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Non volevo fosse amore
Non volevo fosse amore
Non volevo fosse amore
E-book369 pagine5 ore

Non volevo fosse amore

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Info su questo ebook

Reaper's Series

Marie non ha bisogno di altre complicazioni. Ha già abbastanza guai. Ma c’è un motociclista supertatuato che non la pensa allo stesso modo. Horse la desidera e non sembra disposto ad accettare un rifiuto, ma Marie è appena uscita a fatica da una storia con un uomo violento e non è pronta per una nuova relazione. Specialmente con uno come Horse. È quasi sicura, infatti, che il motivo per cui si è presentato alla porta di casa di suo fratello non sia del tutto legale. Per questo Marie desidera che si levi di torno alla svelta. Se non fosse così maledettamente affascinante… Horse fa parte del Reapers Motorcycle Club e si comporta come se il mondo gli appartenesse. Vive senza regole e, quando vuole qualcosa, sa come ottenerla. Adesso che il fratello di Marie è nei guai potrebbe sfruttare la situazione per conquistarla. 

Lui ha deciso che lei sarà la sua donna: 
Riuscirà a convincerla a cedergli?

«Non vedo l’ora di leggerne il seguito.»

«Pronti per un giro in moto che vi toglierà il fiato?»

«Un romanzo pieno d’amore, passione, violenza e sesso. Mi sono goduta ogni singola parola di questo libro.»

Joanna Wylde
è un’autrice bestseller del New York Times. Ha lavorato come giornalista e editor in vari quotidiani, prima di decidere di mettersi in proprio lavorando come ghostwriter.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734174
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    Anteprima del libro

    Non volevo fosse amore - Joanna Wylde

    Capitolo 1

    Yakima Valley, Eastern Washington

    17 settembre

    Marie

    Cazzo. C’erano delle moto davanti alla roulotte.

    Tre Harley e un grosso furgone marrone che non conoscevo.

    Per fortuna mi ero fermata al supermercato tornando a casa: la giornata era già stata lunga e l’ultima cosa che volevo era correre fuori a comprare altro cibo, ma i ragazzi volevano sempre mangiare. Jeff non mi aveva dato soldi extra per la birra, e non volevo chiederglieli, considerati i suoi problemi economici. E io non pagavo nemmeno l’affitto. Per essere un ragazzo il cui unico scopo nella vita era fumare erba e giocare ai videogame, mio fratello Jeff aveva già fatto tanto per me nel corso degli ultimi tre mesi. Glielo dovevo e lo sapevo.

    Avevo preso della birra e della carne macinata in offerta – avevo pensato di preparare hamburger, panini e patatine per noi due, ma ne facevo sempre un po’ di più per conservarli. Gabby mi aveva dato un’anguria che aveva raccolto a Hermiston quel fine settimana, e avevo persino preparato un’abbondante insalata di patate per la festa post lavoro del giorno dopo. Sarei dovuta rimanere in piedi fino a tardi per farne un’altra, ma potevo farcela.

    Sorrisi, grata del fatto che nella mia vita qualcosa stesse andando bene. In meno di un minuto avevo organizzato un pasto: certo, non sarebbe stata roba gourmet, ma non avrebbe nemmeno messo Jeff in imbarazzo.

    Mi fermai vicino alle moto facendo attenzione a lasciare parecchio spazio. La prima volta che avevo visto i Reaper ne ero rimasta terrorizzata. Sarebbe successo a chiunque. Sembravano dei criminali, tutti tatuati e con addosso quei giubbotti di pelle nera pieni di toppe. Potevano anche imprecare, bere, essere scortesi ed esigenti, ma non avevano mai rubato né sfasciato niente. Jeff mi aveva messa in guardia da loro un sacco di volte, ma li considerava comunque amici. Mi ero convinta che stesse esagerando sul pericolo, almeno in gran parte – insomma, Horse era pericoloso, ma non riguardo ad attività criminali…

    Comunque sia, credo che Jeff avesse fatto per loro qualche lavoro di web design o roba del genere. Qualcosa insomma. Non avevo idea del perché un club motociclistico potesse aver bisogno di un sito internet e l’unica volta che glielo avevo chiesto, Jeff mi aveva risposto di non fare domande.

    E poi era scappato al casinò per due giorni.

    Scesi dalla macchina e mi diressi al portabagagli per prendere la spesa, un po’ spaventata dalla possibilità di vedere la moto di Horse tra le altre. Desideravo talmente tanto vederlo che quasi ci stavo male, ma non sapevo cosa avrei detto se fosse successo. Non che avesse mai risposto ai miei messaggi… Non potevo farci nulla, dovevo vedere se c’era, quindi presi le buste della spesa e mi avvicinai alle moto per controllarle prima di entrare.

    Non sono un’esperta di due ruote, ma ne sapevo abbastanza per riconoscere la sua. Che era grande e lucida e nera. Non tutta brillante e decorata come quelle che si vedono a volte in autostrada. Era solo grande e veloce, con dei giganteschi tubi di scappamento sulla parte posteriore e con un livello di testosterone molto superiore al limite di legge.

    Quella moto era bella quasi quanto l’uomo che la guidava.

    Quasi.

    Il cuore mi si fermò quando la scorsi, parcheggiata proprio alla fine della fila. Avrei voluto toccarla per vedere se la pelle del sellino era morbida come la ricordavo, ma non ero tanto stupida da farlo. Non ne avevo il diritto. Non avrei nemmeno dovuto essere tanto entusiasta di rivederlo, ma provai una fitta sapendo che era già nella mia roulotte. Non era andata bene tra di noi, quindi in tutta onestà non sapevo nemmeno se mi avrebbe salutata. Per un po’ avevo quasi avuto l’impressione di essere fidanzata con lui, ma l’ultima volta che lo avevo visto mi aveva spaventata a morte.

    Eppure, nonostante il terrore, quell’uomo mi faceva bagnare le mutandine.

    Alto, fisico da urlo, i capelli lunghi fino alle spalle che teneva legati in una coda, una folta barbetta nera, i bracciali tribali tatuati sulle braccia e sui polsi… E quel viso… Horse era bellissimo, bellissimo come una star del cinema. Scommetto che le donne gli uscivano dalle orecchie e il fatto che avesse trascorso più di una notte nel mio letto mi aveva fatto capire fin troppo bene che non era bello soltanto sopra la cintura – il pensiero delle sue risorse sotto la cinta mi portarono a fantasticare brevemente, ma in modo intenso, su di lui, me, il mio letto e un po’ di sciroppo di cioccolato.

    Hmm…

    Cazzo! Il dessert! Mi serviva il dessert per quella sera. Horse amava i dolci. C’erano le gocce di cioccolata? Avrei potuto fare dei biscotti, sempre che avessimo avuto burro a sufficienza. Ti prego, fa’ che non ce l’abbia con me, mi dissi in silenzio, anche se ero abbastanza certa che Dio non fosse interessato alle preghiere in cui la speranza di fornicare rappresentava un ruolo prominente. Arrivai alla porta e cominciai ad armeggiare con le buste facendomene scivolare la maggior parte sul braccio destro per premere la maniglia. Entrai nel soggiorno e mi guardai intorno.

    Poi gridai.

    Il mio fratellino era inginocchiato al centro della stanza, picchiato a sangue. Aveva imbrattato tutto il tappeto. Intorno a lui quattro uomini con i gilè dei Reaper. Picnic, Horse e due che non conoscevo – un fusto alto e scolpito con i capelli alla mohicana e un migliaio di piercing, e un altro della medesima corporatura, con le punte dei capelli biondo chiaro. Horse mi osservava con la stessa espressione fredda e quasi assente che aveva la prima volta che ci eravamo incontrati. Indifferente.

    Anche Picnic mi stava guardando. Era alto e aveva i capelli corti e scuri, troppo stilosi per un motociclista, e due brillanti occhi azzurri in grado di trapassare una ragazza da parte a parte. Lo avevo visto almeno cinque volte, era il presidente del club. Aveva un grande senso dell’umorismo, mostrava le foto delle sue due figlie ogni qualvolta ne aveva la possibilità e l’ultima volta che era venuto a trovarci mi aveva aiutato a decorticare il mais.

    Oh. Ed era in piedi alle spalle di mio fratello con una pistola puntata sulla sua nuca.

    16 giugno. Dodici settimane prima

    «Hai fatto la cosa giusta», disse Jeff mettendomi un impacco di ghiaccio sulla guancia. «Quel figlio di puttana merita di morire. Non ti pentirai mai e poi mai di averlo lasciato».

    «Lo so», risposi miseramente. Aveva ragione. Per quale motivo non avevo lasciato Gary prima? Ci eravamo innamorati al liceo, sposati a diciannove anni e già a venti sapevo di aver fatto un terribile errore. E per comprendere quanto terribile fosse, c’erano voluti cinque anni, fino a quel momento.

    Quel giorno mi aveva colpito in faccia con un manrovescio.

    Dopodiché ci avevo messo appena dieci minuti a fare ciò di cui non ero stata in grado di occuparmi durante tutto il tempo in cui eravamo stati insieme: scaraventai i miei abiti nella valigia e lasciai quello stronzo violento e imbroglione.

    «Quasi mi fa piacere che lo abbia fatto», dissi posando lo sguardo sul tavolo di formica rovinato della roulotte di mia madre. La quale, al momento, si stava facendo una piccola vacanza… in carcere. Mia madre ha sempre avuto una vita complicata.

    «Ma che cazzo stai dicendo, Marie?», mi chiese Jeff scuotendo la testa. «Tu sei completamente fuori a dire così!».

    Mio fratello mi voleva bene, ma non era esattamente un poeta. Gli risposi con un sorriso flebile.

    «Sono stata con lui per troppo tempo, tutto qua. E credo che ci sarei potuta rimanere per sempre. Ma quando mi ha colpita, è stato come se mi fossi svegliata: sono passata dall’essere terrorizzata all’idea di andarmene a non preoccuparmene più. In tutta onestà, non me ne frega niente, Jeff. Si può tenere tutto. I mobili, lo stereo, tutta questa merda. Sono solo contenta di essermene andata».

    «Be’, puoi stare qui tutto il tempo che ti serve», rispose lui indicando la roulotte. Era piccola e umida e puzzava di erba e biancheria sporca, ma lì mi sentivo al sicuro. Era stata la mia casa per la maggior parte della mia vita. Probabilmente non sarà stata un’infanzia perfetta, ma non è stata neppure troppo male per due poveri ragazzini bianchi il cui papà era sparito ancora prima che iniziassero le elementari.

    Be’, almeno fino a quando mamma non cominciò ad avere problemi con la schiena e a bere – da allora le cose sono precipitate. Mi guardai intorno cercando di riflettere. Cosa sarebbe successo?

    «Non ho un soldo», dissi. «Non ti posso pagare l’affitto, almeno fino a che non trovo un lavoro. Gary non ha mai voluto che il conto in banca fosse cointestato».

    «Ma che cazzo stai dicendo, Marie? L’affitto?», chiese di nuovo Jeff, scuotendo la testa. «Questa casa è anche tua. Okay, è un buco di merda, ma è il nostro buco di merda e qui non paghi nessun affitto».

    Gli sorrisi. Un sorriso vero stavolta. Jeff poteva anche essere uno scansafatiche, ma aveva un grande cuore. D’un tratto provai per lui un affetto incredibile che non riuscii a tenermi dentro: posai il ghiaccio e gli corsi incontro per stringerlo forte. Lui mi abbracciò un po’ goffamente per ricambiare, anche se mi era chiaro che quel gesto lo confondeva e agitava un po’. Non siamo mai stati una famiglia sdolcinata.

    «Ti voglio bene, Jeff», gli dissi.

    «Ehm… okay», borbottò lui, allontanandosi da me nervosamente ma sorridendo. Andò al piano da lavoro della cucina, aprì un cassetto e tirò fuori un piccolo cilum di vetro e un sacchetto d’erba.

    «Ne vuoi un po’?», mi chiese. Sì, Jeff mi voleva bene: non la divideva mai con nessuno. Mi misi a ridere e con la testa feci cenno di no.

    «Passo. Domattina devo cominciare a cercare lavoro e non vorrei dover ripetere il test antidroga».

    Alzò le spalle e andò a sedersi sul divano del salotto – che faceva anche da sala da pranzo, ingresso e corridoio. Un attimo dopo, il suo televisore gigantesco si accese e Jeff iniziò a fare zapping tra i vari canali finché non trovò il wrestling – non lo sport, ma quella cosa in cui si indossano costumi divertenti e che è come una specie di soap opera. Probabilmente, a casa nostra, Gary stava guardando la stessa cosa. Jeff fece un paio di tiri, poi posò sul tavolino da caffè il cilum e il suo Zippo preferito, quello con il teschio. Prese il portatile e lo aprì.

    Sorrisi.

    Era sempre stato un mostro con i computer. Io non sapevo cosa faceva per guadagnarsi i soldi, anche se sospettavo che facesse il minimo indispensabile per cavarsela e non morire di fame. La maggior parte della gente, Gary incluso, lo riteneva un perdente. E magari lo era. Ma a me non interessava perché tutte le volte che avevo avuto bisogno di lui, Jeff c’era stato. E io ci sarò sempre per lui, giurai a me stessa. A cominciare dal tenere pulita la casa e comprare del cibo vero. Per quanto ne sapevo, quel ragazzo viveva di pizza, patatine al formaggio e burro d’arachidi.

    Certe cose non cambiano mai.

    Ci volle un sacco di lavoro per pulire la roulotte, ma ne assaporai ogni minuto. Mamma mi mancava, certo, ma devo ammettere (se non altro a me stessa) che quel posto era molto più confortevole senza lei in giro: è una cuoca terribile, tiene chiuse le tendine e non tira mai lo sciacquone.

    Oh, e qualsiasi cosa tocchi si trasforma in dramma e caos.

    Nemmeno Jeff tira lo sciacquone, ma per qualche motivo non mi dava troppo fastidio. Forse non soltanto perché mi aveva lasciato la stanza più grande, ma anche perché aveva infilato nel mio portafogli un bel po’ di banconote e mi aveva dato un bacio sulla fronte augurandomi buona fortuna quando quella mattina ero uscita per andare a cercare lavoro. Dovevo trovarne uno nonostante il brutto livido che avevo in faccia, regalo della piccola, amorevole carezza di Gary.

    «Gli romperai il culo, sorellina», disse Jeff grattandosi gli occhi. Mi commosse il fatto che si fosse alzato per vedermi uscire, nonostante non fosse un tipo mattiniero. «Quando torni mi prendi della birra? E un po’ di filtri per il caffè. Li ho finiti e sono rimasto anche senza tovaglioli. Non so se da tp li puoi trovare e io ho bisogno della mia caffeina».

    Feci una smorfia.

    «Penso io alla spesa», mi affrettai a dire. «E a cucinare», aggiunsi lanciando un’occhiata all’acquaio della cucina, dove erano impilati i piatti. E le pentole. E qualcosa di verde che avrebbe potuto contenere la cura per il cancro…

    «Fantastico», borbottò lui. Poi si girò e si diresse barcollante verso la sua stanza.

    Erano passate due settimane e le cose andavano meglio. Tanto per cominciare, in casa avevo fatto diversi progressi: non avevo più paura di sedermi sulla tavoletta del water o di farmi la doccia. Il passo successivo sarebbe stato il cortile, dove l’erba non veniva falciata da almeno due anni. Avevo anche trovato lavoro presso l’asilo nido Little Britches, gestito da Denise, la madre di Cara, una vecchia amica. Io e Cara ci eravamo perse di vista quando lei era andata al college, ma di tanto in tanto vedevo sua madre e le chiedevo sempre di lei: si era fatta strada studiando Legge e aveva trovato lavoro in un’azienda fichissima di New York. A volte Denise mi mostrava le sue foto: ai miei occhi Cara appariva come un avvocato della tv, tutta tailleur firmati e scarpe di lusso.

    Io tutt’altro invece. Avevo buoni voti come lei, ma mi ero innamorata da morireeeee di Gary, quindi avevo mollato il college. Bella pensata!

    Comunque, osservando di sfuggita il fondotinta che avevo steso sul livido, Denise mi chiese con cautela se stessi ancora con lui. Le raccontai della mia nuova vita e questo fu quanto.

    Quindi adesso avevo un nuovo lavoro. E anche se non guadagnavo tanto, lavorare con i bambini mi piaceva. Avevo persino cominciato a fare la babysitter di sera per diverse famiglie che il giorno portavano i loro figli al Little Britches. Jeff amava avermi intorno perché cucinavo, pulivo e caricavo la lavatrice. Lo avevo sempre fatto anche per Gary, ma lui non mi ringraziava mai. No. Sbraitava solo per dirmi quanto facessi male ogni cosa, poi usciva e andava a scoparsi la sua puttana.

    Quel giorno avevo staccato dal lavoro alle tre, così ero tornata a casa a fare il pane. Nel corso degli anni avevo perfezionato la mia tecnica – comincio con una ricetta di base francese, alla quale poi aggiungo un quintale d’aglio, spezie italiane, cinque diversi tipi di formaggio e spennello l’impasto con l’albume d’uovo. Con questa ricetta ne vengono fuori due forme grandi. Avevo in programma di servirlo con gli spaghetti, condito con i pomodori freschi dell’orto di Denise e la mia speciale insalata di spinaci. Certo, non dovevamo assolutamente mangiare una tale quantità di pane, e avevo in programma per l’indomani di portare la seconda pagnotta al lavoro per le ragazze.

    Dietro l’asilo di Denise c’era un orto enorme che lei mi aveva detto di usare tranquillamente. Pensavo di sfruttarlo il più possibile prima che la stagione finisse: avevo questa fantasia di fare delle conserve, ma forse non era poi così realistica perché avevo lasciato tutta la mia attrezzatura a casa di Gary e non ero pronta a tornarci. Lui non si era fatto sentire da quando me ne ero andata (cosa di cui ero felice) e in città avevo sentito dire che aveva già fatto entrare Misty Carpenter nel nostro letto (cosa che mi faceva venire da vomitare).

    Definivo Misty la Puttana, soprannome che enfatizzavo a caratteri maiuscoli tutte le volte che scrivevo un messaggio a qualcuno.

    Posai il pane a lievitare su un vassoio sul nostro vecchio tavolo da picnic che stava all’esterno e decisi di mettermi all’opera sulle erbacce intorno al portico. Faceva caldo, così mi infilai la parte superiore di un bikini (che, devo dire, riempivo abbastanza bene a dispetto delle piccole dimensioni della mia coppa). Presi dei vecchi guanti da lavoro che avevo trovato nel capanno e mi versai del tè freddo. Abbassai anche i finestrini della mia macchina per poter sparare la radio a tutto volume. E poi cominciai a commettere veri atti di violenza a scapito di ogni tipo di erbacce.

    Mezz’ora dopo sembrava che stessero vincendo loro, così decisi di fare una pausa. Salii sul tavolo da picnic, misi i piedi sulla panca e mi sdraiai all’indietro con le braccia sulla testa, penzolando dall’altra parte. Era fantastico sentirmi così rilassata e libera nel mio cortile, senza alcuna preoccupazione.

    Ovviamente fu in quel momento che arrivarono tutti i motociclisti.

    Li avevo sentiti mentre si avvicinavano naturalmente, anche se non subito come si potrebbe pensare perché avevo la musica a volume abbastanza alto. Mi ero resa conto che avevamo compagnia solo quando erano ormai a circa metà del nostro vialetto, che si snodava attraverso il frutteto del nostro padrone di casa. Perplessa, mi misi a sedere appoggiandomi sulle mani mentre loro si avvicinavano. Di solito apprezzavo il fatto di vivere nel bel mezzo del nulla e senza vicini di casa, ma adesso mi sentivo veramente sola.

    Chi erano quei tipi?

    Non mi ero resa conto di essere madida di sudore e di indossare il top di un bikini finché non spensero le moto, si tolsero i caschi e si voltarono a osservarmi. A completare il mio personale cliché ecco Pour Some Sugar on Me, dei Def Leppard, risuonare a tutto volume dalla radio. Ero in imbarazzo – dovevo sembrare una rozza principessa bianca che veniva dall’inferno e che si crogiolava in bikini attorno alla sua roulotte ascoltando un butt rock fuori moda. Sentivo i loro occhi strisciare su di me e, mentre tutti e tre sembravano apprezzare il panorama, fu il tipo al centro ad attirare davvero la mia attenzione. Era grosso. E non intendo solo alto (e lo era, doveva essere più di un metro e novanta rispetto al mio misero metro e sessanta), ma anche piazzato. Spalle larghe, braccia muscolose con dei bracciali tribali tatuati intorno ai polsi e ai bicipiti. Avrei scommesso che, pur con entrambe le mani, quelle braccia non sarei stata in grado di stringerle. E poi aveva delle cosce tornite che avrei voluto strizzare… e magari anche leccare.

    Scese dalla moto e si avviò verso di me, i suoi occhi tenevano in ostaggio i miei. Avvertii un’incredibile scarica di calore tra le gambe. A dire il vero, era da tanto tempo che non provavo un impulso sessuale: gli ultimi anni con Gary erano stati frustranti nel migliore dei casi e dolorosi nel peggiore. Ma qualcosa nel modo spavaldo di camminare di quel motociclista, che con la sua presenza riempiva lo spazio e l’aria tutt’intorno, mi prese alla sprovvista colpendomi proprio nella…

    Okay, non è difficile da capire.

    Mi si indurirono i capezzoli e ondeggiai un po’ mentre lui si fermava e iniziava a sfiorarmi la clavicola con un dito, seguendola dalla spalla verso l’interno e scendendo poi tra i miei seni, sfiorandoli ai lati. Poi si portò il dito alla bocca, assaporando il mio sudore. Odorava di sesso e olio per motori.

    Porca puttana.

    «Ehi, sweet butt!», disse. Fine dell’incantesimo. Sweet butt? Ma quale accidenti di uomo chiamava così una ragazza che non aveva mai incontrato prima? «È in casa il tuo uomo? Dobbiamo parlare».

    Scivolai all’indietro per scendere dal tavolo, lontano da lui, rischiando anche di cadere. Di colpo la musica si fermò. Distolsi lo sguardo da lui e vidi che uno dei suoi amici era entrato nella mia macchina, aveva preso le chiavi e se le era infilate in tasca.

    Oh oh.

    «Vuoi dire Jeff? È in città», risposi cercando di ricompormi. Cazzo. Era il caso di ammettere che ero sola? Non avevo scelta, davvero. Insomma, avrei potuto dire che dovevo entrare a chiamare Jeff per poi chiudere a chiave la porta, ma la roulotte aveva trent’anni e la serratura era arrugginita da quando ero bambina. Per non parlare del fatto che avevano preso le chiavi della macchina. «Perché non aspettate qui fuori mentre lo chiamo?».

    Quello alto mi studiava, il volto freddo e privo di espressione. Non ero sicura che fosse umano, pensai. Sembrava più un Terminator. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo, quindi abbassai gli occhi sul suo gilè. Rovinato da morire, di pelle nera e pieno di toppe. Una in particolare attirò la mia attenzione: un diamante rosso vivo con il numero 1 e accanto il simbolo di percentuale. Non ne conoscevo il significato, ma ero abbastanza sicura di voler entrare in casa per mettermi addosso qualcos’altro.

    Magari un burka.

    «Ma certo, piccola», rispose lui sedendosi a cavalcioni sulla panca del tavolo. I suoi amici si unirono a lui.

    «Ci porti qualcosa da bere, piccola?», chiese uno di loro, un tipo alto con i capelli corti e scuri e due incredibili occhi azzurri. Feci cenno di sì con la testa e mi affrettai a entrare nella roulotte cercando di usare ogni milligrammo del mio autocontrollo per non mettermi a correre. Li sentivo ridere alle mie spalle. E non era una risata amichevole.

    Per fortuna Jeff mi rispose al primo tentativo.

    «Ci sono dei tizi che vogliono vederti», dissi sbirciando dalla finestra della cucina, facendo ben attenzione a tenere chiuse le tende sbiadite decorate con immagini di piccoli vegetali volanti. «Dei motociclisti. Mi sembrano pericolosi. Degli assassini, ma stavolta sarei felice di sapermi pazza. Ti prego, dimmi che è tutta una mia paranoia».

    «Cazzo!», rispose Jeff. «Sono quelli del Reaper mc. Marie, sono tipi che non scherzano. Fa’ come dicono ma non ti ci avvicinare troppo. Qualsiasi cosa ti chiedano, tu non toccarli e non parlarci a meno che non siano loro a rivolgerti la parola per primi. Non guardarli nemmeno. Sta’ alla larga da loro. Venti minuti e sono a casa».

    «Cos’è un mc?»

    «Un motorcycle club. Stai calma, okay?». E riattaccò.

    Adesso ero davvero spaventata. Mi aspettavo che ridesse di me o che magari mi dicesse che erano dei tizi innocui a cui piaceva andare in moto e atteggiarsi da duri. Ma supposi che la realtà fosse un’altra. Corsi nella mia stanza e mi infilai una maglia larga che usavo per dormire. Mi tolsi gli short e indossai un paio di pantaloni Capri, poi raccolsi i miei lunghi capelli castano scuro in uno chignon scompigliato. Un’occhiata veloce allo specchio fu sufficiente a convincermi che mi stavo preoccupando troppo: potevano anche essere stati rudi e sfacciati con me, ma non ero la ragazza dei sogni di nessun uomo. Avevo delle macchie di sporco in faccia, il naso quasi ustionato e non so come mi ero procurata un graffio gigantesco sulla guancia. Un bel contrasto con il giallo e il viola mezzo sbiaditi del livido che Gary mi aveva procurato.

    Mi tremavano le mani mentre versavo il tè freddo in tre bicchieroni di plastica e mi domandavo se fosse il caso di metterci dello zucchero. Decisi di portarlo in una tazza con un cucchiaino. Poi incastrai due bicchieri fra il braccio destro e il torace e con la mano presi il terzo, afferrai lo zucchero con la sinistra e muovendomi con cautela riuscii a varcare la porta. Quando uscii, stavano parlando a bassa voce e mi fissavano mentre mi avvicinavo al tavolo. Mi appiccicai un sorrisone in faccia proprio come quando facevo la cameriera alle superiori.

    Potevo farcela.

    «Hai chiamato il tuo uomo?», chiese quello alto. Gli rivolsi un’occhiata dimenticandomi che dovevo evitare il suo sguardo. Aveva due occhi così profondi e verdi e penetranti…

    «Il mio uomo?», domandai.

    «Jensen».

    Cazzo, lo avevo dimenticato. Pensavano che fossi la ragazza di Jeff. Glielo dovevo dire? Non riuscivo a decidermi. Osservai il motociclista cercando di tirare fuori la risposta migliore, lui incrociò il mio sguardo senza tradire emozioni. Aveva i capelli tirati indietro in una coda di cavallo disordinata e il mento coperto da una barbetta spessa e scura. Il mio stupido corpo si rimise in allerta mentre mi chiedevo come sarebbe stato strofinare piano le mie labbra su quella barbetta.

    Forse pazzesco….

    «Ragazzina, rispondi, cazzo!», esclamò l’uomo dagli occhi azzurri. Io sobbalzai rovesciandomi del tè sulla maglietta. Mi inzuppai tutto il seno destro, chiaramente, e quando la bevanda ghiacciata lo toccò, il mio capezzolo richiamò subito l’attenzione. Gli occhi di quello alto lo seguirono facendosi più scuri.

    «Jeff sta arrivando», risposi cercando di non balbettare. «Ha detto che sarà qui tra venti minuti. Vi ho portato del tè», aggiunsi in modo del tutto insensato. Big Guy allungò la mano e prese la tazza dalla mia mano. Il che mi metteva in difficoltà perché non potevo posare i due bicchieri senza l’altra mano libera – potevo dargli lo zucchero oppure chinarmi verso di lui e posarlo sul tavolo.

    Ed ero abbastanza sicura di non volerlo fare.

    Fu lui a risolvere il problema per me, allungandosi di nuovo per prendere uno dei bicchieri che tenevo fermi contro il mio corpo. Fui scossa da brividi di ogni tipo mentre le sue dita scivolavano tra la plastica fredda e la mia pelle, e mi pietrificai quando ripeté il gesto. Poi prese lo zucchero. Mi afferrò la mano e mi tirò contro la sua coscia fino a quando arrivai quasi a toccargli il viso con lo stomaco.

    Non riuscivo a respirare.

    Mi prese il mento e mi fece girare il viso per osservare il livido. Io trattenevo il respiro, non volevo che mi facesse domande al riguardo. E non me ne fece. Portò invece la mano sulla mia vita e mi accarezzò piano la curva del fianco. Dovetti fare appello a tutto l’autocontrollo che non avevo per non chinarmi in avanti e spingergli i miei seni in faccia.

    «È stato Jensen?».

    Maledizione. Dovevo dirglielo, non potevo permettere che si pensasse che fosse stato Jeff a farmi del male. Non se lo meritava.

    «No, lui non farebbe mai una cosa del genere. Jeff è mio fratello», mi affrettai a rispondere mentre mi voltavo, rossa in faccia.

    Poi mi girai e corsi in casa.

    Loro rimasero seduti a chiacchierare e bere il loro tè fino a quando Jeff non fu di ritorno – sembrava ci avesse messo delle ore, anche se invece ce l’aveva fatta in un tempo record. A un certo punto Big Guy andò a sbirciare sotto l’asciugamano che copriva l’impasto del pane, e che rischiava di crescere in maniera spropositata se non mi fossi sbrigata a infornarlo.

    Merda.

    Ma io non sarei andata lì fuori fino a quando non se ne fossero andati – purtroppo, però, non sembravano in vena di volerlo fare. Quando Jeff, a bordo della sua vecchia Firebird, si avvicinò, rimasero tutti lì a parlare per un po’. Poi si alzarono e si diressero verso la nostra porta. Big Guy lanciò un’occhiata verso la mia finestra e, anche se sapevo che non poteva vedermi, i suoi occhi sembrarono incollarsi ai miei.

    Quando entrarono, Jeff era sorridente e sembrava rilassato. E anche gli altri. L’atmosfera era amichevole. Feci una smorfia e mi chiesi se il tono serio con cui mi aveva parlato per telefono me lo ero sognato.

    «Sorellina, i miei soci si fermeranno per cena», annunciò sfarzosamente. «Sarà meglio che tu vada a preparare il tuo pane, credo che abbia finito di lievitare. Ragazzi, vi piacerà davvero: Marie fa un pane che è una meraviglia. Vi preparerà una cena da urlo».

    Gli rivolsi un sorriso un po’ tremante, maledicendolo tra me e me. Ma che diamine? Certo, io cucinavo per lui, ma non mi andava di farlo per tutto il gruppo. Quei tizi mi facevano paura, che si mischiava a quello strano desiderio del mio corpo disobbediente di saltare addosso a Big Guy. Ma non riuscivo a pensare a una via d’uscita, non senza infrangere la nostra messinscena che non ci fosse niente di strano in tre inquietanti motociclisti saltati fuori dal nulla.

    Non solo: il pane si sarebbe rovinato, se non mi fossi sbrigata a cuocerlo. Il sugo per gli spaghetti gorgogliava sul fuoco e aveva un profumo spettacolare. Non potevo nemmeno dire che faceva troppo caldo per accendere il forno, dal momento che avevamo un paio di quei piccoli condizionatori da finestra che sbuffavano come i trenini disegnati dai bambini, quindi dentro si stava abbastanza bene.

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