: pare che ai difensori avversari basti dare del cioccolatino al Garoto per fargli perdere le staffe. La sua avventura viola, breve ma gloriosa, si chiude nel 1970 con 85 presenze totali, condite da 21 reti. Dispensa altre magie nei due anni successivi alla Roma, poi tenta la carriera da allenatore; nel 1990 torna alla Fiorentina nelle vesti di vice del connazionale Lazaroni. Detiene, con Omar Sivori, il record di espulsioni per giocatori non difensivi (10).

    amauri carvalho de oliveira Amauri è un ragazzone brasiliano che deve la carriera all’Italia: nato nell’area metropolitana di San Paolo il 3 giugno 1980, partecipa con una rappresentativa nazionale al prestigioso Torneo giovanile di Viareggio nel 2000. Lo notano in tanti, lo prendono gli svizzeri del Bellinzona, ma il giovane Amauri si fa male al ginocchio e non viene confermato. Dopo qualche periodo in Italia da vero e proprio clandestino viene salvato dal Parma, che nel gennaio 2001 lo tessera e lo gira subito al Napoli. Qui conosce l’idolo Edmundo, esordisce e segna la prima rete in a; i partenopei, in crisi tecnica e societaria, retrocedono e Amauri finisce al neo-promosso Piacenza. In Emilia se la deve giocare con l’inossidabile Hubner, a fine anno viene ancora mandato in prestito, stavolta ad Empoli; non conclude neppure il ritiro estivo poiché lo stesso Amauri chiede di scendere in b, pur di giocare, e finisce a Messina. Nell’estate del 2003 passa a titolo definitivo al Chievo, e alla terza stagione, la prima da titolare fisso, finalmente si fa valere in zona gol, con 11 reti segnate. I veronesi colgono un brillante sesto posto, che diventa addirittura quarto dopo Calciopoli, e volano ai preliminari di Champions; Amauri fa il suo dovere segnando due gol al Levski, ma non bastano per qualificarsi e il presidente Campedelli lo libera cedendolo al Palermo. In Sicilia il brasiliano guida lo scatenato Palermo in zona scudetto, ma il 23 dicembre 2006 si infortuna gravemente e conclude anzitempo il proprio campionato. Nell’estate del 2008 Amauri è pronto per una grande squadra, è la Juventus a prenderlo con una spesa di 30 milioni; fino a Natale segna con continuità, poi cala sempre di più fino a perdere del tutto la prolificità (anche se nell’agosto 2010 il nuovo ct Prandelli lo fa esordire, da naturalizzato, in azzurro). Nel 2011 la Juve lo manda in prestito al Parma, e Amauri pare rinascere: con 7 gol in 11 partite guida i ducali a una salvezza insperata. L’oriundo torna alla Juve ma è ormai fuori dai piani societari, quando spunta la Fiorentina: a gennaio 2012 Corvino, sempre più in bilico da ds pensa ad Amauri come rinforzo per un attacco asfittico, tanto più che la situazione con il primo obiettivo, El Hamdaoui, è in imbarazzante stallo. La Juve cede il giocatore, che esordisce a fine mese contro il Siena; dopo un inizio incoraggiante la Viola cola a picco, fino al punto di non ritorno del pokerissimo incassato proprio dai gobbi a Firenze. La tifoseria esplode e pure ad Amauri non vengono risparmiati insulti e critiche, dato lo zero alla voce gol fatti. Il 7 aprile la Fiorentina sta perdendo, come prevedibile, a Milano contro il Milan all’intervallo; la situazione è disperata ma a inizio ripresa i gigliati pareggiano. La squadra, smentendo tutti i foschi pronostici, gioca bene e coltiva il sogno dell’impresa; a un quarto d’ora dalla fine Rossi manda in campo l’oriundo depresso, che allo scadere duetta con Jovetic e la piazza là dove Abbiati nulla può: l’unico gol viola di Amauri sarà un gol fondamentale per la salvezza dei viola. A giugno il goleador mancato lascia Firenze per una nuova giovinezza a Parma; salvo sorprese la stagione 2015-2016, al Torino, sarà l’ultima in a per l’oriundo.

    ambrosini massimo Il vero rammarico della Fiorentina è quello di averlo preso troppo tardi: perché con uno come Ambrosini, ai tempi d’oro di Prandelli, i viola avrebbero potuto ottenere qualcosa di più. Invece il biondo centrocampista pesarese, appassionato di calcio almeno quanto di Michael Jordan (da lì il suo 23 portafortuna) sbarca in viola nel 2013, a 36 anni suonati. Nato il 29 maggio 1977, Ambro cresce nel fiorente vivaio del Cesena; il grande Milan di Capello lo paga quasi 4 miliardi di lire nel 1995, ma è ovviamente chiuso dai campioni rossoneri. Dopo un’ottima stagione in prestito al Vicenza il Milan lo riporta a casa nel luglio 1998; in panchina c’è Zaccheroni ed è grazie a lui che Ambro diviene titolare. Da lì in poi, salvo infortuni o turn-over, è elemento imprescindibile del Milan; nel 2009, a premio dei 7 gol della stagione appena conclusa, diventa capitano succedendo a Maldini. Alla fine della stagione 2012-2013 lascia, non senza rimpianti, il club meneghino: i numeri parlano di 489 partite e 12 trofei vinti. A luglio 2013 la Fiorentina, che negli anni precedenti ha provato a prendere Ambro, tessera finalmente il pesarese, l’accordo è annuale. Da grande professionista qual è, l’ex milanista impiega poco per trasmettere il proprio carisma allo spogliatoio, e specie nella prima parte della stagione gioca spesso; dove fa la differenza è in Europa League, un gioco da ragazzi per uno abituato a respirare l’atmosfera della Champions. Segna pure l’unico gol della sua carriera viola, contro il Dnipro. Verso primavera però Montella si dimentica completamente di lui, non facendolo giocare neppure un minuto nella funesta finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014. A fine contratto nessuno chiede ad Ambro di restare, la sua amarezza è forte tanto che alla fine decide di ritirarsi; vanta 35 presenze con la nazionale maggiore.

    amenta mauro Nato ad Orbetello il 23 novembre 1953, Amenta è uno di quei terzini che all’epoca si chiamavano fluidificanti, ruolo inventato in Italia da Facchetti e che stava a indicare quel terzino, a scelta tra destro e sinistro, che sovente si avventurava in azioni offensive. La prima squadra di un certo peso è il Civitavecchia; a dare in seguito lustro a questa esperienza è il fatto che dai laziali lo porta un Luciano Moggi alle prime esperienze, per via di conoscenze comuni. L’ambiente ideale per Amenta è Perugia, dove nel 1975 conquista la serie a; nella tragica stagione 1977-1978, quella della morte di Renato Curi, il Grifone coglie un buon settimo posto in classifica. Amenta ora gioca da mediano e chiude il torneo con 5 reti all’attivo; non ha piedi eccelsi ma è ambidestro e, come detto, vede la porta. La Fiorentina acquista così il Benetti dei poveri, soprannome apprezzato dallo stesso giocatore, e lo fa esordire in una gara di Coppa Italia. In un’annata di transizione arriva un sesto posto che sa di buon risultato, dopo gli affanni precedenti; Amenta conferma le buone doti siglando 4 reti in 23 partite, ma nell’estate del ’79 arriva la chiamata di Liedholm e si trasferisce alla Roma.

    amerini daniele Nato a Firenze il 3 agosto 1974, Amerini è uno degli ultimi indigeni a giocare in prima squadra. Centrocampista, cresce nel vivaio della Sestese, quando nel 1991 viene tesserato dalla Fiorentina e aggregato alla Primavera; sono gli anni d’oro dei baby viola, che nel 1992 conquistano per l’ottava volta (un record in quel momento) il Viareggio. Amerini viene ufficialmente inserito tra i grandi, ed è un eufemismo perché hanno appena fatto precipitare la Viola in b, nell’estate del 1993; nel corso della stagione mister Ranieri fa prendere confidenza con il campo a molti giovani, incluso Amerini. L’anno seguente il ragazzo esordisce in massima serie a Reggio Emilia, per chiudere la stagione con un discreto bottino di 13 presenze; purtroppo resteranno le ultime apparizioni con la squadra del cuore, perché da lì inizia un girovagare per la penisola calcistica. Dal 1995 al 1997 è al Vicenza, poi vestirà le maglie di Lucchese, Verona, Pistoiese e tante altre ancora; il punto massimo della carriera è nella stagione 2006-2007, quando gioca nella Reggina dei tanti ex viola (Mazzarri, Lucarelli, Tedesco, Vigiani e Leon): partiti con una penalizzazione di 15 punti, ridotta in seguito a 11, i calabresi colgono una sensazionale salvezza con una giornata d’anticipo. La Reggina chiude il campionato in modo trionfale battendo il Milan fresco vincitore della Champions, e il gol del 2-0 definitivo lo sigla proprio Amerini; a degna conclusione viene insignito, insieme ai compagni, della cittadinanza onoraria di Reggio Calabria. Si ritira nel 2009 per intraprendere la carriera di procuratore, in collaborazione con un altro ex viola, Moreno Roggi.

    amor guillermo Prima del Barcellona stellare del tiki-taka di Guardiola e Luis Enrique c’è il Barcellona Dream Team di Cruyff, forse ancor più amato dai propri tifosi, ed è lì che si afferma Amor. Centrocampista centrale dal fisico non possente, Guillermo Amor Martinez nasce a Benidorm, la Rimini di Spagna, il 15 dicembre 1967; prodotto tipico della Cantera blaugrana, ha l’onore di sostituire a neppure 15 anni il giovane e già grande Maradona nei minuti finali di un’amichevole del 1982. L’inserimento in prima squadra avviene però nel 1988; sulla panchina dei catalani siede adesso Cruyff, che guiderà la squadra verso trionfi mai visti prima. Amor diventa un punto fermo del Dream Team, che raggiungerà il proprio apice a Wembley nel 1992 con la conquista della Coppa dei Campioni, la prima della storia blaugrana. Con la nazionale Roja i risultati non sono un granché, ma Amor è comunque presenza fissa: con la Spagna giocherà infatti i Mondiali 1994 e 1998, ed Euro ’96, con un gol decisivo segnato alla Romania. Insomma, una bandiera, ma nel giugno 1998 l’allenatore blaugrana Van Gaal ne chiede la cessione, tanto più che ha già pronto in casa il sostituto, un fenomeno di 18 anni che si fa chiamare Xavi; per Amor è una doccia fredda, il Barcellona è una famiglia, con quei colori ha giocato 421 partite e ha vinto 17 trofei. Piange Guillermo, ma se ne fa una ragione, e quando, a Mondiali appena conclusi (la Spagna è sbattuta fuori al primo turno), i dirigenti viola propongono un biennale, l’iberico accetta entusiasta. Piace subito Amor: il Trap, neo mister viola, lo elegge a simbolo della mentalità vincente per lo spogliatoio; i nuovi compagni lo paragonano al campione del mondo Deschamps per l’eclettismo che mostra in campo; i tifosi lo ammirano subito per lo spirito: appena finite le foto di rito alla presentazione di Santa Maria Novella, Amor si getta estasiato a vagare per le stradine del centro, catturato dalla bellezza di Firenze. L’unico problema è purtroppo il riscontro del campo, che poi sarebbe la questione principale: lo spagnolo è ordinato, ma in un calcio sempre più muscolare si trova in enorme difficoltà di fronte ad avversari quali, per fare i nomi più illustri, Almeyda, Conte, Simeone, Veron e altri ancora. Il Trap ci prova per un po’, poi si copre con Amor… oso, e Guglielmo finisce in panchina; resterà in riva all’Arno anche la stagione successiva, totalizzando una trentina di presenze in totale.

    amoretti ugo Del genovese Amoretti ci sono due storie: quella ordinaria del portiere di una serie a agli albori e quella decisamente più avventurosa del talent scout che scova un mito del calcio mondiale, ma andiamo con ordine. Amoretti nasce nel popolare quartiere di Sampierdarena il 6 febbraio 1909; di fisico piuttosto minuto (supera di poco il metro e settanta) tuttavia finisce subito a difendere i pali, e lo fa anche bene perché a 20 anni esordisce in a col Brescia. Dopo un breve soggiorno a casa con il Genova 1893, la versione autarchica del Genoa, Amoretti sbarca a Firenze: dal 1934 al 1936 gioca 58 partite, con solo 25 reti subite; in realtà è un cammino alterno, poiché il primo anno va molto bene, mentre nel secondo va qualche volta a farfalle. Dopo l’esperienza viola va alla Juve, poi la carriera prosegue in calando fino al ritiro, destinazione la panchina da allenatore. E qui nasce la seconda vita di Amoretti: nel 1958 compie un triplo carpiato da San Benedetto del Tronto a Lourenco Marques, capitale del Mozambico allora colonia portoghese. Lì allena il locale Sporting e lancia in prima squadra un sedicenne che lo fa impazzire, tale Eusebio; Amoretti si mette subito in contatto con l’Italia, Juve e Torino, Genoa e Sampdoria, quel ragazzo va preso subito. C’è il problema della figc, che ha messo il tetto agli stranieri, ma soprattutto c’è il problema della mamma di Eusebio, che non ne vuol sapere di mandare il figlio dall’altra parte del mondo. E qui il buon Ugo pecca di enorme ingenuità, poiché da Lisbona il Benfica manda emissari pieni di bei dollari da donare alla mammina, senza ovviamente considerare le volontà di Amoretti; la signora Ferreira acconsente, a patto che tutta la famiglia segua il ragazzo: nasce così la leggenda di Eusebio, mito portoghese del calcio mondiale.

    amoroso christian Il pisano di Cascina, dove nasce il 26 settembre 1976 (un giorno prima di Totti), inizia a dare i primi calci al pallone nelle rappresentative locali; arriva a Firenze nel 1994, e si mette in luce nella Primavera di Chiarugi insieme al collega di centrocampo Cristiano Zanetti, con il quale vince la Coppa Italia di categoria nel 1996. A luglio di quell’anno va in prestito in serie b all’Empoli; gli azzurri partono per salvarsi e finiscono in massima serie; il giovane allenatore Spalletti lo fa giocare quasi sempre e la Fiorentina lo riporta alla base. I viola giocano con uno spregiudicato 3-4-3, ma nel ruolo di Amoroso ci sono Cois e Rui Costa, due punti fermi; Malesani fa comunque giocare il ragazzo 17 volte. Ai primi di giugno del ’98 Trapattoni diviene il nuovo allenatore, e annuncia subito di voler lanciare Amoroso come titolare; i fatti danno ragione al Trap: il pisano giostra da interno di centrocampo mettendo in mostra forza atletica e visione di gioco, la Fiorentina, fino all’infortunio di Batistuta, vola prima in classifica. Alla fine i viola arrivano terzi, ma per Amoroso è stata un’ottima stagione. Il 22 settembre 1999 è forse il giorno più luminoso della sua carriera: a pochi giorni dal compleanno Amoroso segna al Barcellona davanti ad oltre 100.000 spettatori; un gol che non evita la sconfitta (4-2 per i catalani), ma che gli consente di essere il primo marcatore della storia viola nella fase a gironi della Champions League. Complessivamente però la stagione 1999-2000 è inferiore alla precedente, e il sogno di essere convocato in nazionale per gli Europei svanisce presto. Amoroso resta in viola per altre due annate, e se la prima è tutto sommato positiva (arriva la Coppa Italia), la 2001-2002 è il picco negativo della società gigliata: sconfitte e umiliazioni in serie in mezzo allo sbando economico, per il centrocampista arrivano pure le prime contestazioni. Non è certo uno dei peggio, ma i tifosi lo accusano di non avere granché a cuore le sorti di un club che gli ha permesso di giocare ai massimi livelli. Nell’agosto 2002 si accasa al Bologna, dove con alterne fortune diviene comunque protagonista della storia rossoblu, oltre 200 le presenze in maglia felsinea. Una breve parentesi all’Ascoli e dal 2010, dopo aver rifiutato i cugini del Livorno, il ritorno a Pisa, prima come giocatore poi come allenatore. Con la Fiorentina Amoroso vanta 120 presenze in campionato e numerose nelle varie coppe, unico grande cruccio la scarsa confidenza con la porta avversaria: esclusa, ovviamente, quella mitica del Camp Nou che lo lancia nella storia viola.

    amoruso lorenzo Un aspetto da duro che il campo confermava per intero: l’identikit del panzer barese. Lorenzo Pier Paolo Amoruso, questo il nome completo, viene alla luce a Bari, nel quartiere Palese, il 28 giugno 1971; nel 1988 entra nella rosa dei Galletti locali. L’8 ottobre 1989 esordisce in a in un palcoscenico prestigioso, il Meazza di Milano: il Bari strappa il pareggio ai campioni d’Italia dell’Inter e il ragazzo resiste all’assalto del novello Klinsmann. Amoruso è il tipico 5, lo stopper che ha il compito di incollarsi al centravanti avversario; alto e potente, in realtà ha un destro piuttosto educato con cui rilancia l’azione e spesso calcia le punizioni. Certo in partita le buone maniere il panzer le dimentica… La stagione 1994-1995 è quella del lancio: il Bari per un po’ sogna la zona uefa, Amoruso gioca 27 partite e segna 4 gol. La Fiorentina vuol dare quantità e qualità alla rosa e va a fare la spesa in Puglia: arrivano il libero foggiano Padalino e i baresi Bigica e, appunto, Amoruso, pagato 5 miliardi e mezzo. Bigica sparisce presto dai radar mentre la nuova coppia difensiva è decisiva per le sorti viola: i gigliati arrivano terzi e vincono la Coppa Italia, al termine di una stagione sempre condotta ad alti livelli. Il panzer mette la firma sulla coppa, segnando da centravanti il primo gol nella finale di ritorno della coppa, finita 2-0 per i gigliati. La stagione 1996-1997 è avara di soddisfazioni e un po’ a sorpresa la Fiorentina cede Amoruso, che vola in Scozia dai Rangers. L’inizio, con i connazionali Negri, Porrini e Gattuso non è facile, ma il barese diventa piano piano il leader degli scozzesi, tanto da diventare il primo capitano cattolico della squadra simbolo dei protestanti. A Glasgow fa incetta di trofei locali e si laurea pure giocatore dell’anno; saluta i Gers nel 2003 segnando il gol decisivo in una finale di coppa nazionale, poi sta per tre anni in Inghilterra al Blackburn Rovers. Dal 2010 al 2012 collabora come osservatore per la società viola, poi inizia una carriera di opinionista sempre più intensa, che lo porterà ad affiancare Luca Vialli in un reality tv sul calcio; con la maglia della Fiorentina sono 66 le presenze totali.

    ancillotti ancillotto Memorie di un calcio d’altri tempi: Ancillotti nasce a Ponte a Cappiano, nei pressi di Fucecchio, il 14 febbraio 1914. Mediano di ruolo, supplisce alla carenza tecnica con una corsa costante che lo fa uscire dal campo con la canonica lingua di fuori. Si mette in mostra tra Spal, in b, e Prato, in c, forse in una partita dei lanieri Ridolfi o qualcuno dei suoi lo nota e lo prende alla Fiorentina. L’esordio di Ancillotti è alla prima giornata del campionato 1937-1938: 4-0 per la Roma al Testaccio, degna anteprima di un torneo da dimenticare. I viola concluderanno infatti il campionato in ultima posizione, con la bellezza di 15 punti in 30 giornate e l’ovvia retrocessione in b; Ancillotti gioca appena 3 partite, ma nella nuova Fiorentina della riscossa non c’è posto per lui e si accasa alla Ternana. Nella città dell’acciaio il toscano diventa l’idolo della tifoseria, con le Fere giocherà per nove stagioni vestendo la maglia rossoverde per 203 occasioni.

    anderson Luis Anderson de Abreu Oliveira, noto anche come Andow, e soprattutto come uno dei più insensati acquisti della Fiorentina. Gaùcho di Porto Alegre, dove nasce il 13 aprile 1988, il trequartista brasiliano entra a soli 5 anni nel Gremio, e lì fa tutta la trafila delle giovanili. Come si conviene quando si parla di un brasileiro Anderson ha un piede vellutato, il sinistro, che nel gennaio 2006 lo fa volare al Porto, fucina di talenti auriverde. Il talentino non gioca molto ma a sufficienza per conquistarsi il posto in nazionale in vista della Coppa America 2007, competizione che il Brasile stravince. Al ritorno in Europa la destinazione non è più il Portogallo ma Manchester, dove ad attenderlo nello United c’è il grande Ferguson, che per lui ha fatto sborsare più di 30 milioni di euro. Il giovane gaùcho gioca molte partite della stagione 2007-2008, una stagione trionfale che vede i Red Devils vincere tutto in patria e all’estero; Andow, come si fa chiamare Oltremanica, scende in campo una quarantina di volte, e pur se acerbo fa intravedere incoraggianti margini di miglioramento. Ferguson da tipo pragmatico qual è decide di trasformarlo in regista in modo da dare più concretezza al gioco del brasiliano; le sensazioni sono così buone che Sir Alex dice di vederci un nuovo Roy Keane. Poi però qualcosa si rompe, Andow non gioca con continuità, a infortuni si sommano ritardi, multe, pure un grave incidente d’auto in Brasile. La gloriosa e irripetibile era Ferguson si conclude nel maggio 2013, e il successore Moyes non stravede per Anderson; il gennaio seguente il club inglese cede così in prestito il nuovo Keane

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