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King. Libero di amarti
King. Libero di amarti
King. Libero di amarti
E-book297 pagine4 ore

King. Libero di amarti

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Info su questo ebook

Un’autrice bestseller di USA Today

Bear vorrebbe piegare a mani nude le sbarre di metallo della sua cella e scappare. Non a causa degli altri carcerati, che lo vogliono morto, ma perché Thia è là fuori, dove lui non può proteggerla. Thia non è il tipo di ragazza che aspetta di essere salvata, specialmente quando anche lei ha delle missioni da compiere. Bear e Thia sono pronti a lottare, non solo per le loro vite, ma anche per il loro amore. Perché questa è una storia d’amore, sì, ma anche di dedizione e lealtà.

«Questo libro è assolutamente strepitoso. T.M. Frazier è la regina delle serie!»

«Un romanzo oscuro, intenso, sconvolgente: T.M. Frazier vi farà impazzire!»
T.M. Frazier
è cresciuta sognando che un giorno qualcuno potesse leggere e amare le sue storie. Adesso è un’autrice bestseller di «USA Today» e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. I suoi romanzi sono stati definiti oscuri, crudi e pieni di grinta: se alcuni scrittori hanno il dono di saper descrivere la primavera, lei sceglie le tinte dell’autunno. La Newton Com­pton ha pubblicato King, King. Segreto inconfessabile, King. Hai rubato il mio cuore e King. Libero di amarti.
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2021
ISBN9788822750488
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    Anteprima del libro

    King. Libero di amarti - T.M. Frazier

    Capitolo uno

    Bear

    A tredici anni

    Entrai nell’ufficio del mio vecchio per fargli sapere che il carico che attendeva da mesi era finalmente arrivato. Nell’esatto momento in cui aprii la porta, mi pentii di essermi dimenticato di bussare. Chop se ne stava appoggiato allo schienale della poltrona di un verde sbiadito nell’angolo della stanza, con i pantaloni abbassati fino alle caviglie e una birra in mano. Una bbb rossa di nome Millie, o Mallie, o Jennie, era inginocchiata tra le sue gambe, con la testa che ciondolava avanti e indietro sul suo uccello. «Merda», mormorai al ricordo del cazziatone che mi aveva fatto l’ultima volta in cui l’avevo interrotto mentre era con una pollastra. Il nero intorno agli occhi ci aveva messo due mesi a sparire, e poi mi aveva affibbiato il compito di piantone per un cazzo di mese intero.

    Afferrando la maniglia, arretrai lentamente nella speranza di non essere stato notato.

    Non ebbi questa fortuna.

    «Che cazzo ti avevo detto, ragazzo?», gridò. Io mi pietrificai. «Sei stupido o che? Non ti ricordi cosa è successo l’ultima volta che non mi hai portato rispetto? Ti dico di bussare, cazzo, e invece tu entri come se fossi il padrone di questa merda di posto?». La ragazza levò la bocca dal suo uccello con un sonoro pop e io mi feci piccolo piccolo. «Non fermarti, puttana. Cazzo, ti ho forse detto che potevi fermarti?». Chop la afferrò per la nuca e la spinse di nuovo verso il suo pisello, tenendola ferma lì.

    «Scusa, papà», gli dissi, ma fu un lapsus che l’avrebbe di sicuro mandato su tutte le furie.

    «Papà? Papà!». Questa volta allontanò la testa della ragazza dal suo grembo e la spinse di lato, e quella atterrò su un fianco e si lasciò scappare una smorfia. Lui si alzò, infilandoselo nei jeans e richiudendo la zip mentre Jodi ci passò accanto di corsa in direzione della porta. «Com’è che mi devi chiamare, figliolo?». Chop sputacchiò, colpendomi in volto. Riuscivo a sentire l’odore della birra dal suo alito.

    «Presidente», risposi con lo sguardo rivolto verso il pavimento, come mi era stato insegnato.

    «Esatto, Presidente. Tutti i nomignoli come papà o papino valevano solo quando eri piccolo, ma non sei più un fottuto bambino ormai. Perché voglio che tu mi chiami Presidente?», chiese infilzandomi il petto con un dito.

    «Perché sei il Presidente», recitai le parole che mi aveva fatto ripetere fin da quando ero ufficialmente diventato un prospect e aveva deciso che papà fosse non si sa perché un termine irrispettoso.

    «Giusto, prospect. Io. Io sono il tuo fottuto Presidente. Non sono il tuo papà, o il tuo papino, o il tuo vecchio del cazzo». Chop mi afferrò per il gilet bianco e mi trascinò fuori in corridoio e poi giù per le scale, fino alla sala comune. Alcuni dei fratelli erano seduti sugli sgabelli al bancone del bar. La maggior parte degli altri stava giocando a biliardo e i soldi delle scommesse erano ammucchiati in pile sul bordo del tavolo, indice di un’alta posta in palio.

    Quanto fosse alta questa posta non importava granché in realtà, perché nel momento esatto in cui Chop era entrato nella stanza, tutti avevano posato le stecche e avevano rivolto l’attenzione verso di noi. Mi spintonò in avanti, rimanendo in piedi dietro di me. Io mi aggrappai a uno dei tavoli per non cadere, sparpagliando una mazzetta di banconote che cadde a terra.

    «Diglielo. Di’ ai tuoi futuri fratelli chi sono io, prospect», ordinò Chop in tono di scherno, come se non aspettasse altro che vedermi reagire. Ero incazzato, ma non stupido. Tutto quello che dovevo fare era lasciar trascorrere quel periodo da prospect, perché una volta diventato membro ufficiale avrebbe dovuto mostrarmi un po’ di rispetto.

    O almeno speravo.

    «Lui è…», iniziai a parlare, ma vacillai sotto lo sguardo dei fratelli.

    «Che cosa sono io, ragazzo?!», Chop si era chinato e mi aveva urlato la domanda nell’orecchio. «E sta’ su dritto, cazzo. Conosco puttane che passano tutta la giornata in ginocchio e sdraiate sulla schiena che stanno più dritte di te». Mi afferrò per i capelli con un pugno e mi strattonò verso l’alto.

    «Il Presidente», dissi, questa volta con un po’ più di voce, sussultando mentre continuava a tirarmi per i capelli come se fossi una marionetta del cazzo e lui stesse maneggiando i fili.

    «Chi?», tuonò come un sergente istruttore.

    «Sei il Presidente!», urlai, sperando fosse sufficiente e mi lasciasse andare così da poter mettere fine a quello spettacolo, il mio unico desiderio ogni volta che Chop usciva di testa, cosa che accadeva sempre più spesso.

    «E chi sei tu?»

    «Non sono nessuno. Sono solo un prospect».

    «E che altro?», mi esortò lui, e io sentii le mani tremare mentre la paura si trasformava lentamente in rabbia. Feci un paio di respiri profondi e cercai di reprimerla. Una reazione violenta non avrebbe portato niente di buono.

    Ricordati dell’ultima volta. Sta’ calmo. È solo per pochi minuti, dissi a me stesso.

    «Di’ loro quello che devi dire a me, stronzetto. Di’ loro quello che dovresti già sapere, ma che a quanto pare ti dimentichi in continuazione ogni volta che non mi porti rispetto».

    Alzai gli occhi verso gli altri fratelli; sembravano tutti divertiti e si scambiavano sorrisetti e gomitate, come se stessero guardando una specie di spettacolo comico. Tutti, tranne uno. Un uomo brizzolato se ne stava in piedi dietro al gruppo con aria impassibile, senza mostrare nessuna emozione che avrei facilmente potuto scambiare per compassione, se avessi anche solo potuto pensare che un fratello potesse avere compassione per un prospect.

    Mi schiarii la gola. «Sono un prospect del più grande club di motociclisti della Florida», dissi a denti stretti. «I Beach Bastard. Non sono un figlio. Non ho un padre. Sono un soldato dell’esercito dei fuorilegge, e niente di più».

    Chop grugnì in segno di approvazione: «Spero che questo possa insegnarti quella cazzo di lezione che fatichi tanto a imparare. Non ho bisogno di un figlio, e tantomeno lo voglio. Quello di cui ho bisogno è un fottuto bravo soldato».

    Mi lasciò andare dopo avermi spinto per farmi inginocchiare. Con un calcio sul coccige, mi fece cadere riverso a terra, e la guancia sbatté contro il linoleum a scacchi bianco e nero.

    «Tira fuori le palle e mostrami un po’ di rispetto prima che ti spedisca dove ho spedito quella troia di tua madre».

    Chop se ne andò infuriato dalla stanza, fermandosi solo il tempo di scambiare un breve sguardo seccato con l’uomo brizzolato. Gli altri fratelli ripresero a bere e giocare come se nulla fosse successo.

    L’uomo dai capelli argentati si inginocchiò e mi porse la mano, mentre io gli lanciai un’occhiata che doveva aver lasciato intuire ciò a cui stavo pensando, ovvero: È uno scherzo?, perché lui si mise a ridere, mi afferrò per un braccio e mi tirò su dal pavimento. Mi portai le dita alla guancia, nel punto in cui la sentivo pulsare, e data la macchia rossa sulla piastrella bianca dove ero atterrato, capii che stava anche sanguinando. «Passerà», disse l’uomo, assestandomi una vigorosa pacca sulla schiena.

    «Sul serio?», domandai, perché desideravo davvero saperlo. Avevo bisogno di saperlo. Vedevo tutto ciò che avevano i fratelli, ed era quello che volevo anch’io. Le feste. Le ragazze. Delle moto coi controcoglioni.

    Un po’ di rispetto, cazzo.

    Ma al momento mi premeva sapere se valeva la pena sopportare quello che mi stava facendo passare Chop.

    «Ma certo, ragazzo. Io sono Joker», disse mentre mi conduceva al bancone.

    «Joker?», chiesi. «Sei un comico o qualcosa del genere?»

    «Nah, sono solo appassionato dei film di Batman, ma Batman non sembrava un nome adatto a un motociclista, così hanno iniziato a chiamarmi Joker». Rise prima di bere un sorso di birra. «E comunque, ho sempre preferito i cattivi». Fece un cenno alla bbb dietro al bancone e lei gli allungò due bottiglie di birra. Lui ne fece scivolare una verso di me.

    «Non ti ho mai visto qui prima d’ora», dissi, anch’io facendo un sorso. Non era la mia prima birra. «Di solito conosco più o meno tutti quelli che passano di qua».

    Scrollò le spalle. «Visto che in questo momento i nostri club sono in buoni rapporti e abbiamo degli affari in ballo, ho pensato di passare a dare un’occhiata», mi rispose, voltandosi di schiena per farmi vedere che sul suo gilet c’era la scritta Wolf Warrior invece di Beach Bastard.

    «Il tuo club tratta di merda i prospect?», chiesi, sedendomi sullo sgabello già posizionato più in alto, in modo da non dovermi mettere in imbarazzo nel tentativo di regolarne l’altezza. Potevo anche essere la copia sputata del mio vecchio, con tanto di capelli biondi e quelle ridicole lentiggini, ma a tredici anni ero alto a malapena la metà di lui.

    «Ci puoi scommettere le palle», rispose con una risata, dando un sorso alla birra. Si avvicinò e abbassò la voce. «Ma non i nostri figli. La famiglia è tutto, ragazzo. Ricordatelo. La famiglia è il punto fondamentale di tutta questa merda», disse Joker, indicando con la sua bottiglia tutto ciò che ci circondava.

    Mentre finivo di bere la birra, mi alzai e poi la appoggiai sul bancone. «Be’, Joker, hai sentito con le tue orecchie quello che ha detto il Presidente. Non sono suo figlio». Mi voltai per andarmene, il mio turno da piantone sarebbe iniziato a breve, quando la frase che quel tipo aveva appena detto mi fece fermare e voltare.

    «Quando lo scettro sarà tuo, cambierai le cose, ragazzo. Ce l’hai nel sangue. Sistemerai tutto, so che lo farai. Io ho fede in te».

    Arricciai il naso. «Mi ripeti chi saresti tu?», chiesi allo sconosciuto che sembrava sapere non solo chi fossi, ma anche ciò a cui ero destinato.

    «Sono solo un biker che presta attenzione, ragazzo». Mi appoggiò una mano sulla spalla con fare rassicurante e le diede una stretta. Mi osservò pensieroso e annuì come se stesse confermando qualcosa a sé stesso, prima di uscire dalla porta.

    Non lo rividi mai più.

    Capitolo due

    Bear

    Gli echi dei pianti dei detenuti risuonavano per tutto il braccio durante la notte. La maggior parte di questi ragazzoni erano gangster spietati di giorno e pozze di inutile miseria di notte. Sembrava che lo spegnimento delle luci fosse l’unico momento accettabile per piangersi addosso per le cattive carte che ci erano state date.

    Ma non per me.

    Nel mio gioco ero sia il giocatore che il banco e sapevo quali carte mi sarebbero toccate prima di tutti gli altri.

    In particolare Ti.

    Mi angosciava anche solo ricordare l’espressione sul suo viso quando avevano chiuso intorno ai miei polsi le manette che pensava fossero per lei. La sua faccia corrugata dalla confusione, e subito dopo i suoi occhi spalancati per la sorpresa. Quando aveva urlato il mio nome, quasi non mi ero voltato, pensando che avrebbe potuto non perdonarmi mai per ciò che avevo fatto. Ma dovevo guardarla. Un’ultima volta, per chissà quanto tempo. E quando lo avevo fatto, non mi ero aspettato che lei balzasse tra i miei polsi ammanettati e premesse quelle perfette labbra rosa imbronciate sulle mie.

    Maledizione, quelle labbra.

    Pensavo che passare tanto tempo lontano da Ti mi avrebbe fatto dimenticare. Non lei, solo i dettagli. Quel tipo di cose che potrebbero far impazzire un uomo quando non può stare con la persona che desidera di più. Pensavo che con il passare del tempo il ricordo del suo splendido volto avrebbe iniziato a sfumare e sarebbe stato più difficile immaginarmela. O che forse non sarei più riuscito a ricordare il suo inebriante profumo.

    I suoi gemiti delicati.

    Il modo in cui le sue guance arrossivano quando stava per venire.

    No, non era andata così.

    Al contrario, ricordavo ogni cosa, e nei minimi e più vividi dettagli. Più pensavo a lei e più ricordavo.

    Con tutto quel tempo libero a disposizione, era probabile che la ricordassi ancora più minuziosamente di quando l’avevo davanti agli occhi. Come il modo in cui spostava il peso da un piede all’altro quando si sentiva a disagio. Il modo in cui si mordeva il lato del pollice quando era nervosa.

    Non avevo mai sentito il bisogno di rivendicare come mia una ragazza in tutta la mia vita. Poi avevo assaporato lei, vicino al fuoco, e avevo capito che era il punto di non ritorno. Mai più. Non per me. Quella prima volta con lei sul furgone, giuro che la parola mia mi cantilenava nella testa mentre entravo e uscivo dalla sua meravigliosa fica.

    Se ci pensavo abbastanza a lungo e abbastanza intensamente, potevo ancora sentire il suo odore su di me.

    Spesso dovevo ricordare al mio uccello dove ci trovavamo e della minaccia incombente, perché era facile perdersi nei ricordi. Nudi. Avvinghiati. Ansimanti.

    Fanculo.

    Nello stesso modo in cui era facile perdersi nel pensiero di lei, così era tutt’altro che facile dimenticarsi del pericolo imminente che avrebbe potuto incombere da dietro ogni angolo. Nessuna cella era sicura. Nessun corridoio. Nessun bagno. Nemmeno il cortile.

    Quando Bethany mi aveva detto che c’erano abbastanza prove per arrestare Ti, non avevo sprecato neanche un fottuto secondo a pensare di prendere il suo posto. Per nessuna ragione avrei permesso ai poliziotti di portarla via. A maggior ragione, volevo assicurarmi di tenere alta la guardia e far sì che ogni Bastardo che pensava di poter venire da me in prigione finisse maciullato o morto. Comunque quello non importava granché, perché in entrambi i casi non ci sarebbe andata di mezzo Ti.

    Non riuscendo a dormire, me ne stavo davanti alla porta della cella, appoggiato alle sbarre. Attraverso l’alta finestra dall’altro lato del braccio, l’unica finestra, si vedeva la luna piena oscurata da alcune sottili nuvole passeggere, l’unico spiraglio di libertà che ero sicuro avrei avuto per molto tempo.

    Se non per sempre.

    Il procuratore distrettuale aveva annunciato poco dopo il mio arresto che stavano spingendo per ottenere la pena di morte.

    Le nuvole si diradarono e il bagliore della luna illuminò la cella come un riflettore. Caso vuole, illuminò il graffito sulla parete della cella sopra il bagno.

    beach bastard, logan’s beach era scritto con un pennarello dalla punta spessa.

    Sospirai. Nemmeno nella mia fottuta cella potevo scappare dalle loro grinfie, anche se solo sotto forma di inchiostro.

    Per il momento.

    I Beach Bastard erano più di un semplice club di motociclisti, perfino più della mia casa. Erano una fratellanza, vincolata dalla lealtà. A quei tempi, nient’altro poteva essere paragonato alla sensazione di appartenere a qualcosa di più grande e più importante di me.

    Qualcosa in cui credevo con tutto ciò che ero e che avevo.

    Quando avevo lasciato il club, avevo pensato che non avrei mai più avuto nulla di simile, ma mi sbagliavo. Anche se la forma era un po’ diversa. Invece di vestiti in pelle e tatuaggi, una lingua lunga e un corpo che avrei voluto cavalcasse la mia faccia ogni fottuto secondo del giorno.

    Quando ero un Bastardo, avevo sempre vissuto e respirato secondo un codice su cui l’intero moto club era stato fondato.

    Il codice prevedeva che, anche se i Bastardi potevano cavarti i bulbi oculari per ritorsione, non avrebbero ucciso tua moglie e i tuoi figli nel mentre.

    Gli innocenti non potevano essere toccati.

    Questo era valso finché Chop non aveva messo le mani addosso alla mia ragazza.

    La mia Thia.

    Adesso i Bastardi erano più simili a un gruppo terroristico, guidato non dalla lealtà, ma dagli ordini usciti dalla bocca di un tiranno senz’anima affamato di potere. Un tempo i miei fratelli erano soldati, eppure lungo la via si erano in qualche modo trasformati in niente di più che cani obbedienti legati al guinzaglio molto corto nelle mani di Chop. Quel tipo di criminali che fanno il lavoro sporco, disegnano graffiti nelle celle mentre sono dentro e contribuiscono al bene generale del club.

    Non c’era più un bene del club.

    Il concetto di fratellanza se n’era andato da un bel pezzo, mentre una dittatura grondante di olio motore, pelle e bugie aveva preso il suo posto.

    Quando mi ero tolto il gilet, non sapevo più chi ero. L’uomo che era in me si era perso con il passare degli anni, nella convinzione che in un certo senso il mio vecchio fosse più di un semplice mortale, perché era lui che impugnava lo scettro e impartiva gli ordini.

    Fino a Ti.

    Lei mi aveva fatto capire che non avevo bisogno del moto club per essere un biker.

    Potevo vivere e potevo saltare in sella.

    Potevo amare e potevo uccidere.

    Sia l’uomo sia il biker in me, entrambi, volevano ficcare una pallottola nel cranio di Chop e porre fine a questa merda, perché sapevo che lui non si sarebbe fermato davanti a nulla finché io non mi fossi trovato sottoterra.

    «Prima tu, vecchio mio», sussurrai a me stesso.

    Il codice dettava anche che un fratello non poteva uccidere un altro fratello.

    Era un bene che non fossi più un Bastardo, perché se e quando fossi uscito da quelle sbarre, il dolore che avevo pianificato di infliggere al mio vecchio avrebbe fatto sembrare ciò che Eli e quelle fichette dei suoi uomini avevano fatto a me una passeggiata a confronto.

    Poi c’era il piccolo dettaglio di mia madre, che all’improvviso era tornata dal regno dei morti.

    Sadie.

    Mia madre si chiamava Sadie Trame. Per qualche strana ragione l’avevo rimosso, finché non mi ero ritrovato seduto di fronte a lei nella sala delle visite, chiedendomi come cazzo fosse possibile che fosse viva.

    Quella stronza avrebbe almeno potuto farmi la cortesia di restare morta.

    Non mi fidavo di quella situazione.

    Non mi fidavo di lei.

    Avevo già abbastanza merda a cui pensare senza dovermi anche preoccupare della donna che mi aveva dato alla luce ed era sfuggita alla Nera Mietitrice solo per tornare strisciando nel mondo dei vivi.

    Nel corso degli anni, raramente avevo permesso ai miei pensieri di fantasticare sulla donna che mi aveva dato la vita. Chop diceva che era una traditrice e io gli credevo. Non c’era posto per le talpe nel club, né tra i vivi. «Noi non ci pensiamo due volte prima di ammazzare le talpe. Sono parassiti. L’unica talpa buona è quella morta». Aveva detto proprio così la notte in cui aveva sorpreso Sadie nel tentativo di scappare in auto da Logan’s Beach con me nel sedile del passeggero. Qualche ora più tardi, l’aveva trascinata nel bosco e l’aveva soppressa come un fottuto cane rabbioso.

    La cosa strana è che non ricordo di aver pianto allora. Un figlio dovrebbe piangere per la morte di sua madre, no? Mi tormentai nel cercare di ricordare anche una sola lacrima versata, ma il ricordo non arrivò mai.

    Ciò che arrivò furono altri flashback, per esempio come i suoi lunghi capelli castani le arrivassero quasi alla vita a quel tempo. Il modo in cui le si illuminavano gli occhi color nocciola quando il mio vecchio le rivolgeva un minimo di attenzione. Di come non indossasse mai il trucco intorno agli occhi, mentre le labbra erano sempre pitturate di un rosso acceso. Di come non mi avesse mai cantato una ninnananna, ma canticchiasse sempre i brani di Tania Tucker e Waylon Jennings ovunque andasse.

    Quei ricordi non potevano essere della stessa Sadie seduta di fronte a me nella sala delle visite.

    No, la donna che si torceva le dita e continuava a guardare in basso era solo il guscio di quello spirito libero che ricordavo mentre ballava sulle note della canzone di Willie Nelson, da lei stessa impostata su Riprodurre a ripetizione al jukebox del moto club.

    Era viva e respirava, ma c’era qualcosa in lei che non quadrava. Forse le guance scavate o il colorito giallognolo. O forse era il senso di sconfitta che mi trasmetteva a farmi chiedere se forse il mio vecchio non fosse riuscito ad ammazzarla davvero, dopotutto.

    Sadie e Chop si erano messi insieme quando lei aveva solo sedici anni. Era scappata di casa ed era diventata una puttana del club. Cinque anni dopo la mia nascita, lei non c’era più, e questo era quanto.

    E poi eccola lì, quasi vent’anni dopo. Seduta di fronte a me, venuta a vedere come stavo, con la bocca spalancata come se tra i due fossi io il fottuto fantasma.

    «Perché sei qui?», avevo chiesto, non sapendo come intavolare la conversazione, o se addirittura volessi averne una.

    «In tutta onestà, pensavo di saperlo, ma ora che sono qui non sono più così sicura del perché sono venuta», aveva risposto lei docilmente, mordendosi un labbro e guardando ovunque tranne che nella mia direzione.

    «Pensavo fossi morta», replicai affermando l’ovvio.

    Annuì. «Lo pensavo anch’io. A quanto pare mi sbagliavo».

    «Che significa?». Avevo superato la fase delle risposte evasive, soprattutto quando portavano solo a ulteriori domande del cazzo.

    «Significa che quando tuo padre premette il grilletto, pensai di essere morta, ma poi mi svegliai e fui sorpresa di essere ancora viva, proprio come lo sei tu adesso. Però non ero libera, ero rinchiusa da qualche parte». Si pizzicò il dorso del naso. «I dettagli sono sfocati. Sono scappata, ma a dir la verità nemmeno ricordo come. Non appena ho ritrovato un po’ di lucidità, mi sono messa a cercarti».

    «Pensi che Chop ti abbia tenuta prigioniera da qualche parte per tutto questo tempo?».

    Sadie annuì. «Sì, ma non so dove».

    «Come cazzo è possibile che per vent’anni tu non abbia saputo dove ti trovavi? Cazzo, non pensi che suoni un po’ strano?».

    Lei sollevò una mano sul tavolo, con il palmo

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