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Mi ami davvero
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E-book454 pagine6 ore

Mi ami davvero

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Info su questo ebook

Ho imparato a uccidere. E adesso la violenza scorre nelle mie vene. Ho pensato di poter nascondere con i tatuaggi il mostro che vedo quando mi guardo allo specchio, ma mi sbagliavo. Non riesco a impedire che esca allo scoperto.
Il mio soprannome è Mercy, ma non ho pietà per nessuno. Eppure, Becca è riuscita a far scattare qualcosa dentro di me. La guardo da lontano, e lei neppure lo sa. È per merito suo se sono ancora vivo. Il suo coraggio, però, l'ha trasformata in un bersaglio. E mio padre, l'uomo più pericoloso che abbia mai conosciuto, vuole ucciderla. La vita di Becca, adesso, è nelle mani di un mostro. Perché sono l'unico in grado di proteggerla.

Debra Anastasia
Adora inventare nuovi personaggi da descrivere nei suoi romanzi. Ha una laurea in Scienze Politiche ed è autrice di numerosi libri new adult e romance di successo. Vive nel Maryland con suo marito e due fantastici figli.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2019
ISBN9788822731333
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    Anteprima del libro

    Mi ami davvero - Debra Anastasia

    2276

    Titolo originale: Mercy

    Copyright © 2013 by Debra Anastasia

    All right reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Elena Lombardi

    Prima edizione ebook: Maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l.

    ISBN 978-88-227-3133-3

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Debra Anastasia

    Mi ami davvero

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    1

    Superoe

    Fenix

    «T ieni queste uova».

    Mio padre mi passò il contenitore bianco. Nella corsia del supermercato faceva freddo. Io avevo freddo. Mi tremavano le mani.

    «Non far cadere le uova, mi raccomando». La sua voce era minacciosa, come tutto ciò che lo riguardava, del resto.

    Alla fine l’aveva fatto. Aveva ucciso mia madre. La notte precedente. Quella mattina.

    Eravamo al supermercato perché ci serviva del cibo. Mia sorella era a casa della zia, meglio così.

    Perché la mamma era morta.

    Mi tremarono le mani ancora di più. Le fissavo e con la forza di volontà cercavo di farle smettere. Le pregavo di fermarsi.

    Mamma tremava prima di morire. pensavo a quell’immagine di continuo. Lì nel supermercato. Nella mia testa. Avevo le mani pulite adesso, ma papà me le aveva lavate per bene prima di farmi salire sul furgone.

    Per andare lì. A fare la spesa.

    Avevo mal di stomaco.

    Mamma aveva cercato di preparare la cena. Alla fine tutto il cibo del frigorifero era stato scaraventato in giro per la cucina.

    Lo scricchiolio del contenitore di polistirolo delle uova mi tradì. Lui mi guardava. Era sempre più arrabbiato.

    Mamma non c’era più. Per intervenire. Per fermarlo quando si arrabbiava.

    «Smettila di tremare, Fenix Churchkey».

    Era il sussurro dell’uomo più terrificante del mondo. Cercai di tendere tutti i muscoli. Non faceva differenza. Forse era anche peggio.

    «Sei un ragazzo d’oro, Nix. Ti voglio tanto bene. Ricordatelo».

    Mamma. Non c’era più.

    Osservai con orrore la confezione scivolarmi dalle mani e atterrare sul pavimento. Le uova all’interno produssero un rumore rivoltante.

    Mamma tremava prima di morire.

    Prima che lui la uccidesse.

    Lo guardai negli occhi, sapendo che avrebbe ucciso anche me. Non lì. Quasi certamente non lì.

    Gli piaceva essere riservato. Gli piacevano le porte chiuse.

    Sapevo di non dover fiatare quando mi prese con forza per il braccio. Forse un giorno me lo avrebbe stretto fino a spezzarmi le ossa.

    Iniziai mentalmente a contare le automobiline giocattolo. Era il mio modo per rimanere in silenzio. In una scatola sotto il mio letto c’erano tre automobiline. Quella sportiva rossa. Il furgoncino blu. E la jeep, la mia preferita. Era viola e…

    «Che ti avevo detto?».

    Aveva la bocca vicina al mio orecchio. Gli puzzava l’alito. Puzzava di sudore.

    Adesso mamma non c’era più.

    Almeno mia sorella era a casa della zia. Era solo una bambina.

    Papà mi prese per l’altro braccio, strizzandolo nella sua morsa.

    Sentii le lacrime inumidirmi gli occhi.

    Piangere peggiorava sempre le cose.

    Mi avrebbe spezzato le braccia. Tutte e due.

    «Ehi, tu! Lascia stare quel bambino».

    Sentii un brivido lungo la spina dorsale. Eravamo riservati. Ci piacevano le porte chiuse. Nessuno doveva sapere.

    «Ho detto lascialo! Sei più grosso di lui. Lascialo andare. È un bravo bambino».

    Era una ragazzina. Come me. Lei gli mise la mano sul braccio e lo spinse via. Rimasi senza parole. Sbalordito.

    Indossava due calzini diversi e aveva un’aureola gigante di riccioli. Portava una borsetta luccicante con dentro un cane di peluche e un mazzetto di buoni sconto. Da una tasca spuntava un taccuino con sopra lo scarabocchio di un gatto.

    Papà mi tolse una mano dal braccio e la sollevò. Stava per dare un ceffone alla bambina. Lo bloccai con la mano.

    In quel momento vidi la mia morte nei suoi occhi. Nessuno doveva mettersi contro di lui.

    Mai.

    Mamma non c’era più.

    La bambina non si mosse di un millimetro.

    Anni dopo avrei capito che non l’avevano mai picchiata in vita sua. Ma non adesso. Adesso era un supereroe.

    «Non si picchiano i bambini. È sbagliato». Guardò la mano che mi stringeva ancora il braccio.

    «Vattene, ragazzina. Prima che cambi idea». Papà si pulì la bocca con il dorso della mano con cui poco prima stava per schiaffeggiarla.

    Autocontrollo.

    Per questa bambina era riuscito a trovarlo.

    Lei aggrottò le sopracciglia e lo guardò spazientita.

    Spalancai la bocca.

    Poi la ragazzina si girò verso di me. Mi guardò con i suoi occhi azzurri. Mi guardò dentro. «Stai bene?».

    Vedere un tale disprezzo nei confronti di ciò che mio padre era capace di fare, di ciò che pretendeva da mia madre e da me, era come essere colpito da un’onda in pieno petto.

    Sentii un sibilo di avvertimento da parte di papà. Questa bambina era il sole sull’orizzonte oscuro. Il buio che diventava luce.

    Annuii. Stavo bene. Stavamo sempre bene.

    Mamma non c’era più.

    «Devi lasciargli il braccio».

    La bambina mi indicava. Sapevo cosa stava guardando. Le dita di papà che affondavano nella mia carne come i denti di una tigre. Avevo un sacco di lividi su tutto il corpo che avevano la forma delle mani di mio padre. Purtroppo la maglietta non era abbastanza lunga da coprire quel nuovo livido. L’indomani avrei dovuto metterne una a maniche lunghe. Se ci fossi arrivato all’indomani.

    «Ti ho detto di sparire. E fatti gli affari tuoi, porca miseria».

    La bambina spalancò gli occhi quando lui disse «porca miseria». Se solo avesse saputo.

    Avrei voluto che sapesse.

    Lo guardò con rancore. «Sei un uomo cattivo».

    Le vene del collo di mio padre pulsavano.

    Ora la bambina era in pericolo. Sapevo che avrei dovuto proteggerla, ma per un momento non ero più solo. Potevo respirare e ne avevo così tanto bisogno.

    «Stai per scoprire quanto posso essere cattivo».

    Era un ringhio cavernoso. La voce che usava in casa, dietro le porte chiuse. Era la voce da cui non sarei mai potuto fuggire. L’ultima voce che mia madre aveva sentito.

    Mamma non c’era più.

    «Vuoi farmi paura, ma io non mi spavento facilmente. Dormo nel letto da sola, senza la lucina da notte, al buio».

    Alzò il mento contro mio padre, come un pugile che sta per sferrare il primo colpo.

    «Papà, andiamo». Lo dissi per lei. Di solito non parlavo, non da quando la voce di mio padre si era fatta strada in me e mi aveva fatto a pezzi l’anima. Ma non volevo che la luce negli occhi di quella bambina si spegnesse.

    Non sapevo cosa fosse l’anima finché non avevo visto mia madre andarsene la notte precedente. Era quella luce negli occhi.

    «Rebecca Dixie Stiles!».

    La bambina si voltò di scatto. Doveva chiamarsi Rebecca.

    «Sono qui, papà! Ho bisogno di aiuto!». Incrociò le braccia sul petto.

    Notai un muscolo sulla mascella di mio padre che si contraeva leggermente.

    Non disse altro. Abbandonò la spesa sul pavimento vicino alla confezione delle uova e mi trascinò via.

    Mi girai a guardare la bambina. Stava facendo cenni a suo padre, che non riuscii a vedere. «Papà! È quel signore! Aspettate!».

    Frugò dietro al cane di peluche nella borsetta luccicante e ci corse dietro. Mi porse un lecca-lecca. Sopra c’era scritto «Abbracciami». Me lo infilai in tasca.

    Allora Rebecca mi guardò dritto negli occhi. «Stai bene. Va bene? Stai bene».

    Annuii.

    Solo che non successe il giorno stesso.

    O quello dopo.

    O quello dopo.

    2

    Appuntamenti

    Becca

    Quindici anni dopo

    All’inizio era difficile rimanere impassibile quando Henry parlava del suo fidanzato, Vinny Verga. Ma adesso mi veniva naturale. Hendrix Lemon lavorava come barista e cameriera con me al Meme. Era un bar vagamente ispirato ai meme più divertenti di Internet. Per lo più era decorato con immagini prese da Internet appese alle pareti. E naturalmente, alle cameriere erano richiesti vestiti succinti.

    Henry aveva incontrato l’uomo perfetto e lui aveva deciso di non farsela sfuggire. Non lo biasimavo. Henry aveva un corpo da paura e i capelli e le labbra… be’, era una delle attrazioni del bar. Poco ma sicuro.

    Henry adesso viveva con Vinny, e io avevo perso la mia complice di così tante battute di caccia al fidanzato.

    «Vinny dice che questo fine settimana ci tocca fare dei lavori al pronto soccorso per animali, quindi dobbiamo rimandare la nostra giornata di relax tra donne».

    Henry poteva vestirsi normalmente al lavoro perché l’anno precedente era diventata famosa con un video virale su Internet. Io invece dovevo soddisfare la perversione che il proprietario aveva per Bubble Gum Girl, un meme praticamente sconosciuto. Portavo i capelli legati in due codine, un reggiseno rosa e gli shorts bianchi e argento. Ai piedi avevo una specie di anfibi sexy con i tacchi alti. Dovevo spruzzarmi di profumo al gusto di gomma da masticare più o meno ogni ora. Non c’era niente di peggio del fare la cameriera sui tacchi alti. Quello, e i mille modi diversi che i ragazzi ubriachi trovavano per palparmi la pelle nuda.

    Pulii l’ultimo tavolo prima dell’apertura e feci il broncio a Henry. Era davvero deprimente.

    «Scusa. Mi farò perdonare, al più presto». Henry stese le braccia per farsi abbracciare e concluse dandomi una sonora sculacciata sul sedere. «Tieni duro, Becs».

    Arrotolai lo strofinaccio e le diedi un colpo secco di frusta sulla tasca posteriore dei jeans. Da come si allontanò saltellando, capii di aver fatto centro.

    Henry stava al bancone quella sera. Ero invidiosa, perché là dietro potevo mettermi le Crocs, che erano molto più comode dei miei anfibi a tacco alto.

    «C’è un messaggio di tua madre!». Henry mi mostrò il mio telefono.

    «Che dice?», le gridai mentre andavo ad aprire la porta.

    «Oh, merda».

    Accesi l’insegna al neon che diceva Aperto prima di girarmi a vedere perché Henry stesse imprecando.

    «Tua mamma ti ha combinato un altro appuntamento».

    «Oh, merda», le feci eco. «Quando?»

    «Viene qui stasera», disse Henry con una smorfia.

    Eravamo entrambe sconsolate. Non era la prima volta.

    Mi appollaiai su uno sgabello al bancone. Henry mi passò il telefono.

    Scorsi i quindici messaggi inviati da Mostro-Madre. Mi aveva trovato un altro ragazzo, che novità. Trovare un marito che si prendesse cura di ogni mio bisogno era la sua unica ragione di vita.

    Sapevo che era il suo modo di volermi bene. Da qualche parte nel profondo, mia madre stava solo cercando di darmi una vita perfetta. Secondo la sua concezione personale di vita perfetta, ovviamente.

    Sospirai e rimasi con le spalle curve sullo sgabello.

    Dentro di me sentii la voce di mia madre che mi diceva di stare dritta con la schiena e tenere le tette in fuori. Perché agli uomini piacciono le tette. E con le tette si rimediano ottimi mariti.

    Mi rattrappii ancora di più.

    Mamma aveva incontrato un ragazzo nel garage in cui andava a cambiare l’olio alla bmw e me lo avrebbe mandato al bar quella sera.

    Alcune madri non avrebbero mai e poi mai voluto vedere le proprie figlie in pubblico con l’abbigliamento che indossavo al bar. Per mia madre invece, era un’esca per mariti. Vestire sexy era sempre una buona idea.

    Perché accaparrarsi un marito era la cosa più importante. Non contava se ti tradiva. Se ti ignorava. Se aveva rubriche piene di nomi di trombamiche. Con un marito eri a posto.

    Henry mi toccò il braccio. «Mi spiace, tesoro. Lo so che non lo sopporti».

    Le passai il telefono sul bancone e Henry lo mise via insieme alle nostre borse. Non avevo tasche e il proprietario non approvava l’uso del telefono durante i turni.

    «Aspetta, ce n’è un altro. È una foto. Wow». Henry alzò un sopracciglio e picchiettò sullo schermo del telefono.

    La foto veniva chiaramente da un profilo social. Alton Dragsmith era molto attraente. Teneva in braccio un cerbiatto, perciò per Henry era fatta. Non sapeva resistere ai cuccioli batuffolosi di ogni genere.

    Aveva il mento pronunciato e occhi azzurri vivaci. Indossava una bandana come un escursionista che adorava fare escursioni durante un’escursione (ovviamente). Dallo sfondo sembrava che fosse sulla cima di una montagna.

    «Alton è uno schianto». Scrollò le spalle, come per scusarsi di aver detto una cosa tanto ovvia.

    Le restituii il telefono. «L’apparenza inganna. Tu ad esempio vai a letto tutti i giorni con il serial killer della città». Henry sbuffò e io le feci l’occhiolino.

    Vinny Verga aveva una certa reputazione prima di mettersi con Henry. All’epoca non avevamo capito che in realtà era una brava persona. Mi piaceva ancora prenderla in giro ogni tanto. Vinny ci aveva insegnato a guardare più a fondo prima di giudicare la gente.

    «Va bene. E se magari questo tipo non fosse il peggiore del mondo?».

    La porta d’ingresso si aprì e lanciai a Henry un’occhiata disgustata mentre scendevo dallo sgabello. Mia madre aveva un talento speciale per trovare i tipi più strambi e fuori di testa e organizzarmi appuntamenti con loro.

    Portai i menu ai primi clienti, presi le ordinazioni e le portai a Henry.

    Continuò la conversazione come se non ci fossimo mai interrotte.

    «Quindi, magari questo è diverso».

    Tamburellai con le dita sul bancone mentre aspettavo le bevande da mettere sul vassoio.

    «È che non voglio un tipo qualunque, ok? Voglio sentire il vero amore che mi batte forte nel petto». Il ghiaccio tintinnò nel bicchiere mentre appoggiavo il cuba libre sul vassoio.

    «E nella vagina». Henry fece ballonzolare le tette verso di me. Le risposi allo stesso modo, senza versare neanche una goccia dai bicchieri.

    «Le tue capacità da baldraccameriera sono incredibili». Henry mise l’ultimo bicchiere sul vassoio.

    «So fare cose che neanche immagini». Portai i bicchieri al tavolo e a quel punto i clienti erano pronti per gli antipasti. Avevo appena finito di prendere l’ordine, quando la porta d’ingresso si aprì. Alton Dragsmith entrò nel bar e si guardò intorno. Poi mi vide. Aveva un sorriso smagliante e una fossetta sul mento. Era veramente bellissimo, ma non sentii niente. Niente di niente se non terrore. Il ciclo stava per ripetersi. Mostro-Madre avrebbe insistito fino alla noia. Io avrei fatto del mio meglio ma l’avrei comunque delusa perché, per l’ennesima volta, non sarei riuscita ad acchiappare un marito da vissero felici e contenti.

    3

    Sorpresa

    Fenix

    Ero legato a una sedia di metallo in una stanza senza finestre con cinque uomini arrabbiati. Quella sera gli avevo fatto già provare tutte le emozioni della ruota della fortuna psicologica.

    Erano trionfanti perché mi avevano preso, perché io ero imprendibile. Cavolo, ero addirittura un mito. Per anni avevo cercato di creare il mistero intorno a me. Mi mostravo così di rado che avrei potuto essere una leggenda.

    «Guarda che cazzo di faccia. Dio. Quante ore ci hai messo a farteli, Mercy?». Il tizio mi prese per il mento. Gli feci un sorrisetto per farlo incazzare ancora di più.

    «Che razza di maniaco si fa una cosa del genere?».

    Erano confusi, disgustati… e adesso erano furiosi.

    Mi avrebbero ucciso non appena il loro capo avesse finito con me. O così credevano. Mi avevano perquisito, non ero armato.

    Feci una risatina e il tizio più vicino mi diede uno schiaffo. Quel colpo era la mia occasione. Ero abituato al dolore e potevo sopportare molto più di quanto loro me ne potessero infliggere.

    Mi morsi la lingua e usai i denti per far uscire il piccolo ago che ci avevo infilato prima di essere catturato. L’unico segno visibile era un piccolo segno rosso nel punto in cui l’avevo inserito. Dopo aver liberato l’ago, gli spezzai la punta. Non dovevo lasciar cadere neanche una goccia del veleno che conteneva, se volevo rimanere vivo.

    Sputai l’ago in faccia al rapitore e lo colpii proprio sotto l’occhio destro. L’ago era così sottile che lui per un istante non si rese conto di cosa fosse successo. Nel tempo che il veleno impiegava a diffondersi, mi liberai dalle corde, grazie alle mie articolazioni. La reazione alla sua condanna a morte fu immediata. Nel giro di pochi istanti era in preda alle convulsioni e schiumava dalla bocca.

    L’effetto sorpresa era un diversivo meraviglioso. Prima che il tizio avvelenato esalasse il suo ultimo respiro strozzato, avevo messo al tappeto tutti gli altri. Non li guardavo mai in faccia dopo che erano morti. Era un’abitudine, una tecnica per impedirmi di ricordare. Perché gli occhi di mia madre dopo che mio padre l’aveva ammazzata li ricordavo bene. Il suo sguardo impietrito. Allontanai quei pensieri e mi guardai intorno.

    La porta della stanza era aperta. Non l’avevano bloccata, considerato che ero solo contro tanti. Vidi che c’erano delle telecamere agli angoli della stanza, me ne sarei occupato più tardi.

    Adesso dovevo finire il lavoro.

    C’era una bambina lì dentro. L’avevano rapita per forzare la restituzione di una larga somma di denaro.

    Prima di arrivare avevo studiato le planimetrie e imparato a memoria la struttura della casa. Non accesi le luci. Non volevo lasciare una scia luminosa per chi sarebbe venuto a darmi la caccia.

    La quarta porta a sinistra, scale, altre quattro porte, poi sfondai la quinta con un calcio.

    Sentii un piagnucolio mentre tendevo le orecchie per cogliere eventuali rumori di passi in avvicinamento. Non avevo armi con me, se non il mio bisogno disperato di salvare qualcuno. E quella sera era la piccola Christina.

    Avevo letto il suo profilo attentamente prima di accettare il lavoro. Era la nipotina di un gangster locale. Non era colpa sua. Aveva sette anni ed era più interessata ai My Little Pony che ai soldi.

    Sapevo che il mio viso l’avrebbe spaventata, perciò chiusi la zip del cappuccio della felpa. Mi copriva. Poi mi aprii la camicia per mostrarle la mia maglietta dei My Little Pony.

    Indicai la maglietta. «Ciao Christina. Vuoi venire con me? Ti riporto da mamma e papà».

    Era un fagottino sul letto nella stanza buia. Trovai l’interruttore e accesi la luce. Christina aveva occhioni castani disperati e capelli biondo paglia. Tremava. Indicai la maglietta.

    «Questo è il mio preferito. Twinkle Sparapuzze». Parlare con un tizio coperto da un cappuccio di tessuto a rete doveva essere come un incubo per lei. Usai la battuta che le faceva sempre il padre per metterla a suo agio. Sarebbe stato più facile che portarla via scalciante e in lacrime.

    Come d’istinto, rispose: «Non è Twinkle Sparapuzze. Si chiama Twilight Sparkle».

    «Mi dispiace che ti abbiano chiusa qui dentro, vorrei portarti via. Vuoi venire con me?».

    Lessi tutte le raccomandazioni dei genitori nei suoi occhi terrorizzati. Non andare con gli sconosciuti. Non parlare con gente strana. Eccetera.

    Indicai di nuovo la figura sulla maglietta. «Non abbiamo tanto tempo, principessa. Vieni con me?».

    Mi tolsi un guanto e le porsi la mano. Non volevo che le finisse addosso il veleno che potevo aver toccato accidentalmente.

    Indicò la mia mano tatuata. «Sei uno scheletro?».

    Scossi la testa. «È solo un tatuaggio. Per spaventare i cattivi. Ma tu non sei cattiva».

    A quanto pare era una buona risposta. Christina scese dal letto. La stanza era vuota, la finestra era stata murata. Sentii di nuovo la determinazione che mi ribolliva dentro. Per lei. Dovevo salvarla.

    Christina mi prese per mano e io la portai fuori dalla stanza. Il corridoio era buio e le sue piccole dita si strinsero intorno alle mie.

    Sapevo che non le piaceva il buio. Sapevo anche che se avessi guardato sotto la sua camicia da notte, avrei trovato le cicatrici di cinque operazioni alla spina dorsale che aveva subito pur essendo così piccola.

    Era positivo che camminasse da sola, voleva dire che i rapitori non l’avevano ferita. Oppure, se le avevano fatto del male, stava sopportando quel dolore atroce pur di fuggire con me.

    Sentii un grido d’allarme da qualche parte in casa.

    Non avevamo molto tempo a nostra disposizione. Mi inginocchiai.

    «Scusa piccola, posso portarti io? Dobbiamo fare in fretta».

    La bambina mi toccò il viso attraverso il tessuto del cappuccio. «Sei una brava persona, vero?».

    Deglutii e feci cenno di sì.

    «Puoi portarmi». Christina tese le braccia.

    La presi con tutta la delicatezza possibile. Mi stringeva forte le braccia al collo, lo presi come un buon segno per la sua spina dorsale.

    «Nascondi la testa e non aprire gli occhi, va bene?». Stavo già pianificando la fuga. Il modo migliore per non metterla in pericolo era uscire dal garage. Avrei preferito saltare dalla finestra, ma non con lei tra le braccia.

    Sentivo il suo fiato caldo sul petto, stava più vicino possibile al pony sulla mia maglietta. Aprii la zip del cappuccio per avere la visuale libera.

    Mi scansai sentendo l’aria vibrare intorno al mio orecchio. Il pugno mi passò sopra la testa. Con un movimento rapido colpii l’uomo alla gola. Mentre si teneva il collo, gli presi la pistola di mano, il dolore gli stava facendo allentare la presa.

    La pistola aveva un silenziatore. La usai per ucciderlo. Sentii le braccia di Christina che si stringevano più forte intorno al mio collo.

    Le sussurrai all’orecchio: «Andrà tutto bene. Tieni gli occhi chiusi e fai finta che sia solo un sogno».

    Uccisi altri due uomini prima di arrivare al garage. Scavalcai i cadaveri, continuando a ripetere a Christina con tono tranquillo che eravamo vicini all’uscita. Le chiesi di dirmi i nomi di tutti i suoi pony preferiti.

    Arrivai al vialetto e mi inoltrai nei boschi che circondavano la zona. Ancora non eravamo totalmente fuori pericolo. Si accesero le luci tutto intorno e comparirono dei suv neri. Uomini in nero con le mitragliatrici si riversavano fuori dalla casa.

    Iniziai a cantarle dolcemente la canzone dei My Little Pony nell’orecchio. Non volevo che piangesse. L’avevo imparata mentre stavo andando a salvarla. Ma la piccola era una dura, così aveva detto suo padre.

    Dalle mie ricerche, avevo capito che i suoi genitori non avevano alcun legame con il gruppo mafioso del nonno. Probabilmente erano solo pedine coinvolte in una lotta che non li riguardava.

    Ma per Christina sarei andato comunque.

    Per i bambini avevo il cuore tenero.

    Christina iniziò a cantare sottovoce con me. La sua voce contro il mio petto. Per il pony, probabilmente.

    Mi si scioglieva il cuore.

    Avrei ucciso qualunque uomo mi fossi trovato davanti pur di riportarla alla madre quella notte. Per mettere fine a quell’incubo.

    Con la mia maglietta bianca e i capelli biondi di Christina eravamo troppo visibili al buio. Non volevo toglierle il pony, perciò avrei dovuto muovermi più velocemente possibile.

    «Come va la schiena?», le chiesi dopo aver finito di cantare la canzone.

    «Bene». Alzò lo sguardo e vide la mia faccia scoperta.

    Mi aspettavo che urlasse.

    Con la punta delle dita toccò i denti tatuati vicino alla mia bocca. «Gli scheletri sono supereroi?»

    «Certo». Ero quanto di più lontano da un supereroe, ma lo sarei stato per lei se era ciò di cui aveva bisogno.

    «Grazie». Christina mi appoggiò di nuovo la testa sul petto.

    Stavo in allerta per cogliere nell’oscurità eventuali rumori di rami spezzati intorno a noi.

    Quando arrivammo alla mia motocicletta, non persi tempo con i caschi.

    «Laggiù!». Le grida ci stavano raggiungendo.

    Non c’era più tempo, saltai in sella. «Tieniti più forte che puoi».

    Partii, senza più preoccuparmi di rimanere nascosto. Dovevo correre. E la mia moto era sempre la più veloce in strada. Ogni singola parte, tranne gli specchietti, era verniciata di nero opaco, in modo da non riflettere la luce.

    Mi servivano tutte e due le mani per andare a quella velocità.

    Christina mi stava aggrappata come una scimmietta. Ero preoccupato per lei, ma non potevo pensare alla sua schiena adesso. Viaggiavamo a centodieci chilometri orari senza casco, ma avevamo alle calcagna dei gangster che volevano ucciderci, quindi non c’era altro da fare.

    Dovevo portarla nel territorio del nonno, dove i suoi scagnozzi ci avrebbero difeso.

    Sterzai bruscamente per uscire dalla strada principale e spensi i fari. Girovagai a caso in una zona residenziale, poi mi nascosi in un garage aperto per qualche minuto. Controllai che Christina stesse bene, era spaventata ma respirava ancora. Aspettai ancora qualche minuto, ma in strada era tutto tranquillo.

    Feci scendere Christina e mi tolsi la felpa. La diedi a lei perché non sentisse freddo e poi forzai la porta di casa. Mi aspettavo un allarme. Niente.

    Una volta entrati, andammo in punta di piedi nello studio. C’era un computer acceso, così mandai un messaggio al nonno. Gli comunicai il nostro indirizzo, che era scritto sulle bollette sulla scrivania.

    Avevamo poco tempo prima di dover scappare, perciò entrai rozzamente nel sistema delle telecamere di sicurezza dopo aver criptato l’indirizzo ip del computer. Le povere persone a cui avevamo violato casa non dovevano essere coinvolte in quella guerra. Feci sparire ogni nostra traccia.

    Christina e io eravamo di nuovo in moto quando arrivò la scorta mandata da suo nonno.

    La piccola insisteva perché la portassi io a casa, osservando con sguardo terrorizzato gli scagnozzi del nonno. Agli occhi di una bambina, dovevano somigliare molto ai tipi a cui eravamo appena sfuggiti.

    Gli scagnozzi mi fissavano il viso, ma non volevo togliere la felpa a Christina. Decisi di accompagnarla in un suv mentre uno degli uomini della scorta ci seguiva con la mia moto. La feci sedere sul sedile anteriore, perché il vetro del suv era oscurato. Si addormentò nel giro di pochi minuti.

    Quando arrivammo a casa, la madre svegliò la piccola aggrappandosi alla maniglia della portiera, mentre io cercavo il pulsante per sbloccarla.

    «Piccola mia! Piccola mia!».

    Abbassai lo sguardo perché la disperazione nella sua voce mi riportava alla mente ricordi che non volevo rivivere.

    C’era un giubbotto sul sedile alle spalle di Christina.

    Lo indossai mentre il padre prendeva in braccio la bambina. Gli unici rumori della notte adesso erano pianti di gioia e sospiri di sollievo. Mi tirai su il cappuccio del giubbotto prima di scendere dal suv.

    La madre stava gridando con forza contro gli scagnozzi del nonno. «Andatevene. Sparite. Come osate? Come osate?».

    Forse era fuori di sé per la mancanza di sonno, ma non la biasimavo. La sua bambina era circondata da assassini.

    Incluso io.

    Christina mi indicò. «Lui è buono». Mi sentii tremare le ginocchia per un istante. Mi guardai i piedi. Non ero per niente buono. Mi aveva appena ricordato un’altra bambina tanto tempo prima.

    «Allora lui può restare. Ma voi altri andatevene prima che chiami la polizia». Era furiosa.

    Non volevo essere parte di questa tragedia familiare, e

    speravo che fosse finita per Christina. Che avesse un futuro sereno.

    Uno degli scagnozzi mi si avvicinò, io lo guardai dal profondo del cappuccio.

    «Quello è il mio giubbotto».

    Non dissi niente.

    «Ok. Adesso è tuo, suppongo».

    Inclinai la testa di lato.

    «Certo che è tuo. Ottimo lavoro, Mercy. Dio mio. Devi andartene al più presto o il capo non ti paga. Dice che sei la persona più spaventosa che abbia mai incontrato».

    Rimasi in silenzio. Mi piaceva. Meno parlavo, più immaginavano. Avevo fatto il mio lavoro. Un lavoro impossibile.

    Il nonno mi aveva promesso dei favori in cambio della restituzione della sua nipotina al figlio e alla nuora. Avevo rifiutato. Volevo denaro. Solo denaro. Non volevo legarmi a nessuno di quegli stronzi.

    E volevo salvare Christina.

    Christina mi si avvicinò e la abbracciai teneramente, facendo attenzione alla sua schiena. Le dissi nell’orecchio che poteva dormire al buio perché non avrei permesso che le accadesse più niente di brutto.

    E le feci anche i nomi delle altre ragazze su cui vegliavo, perché la mia sanità mentale dipendeva da loro.

    Mia sorella Ember. Rebecca Dixie Stiles. E ora Christina Feybi.

    Ma Christina era l’unica delle tre a saperlo.

    4

    Tette libere

    Becca

    Togliermi il push-up dopo una nottata di lavoro era ogni volta un orgasmo.

    Me lo sfilavo dalla manica della camicetta rosa ancor prima di aver chiuso la porta a chiave.

    «Oh, che meraviglia. Bentornate, ragazze». Mi massaggiai le tette, mentre calciavo via gli anfibi. Il sinistro scivolò fino in cucina, il destro finì accanto al divano.

    Erano le tre. Ero abituata a lavorare fino a tardi la notte, cosa che mi aveva regalato abitudini curiose.

    Come farsi una bella insalata con tanto avocado mentre il resto del condominio dormiva.

    Un messaggio di Henry mi fece interrompere mentre tagliavo le carote.

    Te la sei svignata.

    Ridacchiai e risposi:

    Hai fatto sesso prima di mandarmi questo messaggio, o sbaglio?

    Il messaggio seguente era accompagnato da una faccina sorridente.

    Ovvio.

    Mostrai il dito medio al telefono. Magari stessi facendo sesso io.

    Henry scrisse di nuovo.

    Allora, com’era Alton?

    Guardai lo schermo a lungo. Allora, com’era Alton?. Non abbastanza carino da portarlo a casa per farci sesso. Lo dissi a Henry in un vocale e poi aggiunsi:

    Alton era carino. Gentile. Cercava di fare colpo. Troppi complimenti tutti insieme. Esagerato.

    Me lo aspettavo. I vestiti che indossavo per guadagnarmi da vivere erano studiati per far aprire i portafogli e indurire gli uccelli.

    Ma questo tipo, mandato da mia madre, mi ricordava solo che non ero alla sua altezza. Lei si era sposata a vent’anni. A ventuno era incinta di me.

    Quella era la cartina tornasole di mia madre.

    La mia laurea in Lettere era stata una completa perdita di tempo, perché non mi ero ritrovata con un anello al dito prima della tesi.

    I college erano la miglior piazza per trovare carne da marito.

    «Acchiappali finché sei giovane, così potrai scegliere il meglio del meglio».

    Io avevo la lingua tagliente e una vagina progressista, sapevo di non aver bisogno di uomini per trovare la mia identità.

    Ero anche la bambina con le bruciature sulle orecchie perché mia mamma usava un ferro per capelli per farmi le sue acconciature perfette.

    Quella bambina voleva la felicità della madre. E la felicità era presto definita: giovane, bella, fidanzata.

    Lentamente, col passare degli anni, l’espressione affettuosa di mia madre si trasformò in uno sguardo giudicante. La consapevolezza di quella trasformazione era alla base di ciò che ero diventata.

    Ero tutto ciò che aveva.

    Quando papà l’aveva lasciata per una donna più giovane, mia madre era disperata e si confidava con la figlia di otto anni ben più di quanto avrebbe dovuto.

    E papà non aveva lasciato solo lei. Si era fatto una nuova famiglia, ma io non ero più la benvenuta a casa sua, con la nuova moglie e la mia sorellastra.

    Allora l’idea che potessimo essere persone sgradevoli si impadronì di mia madre. Ero abbastanza grande da capire che ero tutto ciò che le rimaneva e abbastanza giovane da pensare di poter riempire quel vuoto.

    Si aggrappava ancora a me in quel modo. Dopo tanti anni. Quando cercavo di ignorare i suoi appuntamenti combinati o i commenti sul mio abbigliamento o sul trucco, scivolava in una sorta di tristezza.

    Era perennemente a dieta, in modo da poter essere favolosa nel vestito che avrebbe indossato al mio matrimonio, che era già nel suo armadio. Un matrimonio a cui non stavo minimamente pensando.

    Men che meno con l’affascinante Alton.

    La mattina seguente, dopo la lezione di yoga Bikram, mamma mi avrebbe mandato qualche messaggio e alla fine mi avrebbe chiamata per sapere tutti i dettagli sull’appuntamento.

    Alton aveva una statura notevole, cosa che mandava in subbuglio mia madre. Altezza era sinonimo di successo. I migliori mariti erano alti. E, lavorando in una concessionaria bmw, avanzava di altre caselle nel gioco dell’oca dei possibili pretendenti.

    Mi afflosciai sulla sedia.

    Come se avesse percepito la depressione in arrivo a chilometri di distanza, Henry mi mandò un altro messaggio.

    Stai mangiando?

    Le scrissi al volo.

    Sì.

    Subito la risposta.

    Vuoi fare una videochiamata e guardare Suicide Squad insieme?

    Di nuovo:

    Sì.

    Mi collegai con Henry, che stava mangiando un piattone di pancake. Vinny

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