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Un giorno di sole a Parigi
Un giorno di sole a Parigi
Un giorno di sole a Parigi
E-book401 pagine5 ore

Un giorno di sole a Parigi

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Un tè con biscotti a Tokyo

Avere quattro fratelli maggiori non sempre è un vantaggio. Nina Hadley per tutta la vita si è sentita amata e protetta dalla sua grande e rumorosa famiglia, ma ormai non è più una bambina, e non ne può più di avere costantemente accanto qualcuno che le dice cosa fare. Per questo, quando riceve una straordinaria offerta di lavoro a Parigi, non ci pensa due volte e accetta con entusiasmo! Per i successivi mesi dovrà aiutare a gestire un corso per pasticceri. Praticamente il lavoro dei suoi sogni. C’è solo
un problema: il proprietario della pasticceria è Sebastian Finlay, il migliore amico di suo fratello Nick… nonché l’uomo per cui Nina ha una cotta sin da quando era piccola. I pasticcini deliziosi e gli incantevoli macaron sono una tentazione da nulla in confronto al fascino irresistibile di Sebastian. Ma Nina ha deciso: non può permettersi distrazioni, deve concentrarsi sul lavoro e avere in mente solo le cose importanti. Anche se diventa ogni giorno più difficile…

Un’autrice da oltre 80.000 copie
Subito ai vertici delle classifiche

«Un delizioso romanzo dal sapore di macaron per chi ha voglia di perdersi tra le viuzze di Parigi e nell’attesa di poterlo fare davvero, si gode un viaggio tra le pagine di questo libro.»
Anna Premoli

«Dolce e romantico come il titolo. Macaron e Tour Eiffel fanno innamorare.»
Felicia Kingsley

«Irresistibile!»
Katie Fforde

«Una gioia da leggere. Fa venire l’acquolina in bocca!»

«Un libro che coccola. Viene voglia di correre a infornare qualcosa di dolce!»
Julie Caplin
È una scrittrice bestseller inglese. È stata finalista nel 2019 al famoso premio Romantic Novelists’ Association. La Newton Compton ha già pubblicato con grande successo Un tè con biscotti a Tokyo, e Un giorno di sole a Parigi.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2021
ISBN9788822754639
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    Anteprima del libro

    Un giorno di sole a Parigi - Julie Caplin

    Capitolo 1

    Pestando i piedi stanchi e doloranti nel tentativo di riscaldarli un po’, Nina guardò il cellulare per la novantacinquesima volta nel giro di dieci minuti e per poco non lo scagliò via. Dove diavolo era finito Nick? Era già in ritardo di un quarto d’ora e lei ormai aveva le dita così intirizzite che sembravano sul punto di spezzarsi, peggiorando la sua condizione già infelice. Davanti all’ingresso delle cucine, nel parcheggio del personale, non c’era scampo dal vento gelido che sferzava il castello e nemmeno dai pensieri cupi che le turbinavano in testa.

    «Ehi Nina, sicura che non vuoi un passaggio?», chiese la sua collega Marcela con un marcato accento spagnolo, abbassando il finestrino mentre usciva rapidamente in retromarcia da uno dei posti auto.

    «No», scosse la testa. «Non c’è bisogno, grazie. Mio fratello sta arrivando». E sarà meglio che sia vero. Nina avrebbe tanto desiderato salire sulla piccola auto di Marcela insieme agli altri due colleghi, e l’ironia della situazione la fece sorridere amaramente: sua madre aveva insistito affinché fosse Nick ad andare a prendere Nina, così lei non sarebbe stata in pensiero. E invece Nina era lì, al gelo nel parcheggio buio, e a breve sarebbe rimasta completamente sola.

    «Ok, come vuoi. Ci vediamo tra otto settimane, allora».

    «Mah», intervenne una voce profonda dell’Europa dell’est dal sedile posteriore: era Tomas, il sommelier, inguaribile pessimista. «Pensi davvero che finiranno i lavori per tempo?».

    Un coro bonario lo zittì.

    «A presto, Nina». Si allontanarono sbracciandosi e gridando i loro saluti dalla vecchia Polo di Marcela, che partì sgommando come se la sua proprietaria avesse atteso quel momento tutto il giorno e non vedesse l’ora di correre a riposarsi. Che era esattamente ciò che avrebbe voluto fare anche Nina, se solo suo fratello fosse arrivato.

    Alla fine vide dei fari avvicinarsi a tutta velocità. Doveva essere Nick. Ormai se n’erano andati praticamente tutti. Con una manovra che fece schizzare in aria la ghiaia del piazzale, l’auto si fermò davanti a Nina.

    Lei aprì la portiera con uno strattone.

    «Ehi, sorellina. È tanto che aspetti? Scusa, un’emergenza con le pecore».

    «Sì», sbottò Nina, rifugiandosi nel calore dell’abitacolo. «Fa un freddo cane. Non vedo l’ora che mi riparino la macchina».

    «Non dirlo a me. Mi ci è voluto tutto il viaggio fin qui per scongelarmi. Maledetta pecora. Quella stupida si era incastrata nella recinzione che dà sulla strada e mi sono dovuto fermare ad aiutarla».

    Era crudele pensare che almeno la pecora avesse un bel cappottino di lana, mentre lei indossava gonna e collant in una gelida sera di febbraio?

    «Allora com’è andata l’ultima sera?», chiese Nick, allungandosi a spegnere la radio che blaterava di calcio a tutto volume. «Avete fatto una bella festicciola per la tua amica?»

    «Tutto bene. È un po’ triste sapere che non ci vedremo per un bel pezzo per i lavori di ristrutturazione. E che Sukie andrà a New York».

    «New York. Un bel cambiamento».

    «È una grande chef. Viaggia parecchio».

    «Chiaro. A New York. E tutti gli altri?»

    «I dipendenti fissi sono stati ricollocati e frequenteranno diversi corsi di formazione».

    «Non mi sembra giusto, però. Perché tu no?»

    «Perché ho un contratto a tempo determinato, credo».

    «Be’, vedrai che ti troveremo qualcosa da fare alla fattoria, nel negozio o al bar. E a Dan non dispiacerà avere un aiuto al birrificio. Poi c’è la sorella di Gail che ogni tanto potrebbe avere bisogno di una babysitter e George può provare a chiedere alla pompa di benzina, lì cercano sempre personale extra. Anche se lavoreresti di notte, quindi forse meglio di no».

    Nina chiuse gli occhi. Era certa che tutta la famiglia si sarebbe impegnata per trovare un lavoretto alla povera Nina mentre il Bodenbroke Manor Restaurant era chiuso, che lei lo volesse o meno. Non era un’ingrata, sapeva che lo facevano per il suo bene, ma ormai era adulta ed era in grado di trovarsi un lavoro da sola, senza che la sua famiglia si prodigasse per lei. Li amava molto, davvero, però…

    «Cos’hai da sbuffare e sospirare?», chiese Nick voltandosi a guardarla.

    «Niente», rispose Nina, chiudendo gli occhi. «Accidenti, sono proprio stanca. Mi sento come se un branco di elefanti mi fosse saltato sui piedi».

    «Pappamolle», la prese in giro Nick.

    «Ho attaccato alle nove stamattina», si difese lei. «E il ristorante era strapieno. Non ho neanche mangiato».

    «Questo non va bene. Dovevi dire qualcosa».

    «Non è così facile. Eravamo tutti molto occupati, non c’è stato tempo per la pausa».

    «Vuoi dire che non hai mangiato niente per tutto il giorno?».

    Nina scrollò le spalle. Era uscita di corsa senza fare colazione, nonostante le proteste di sua madre.

    «Poco». Proprio in quel momento il suo stomaco emise un sonoro brontolio, come per contestare la sua risposta. Evidentemente non pensava che un pezzo di pane e una fetta di formaggio fossero sufficienti.

    Nick si accigliò. «Non va bene. Vuoi che parli con il tuo capo quando riaprono?»

    «No, non importa. Cenerò quando arriveremo a casa».

    «Sì, ma non è…».

    «Tu non lavori lì, non puoi capire». Nina aveva alzato la voce. Era tipico di Nick pensare di sapere sempre tutto meglio degli altri.

    «Non serve capire. Ci sono delle leggi sul lavoro. E tu hai diritto a delle pause, è…». Fu interrotto dalla provvidenziale suoneria del cellulare che rimbombò nell’abitacolo dalla radio grazie al collegamento bluetooth.

    «Nick Hadley», disse premendo il tasto verde sul display.

    Nina si abbandonò contro lo schienale, lieta per quel diversivo che le consentiva di chiudere gli occhi e fingere di dormire per il resto del tragitto.

    «Ehi Pasto, come va coi calzini?». Nina si irrigidì e tutti i muscoli del suo corpo entrarono in tensione al suono di quella voce familiare e scanzonata. Tutti gli amici chiamavano Pasto suo fratello, diminutivo di pastore, ed erano ossessionati dalla loro versione di una filastrocca per bambini secondo cui i pastori lavano i calzini di notte.

    «Tutto bene, Sfiletto, e tu? Fai ancora il tifo per quella sottospecie di squadra di rugby?». Sfiletto era il soprannome (non troppo fantasioso) di uno chef. Uno chef arrogante e altezzoso, a dirla tutta.

    «Non ho parole, amico. Hanno fatto schifo contro la Francia. Con quello che avevo pagato i biglietti, poi!».

    «Cosa? Sei andato allo Stade de France? Che bastardo fortunato».

    «Non tanto, visto com’è andata a finire».

    «Allora torni per la Calcutta Cup? Meglio se non stai troppo in Francia, rischi di prendere qualche cattiva abitudine».

    «Ecco, c’è un problema…».

    «Che succede?»

    «Mi son fatto male. Ti chiamavo per questo».

    Nina tirò le labbra in quello che si sarebbe potuto definire un ghigno malefico.

    Era evidente che Sebastian non sapeva che lo stava ascoltando, e andava bene così.

    La ridicola telefonata a cui stava assistendo sembrava una conversazione tra due adolescenti invece che tra due uomini fatti e finiti. E lei non aveva alcuna voglia di ricordare Sebastian da adolescente, o come si era resa ridicola davanti a lui. Sfortunatamente, prendersi una cotta per il migliore amico di tuo fratello è la cosa peggiore che si possa fare, perché anche a dieci anni di distanza – o più – ci sarà sempre qualcuno in famiglia pronto a rispolverare l’argomento.

    «Cos’è successo?»

    «Mi sono solo rotto una gamba».

    «Oh merda, ma quando?»

    «Un paio di giorni fa. Sono stato travolto da un’idiota col trolley e sono caduto male».

    «Ahia. Ma stai bene?»

    «No», ruggì Sebastian. «È andato tutto a puttane. Uno dei nuovi locali che ho comprato a Parigi a quanto pare non è esattamente libero come avrebbe dovuto. Il precedente proprietario organizzava corsi di pasticceria e si è dimenticato di dirmi che a breve inizierà un corso di sette settimane già tutto prenotato e pagato».

    «E non puoi annullarlo?», chiese Nick, azionando la freccia e svoltando sulla strada per il villaggio.

    «Purtroppo no, ma pensavo che avrei potuto intanto iniziare i lavori negli altri due locali – che dureranno almeno un paio di mesi – e dopo il corso occuparmi anche del terzo. E sarebbe anche stata una buona idea se non mi fossi rotto la stramaledetta gamba».

    Nell’oscurità, Nina si morse un labbro per non ridere. Normalmente non avrebbe augurato del male a nessuno, ma Sebastian l’aveva proprio fatta arrabbiare. Non era invidiosa del suo successo, del resto aveva lavorato sodo per diventare chef e aprire una piccola catena di ristoranti. Anche troppo, a suo modesto parere. No, era per quel costante atteggiamento di superiorità e menefreghismo. Negli ultimi dieci anni, ogni volta che l’aveva incontrato, Nina era sempre apparsa in una posizione di svantaggio. E l’ultima volta era stato veramente mortificante.

    «Non puoi farti sostituire?»

    «Non so se riuscirò a trovare qualcuno con così poco preavviso. Il corso inizia mercoledì prossimo. E poi, l’unica cosa di cui ho bisogno è un paio di gambe in più per qualche settimana. Finché non mi tolgono il gesso».

    «Potrebbe aiutarti Nina. Ha appena perso il lavoro al ristorante».

    Nina si tirò su di scatto, sbarrando gli occhi in direzione del suo incredibilmente stupido fratello. Si era bevuto il cervello, per caso? Accorgendosi del movimento accanto a lui, Nick si voltò e i suoi denti brillarono nel buio mentre le rivolgeva un sorriso smagliante.

    «Con tutto il rispetto, Nick, ma tua sorella è l’ultima persona al mondo che vorrei qui ad aiutarmi».

    Il sorriso di Nick si spense e ci fu un lungo silenzio.

    Poi Sebastian borbottò: «Oh merda, è lì con te, vero?».

    Con un sorriso gelido, Nina si avvicinò al microfono. «Oh merda, proprio così. Ma non preoccuparti, Sebastian, con tutto il rispetto, piuttosto che aiutare te preferirei castrare con i denti ogni singolo agnello della fattoria».

    Così dicendo allungò un braccio e chiuse la telefonata.

    Capitolo 2

    In cucina fervevano le attività e Lynda, la madre di Nina, si stava dando da fare con le mani infilate nei guanti da forno a fiori tra la tavola apparecchiata per otto e i fornelli accesi ricoperti da una distesa di pentole e padelle fumanti.

    «Nina, Nick. Giusto in tempo».

    «Che profumino», commentò Nick lasciando cadere le chiavi della macchina sulla credenza accanto al ciarpame che vi si accumulava ogni giorno, nonostante Lynda continuasse a rimetterlo in ordine. Anche se erano ormai adulti e vivevano per conto loro, i quattro figli maggiori continuavano a trattare la cucina della casa dei genitori come se ancora abitassero lì e la madre ne era ben felice. Nessuno dei suoi bambini si era allontanato troppo dal nido. Nick, che aveva due anni più di Nina, viveva nel cottage dall’altra parte dell’aia e aiutava il padre con la fattoria e le pecore. Era ancora single e non sembrava avere alcuna fretta di sistemarsi.

    «Sedetevi, starete morendo di fame. Dove sono Dan e Gail? Dovevano arrivare cinque minuti fa».

    «Mamma, ricordati che è Dan. Sarà in ritardo anche al suo funerale», scherzò Nick, srotolandosi la sciarpa dal collo e schioccandole un bacio sulla guancia.

    «Non si scherza su queste cose», protestò lei scrollando le spalle. «Oggi hanno avuto molto da fare al birrificio e al negozio. È arrivato un pullman di turisti dal Galles. Povera Cath». Lynda lanciò un’occhiata comprensiva alla nuora, seduta a tavola con una tazza di caffè ormai vuota tra le mani. Cath, la moglie di Jonathon (il gemello di Dan, nato per secondo), alzò la testa bionda e fece un debole cenno di saluto a Nina.

    «È stato assurdo. Abbiamo finito i dolcetti, il caffè e la torta di noci. I pensionati sono come le cavallette, quando arrivano sembra che non mangino da giorni. Abbiamo dato fondo alle scorte».

    Lynda guardò Nina con un mezzo sorriso preoccupato.

    Lei sospirò sfilandosi il cappotto. «Non preoccuparti, dopo cena posso mettere su un po’ di dolcetti e fare una torta veloce. E domattina preparo la crema al burro».

    «Ma tesoro, sei appena tornata dal lavoro. Sarai a pezzi. Sono certa che Cath sarà in grado di cavarsela da sola per un giorno».

    Nina vide che Cath alzava gli occhi al cielo. «Non ci vorrà molto, mamma».

    «Se non è troppo disturbo, cara…».

    Fortunatamente Dan, il fratello maggiore (di cinque minuti), in quel momento irruppe in cucina trascinando per mano sua moglie Gail, mentre entrambi ridacchiavano.

    «Ciao a tutti, è arrivato il figlio preferito», annunciò Dan, e Gail gli allungò una gomitata scherzosa.

    All’improvviso il rumore aumentò a dismisura a causa dell’ingresso di Jonathon insieme al padre, John. Le sedie grattarono sul pavimento in pietra, le bottiglie di birra tintinnarono mentre venivano tirate fuori dal frigorifero e aperte in rapida sequenza e nell’aria risuonò l’invitante pop della bottiglia di rosso stappata dal padre. Tutti presero posto senza esitazioni e intorno al tavolo fiorirono le conversazioni più disparate. Nina scivolò al solito posto accanto alla madre, che sedeva a capotavola.

    «Sicura che non ti scocci metterti a cucinare adesso? Potrei alzarmi presto domattina e fare io i dolcetti per Cath».

    «Nessun problema, mamma, davvero». Aveva notato un rapido scambio di sguardi tra le cognate e poi Gail le aveva fatto l’occhiolino. «Dopo mangiato sarò come nuova». In fondo erano solo un paio di torte, e le avrebbero fornito un’ottima scusa per sfuggire da quella baraonda e godersi un po’ di pace nel silenzio del suo piccolo appartamento sopra le vecchie stalle, senza che nessuno si preoccupasse per lei.

    «Jonathon, stai sgocciolando ovunque con quel cucchiaio».

    «Oh, Jonathon!», fece eco Dan, cogliendo al volo l’occasione di schernire il gemello. E subito gli altri uomini presenti a tavola si unirono allo scherzo.

    «Dan, non sai fare niente di meglio?»

    «Vedi, il figlio preferito». Jonathon puntò il cucchiaio contro il fratello, ma fu subito ripreso dalla moglie.

    Come sempre, la cena di famiglia sembrava l’ora dei pasti allo zoo, ma Nina era ben felice che l’attenzione non fosse più su di lei. Riuscì a non dare nell’occhio fino alla fine, quando Dan e Jonathon presero a discutere su chi avesse diritto all’ultimo pezzo d’agnello.

    «Allora, cos’è successo alla tua macchina, tesoro?», le domandò suo padre nel mentre.

    «È ancora all’officina, hanno faticato a trovare il pezzo di ricambio, ma sperano che arrivi domani».

    «Ci vorrà ben più di un pezzo di ricambio per aggiustare quel macinino», commentò sua madre scrollando le spalle. «È una trappola mortale».

    Nina borbottò una risposta, ma nessuno la sentì perché stavano già tutti dicendo la loro sulla sua auto. Non c’era niente che non andasse nella sua piccola Fiat.

    «Mamma, non preoccuparti per Nina, non riuscirà mai a pedalare abbastanza forte da mettersi nei guai con quell’aggeggio», la canzonò Nick.

    «Una macchina da cucire è più potente», intervenne Dan.

    «Vorrei tanto che prendessi qualcosa di più robusto, ho sempre paura che tu venga schiacciata dalle altre macchine».

    «Non temere ma’, il furgone di Nick ci passerebbe direttamente sopra». Dan, uscito vittorioso dalla battaglia per l’agnello, lasciò cadere rumorosamente le posate sul piatto ormai vuoto.

    Lynda scrollò di nuovo le spalle. «Ancora peggio».

    «Io amo la mia auto, lasciatela stare», sbottò Nina. In effetti le mancava tantissimo, soprattutto perché le seccava dipendere dagli altri.

    «La moglie di Tom, quello del pub, vende la sua macchina. Potrei darci un’occhiata, se vuoi», disse il padre. «È una Ford, sono macchine affidabili. E consumano poco».

    E sono noiosissime, pensò Nina.

    «Questa sì che è una buona idea, tesoro», esclamò sua madre.

    Nina stava per dare una risposta calma e gentile, tipo Dato che sto per pagare le riparazioni, forse non è il momento migliore per pensare di comprare un’auto nuova, ma ne aveva avuto abbastanza del fatto che tutti pensassero sempre di sapere cos’era meglio per lei. La trattavano ancora come la piccola di casa. Perciò abbandonò la calma e si alzò di scatto, guardò minacciosa la tavolata e urlò: «È la mia macchina e va benissimo così com’è, grazie mille!», poi afferrò il cappotto e marciò verso il suo appartamento.

    Sbattendosi la porta alle spalle, notò con una certa soddisfazione che in cucina era calato il silenzio.

    Quando sentì bussare piano alla porta, mentre metteva a raffreddare quattro dischi di pan di spagna, sapeva già che si trattava di Nick. Tra tutti, era quello che le dava meno il tormento, e anche il più protettivo tra i suoi fratelli. Una parte di lei avrebbe voluto ignorarlo e fingere di essere già a letto, ma sapeva che quello scoppio d’ira improvviso – così insolito per lei – doveva averlo turbato e se non gli avesse risposto lui avrebbe continuato a bussare.

    «Sì?». Socchiuse appena la porta, in modo che fosse chiaro che non desiderava compagnia.

    «Volevo solo vedere se stavi bene». Il suo caratteristico sorriso allegro era leggermente tirato.

    Sentendosi in colpa, Nina aprì un po’ di più. «Sto bene».

    «Sicura?». Nick entrò nel monolocale chiudendosi la porta alle spalle.

    «Sicura», sospirò. «Vuoi una tazza di tè o qualcos’altro?».

    Nick alzò un sopracciglio con un luccichio allegro negli occhi. «Qualcos’altro? Hai per caso una scorta segreta di brandy? Whisky?»

    «Oh, santo cielo, e se anche fosse?». Non ne poteva più di essere presa in giro e non si preoccupò di nascondere l’insofferenza. «Se non l’avessi notato, ormai sono una donna adulta. Comunque era un modo di dire: sarai felice di sapere che nella mia triste dispensa ci sono solo un paio di scatole di tè».

    «Qualcuno si è alzato col piede sbagliato stamattina, eh? O è stata una certa telefonata a metterti di cattivo umore?». Nick si appoggiò alla parete con le braccia conserte.

    «Sebastian Finlay non c’entra proprio niente con tutto questo. Sono solo stufa di essere trattata come una bambina, ho quasi trent’anni, che caz…». Esitò vedendo che Nick corrugava la fronte. Se avesse imprecato davvero, sarebbe andato definitivamente in crisi. «Che cacchio. Mamma e papà si preoccupano sempre per me e poi ci si mettono anche Jonathon e Dan. Cath e Gail pensano che sia ridicolo che facciate sempre tutto questo casino per niente. E tu, che vieni fin qui a farmi il discorsetto da fratello maggiore, sei il peggiore di tutti. Non ce n’è bisogno». Mantenne il punto fissandolo dritto negli occhi con le mani sui fianchi. Sebbene l’idea di attraversare la stanza e lasciarsi cadere sul divano fosse allettante, avrebbe dato l’impressione di essere solo una bambina capricciosa, invece doveva fargli capire una volta per tutte che non ne poteva veramente più. Forse aveva un po’ gli ormoni in subbuglio e sicuramente era anche stanca, ma erano mesi ormai che covava quell’insofferenza.

    «Lo facciamo perché ti vogliamo bene».

    «Lo so. Davvero».

    «Ma?»

    «Mi… Mi sento…». Il problema era che non sapeva dire con esattezza come si sentiva. Frustrata. Irritata. Debole. Senza uno scopo nella vita. Immobile. Sukie – la sua amica e collega, che faceva la pasticcera – se ne andava a New York. La sua carriera stava decollando. Nina una carriera non ce l’aveva nemmeno, figuriamoci se poteva decollare. Sfortunatamente non aveva neanche l’esperienza necessaria – per non parlare delle qualifiche – per proporsi come sostituta di Sukie. Nick non avrebbe capito, e neanche gli altri. Erano tutti felici e contenti, anche se a volte sospettava che Nick avrebbe voluto mollare la fattoria e ampliare i suoi orizzonti. Soltanto Toby, che aveva quattro anni più di lei, era andato un po’ più lontano per studiare alla facoltà di veterinaria a Bristol, ma poi era tornato e adesso abitava a soli ottanta chilometri da lì. Almeno non così vicino da doversi far vedere tutti i giorni.

    «So che è difficile essere la piccola di famiglia – oltre che l’unica femmina – e mamma e papà si preoccupano perché all’inizio hai avuto qualche difficoltà…».

    «Non ti azzardare a dirlo!». Nina alzò una mano per zittirlo.

    «A dire cosa? Che sei quasi morta durante il parto? Ma è la pura verità».

    Nina si nascose il viso tra le mani. «Sì, ed è questo il problema. Mi considerate sempre tutti a un passo dalla morte, ma escludendo l’appendicite e il raffreddore, la tosse e il morbillo come tutti i bambini, non mi sono mai neanche ammalata sul serio».

    Nick non rispose.

    «Puoi negarlo?», lo incalzò.

    «No», ammise lui con un sorriso forzato. «Quindi non mi merito neanche una tazza di tè o qualcos’altro?»

    «Oh per la miseria». Nina si allontanò per accendere il bollitore. Non poteva ancora andare a letto, doveva aspettare che il pan di spagna si raffreddasse per assemblarlo con strati di crema al caffè e alle noci. «Ehi!», esclamò colpendo con un cucchiaino la mano del fratello che aveva arraffato un dolcetto appena fatto e se lo era ficcato in bocca.

    «Mmm, che buono».

    Lo ignorò, concentrandosi sulla teiera. Preparare il tè la calmava sempre ed era un ottimo modo per temporeggiare.

    Posò sul tavolino rotondo della cucina la teiera, una tazza normale per Nick e la sua tazza da tè preferita in porcellana fine, accompagnate da due piattini. Lo spazio era poco, perfetto per una persona, e Nina aveva ridotto al minimo il numero delle sedie intorno al tavolo. Quell’appartamentino per lei era un rifugio e si era messa d’impegno per renderlo veramente suo. Aveva dipinto le pareti con tinte pastello e fabbricato tende e federe per i cuscini con una stoffa floreale, per aggiungere un tocco di femminilità. Aver trascorso la vita circondata da quattro ragazzi aveva decisamente influito sulle sue scelte in fatto di arredamento. Nella fattoria dov’era cresciuta, quasi tutto l’arredamento era pratico e robusto. I colori non erano mai stati importanti. Jonathon e Dan avevano dato il loro tocco personale alla camera da letto che condividevano dipingendo le pareti a righe bianche e nere, in onore alla loro squadra del cuore, il Newcastle United.

    «Ecco a te». Fece scivolare verso Nick la tazza piena di tè bollente.

    «Allora, cos’ha scatenato tutto questo?», chiese Nick, con voce più dolce.

    «Ormai è da un po’ che ci penso. Mi sento bloccata. Come se non stessi andando da nessuna parte e fossi destinata a non combinare niente di buono nella vita».

    «E cosa vorresti fare?».

    Nina passò l’indice sul bordo del piattino. Era un’idea stupida. Dopotutto ci aveva già provato e aveva rovinato tutto.

    Tra i suoi fratelli, Nick era quello con cui aveva il rapporto più stretto. Forse perché erano sulla stessa barca.

    «Qualche volta non pensi che vorresti andartene da qui? Startene per conto tuo, dico».

    Nick arricciò le labbra. «A volte, molto raramente, penso che forse mi sto perdendo qualcosa. Non è facile incontrare persone nuove da queste parti. Ma mi piace il mio lavoro alla fattoria e non posso portarmela dietro. E poi mi trovo in cima alla collina e guardo a valle, seguo le linee dei muretti a secco costruiti secoli fa e sento di appartenere a questo luogo. Avverto come un senso di continuità».

    Nina lo guardò e sorrise. Era sempre stato il suo eroe, anche se non si era mai sognata di dirglielo. Non c’era bisogno che si montasse ulteriormente la testa. Nonostante gli scherzi e le battute da bambinone, Nick era un uomo buono e sapeva qual era il suo posto nel mondo.

    Nina sospirò, sperando di non sembrare ingrata. «Almeno tu ti rendi utile qui. Hai uno scopo e un lavoro».

    «E tu cosa vorresti fare?».

    Seria, passò di nuovo il dito sul bordo del piattino. «Andarmene per un po’. Essere me stessa. Capire chi sono davvero».

    Nick aggrottò la fronte, confuso.

    «Giusto poco fa ho evitato di dire una parolaccia perché sapevo che ti avrebbe dato fastidio».

    Ora sembrava ancora più confuso.

    «Mi sembra di limitarmi a galleggiare, invece vorrei… Vorrei imparare a cucinare davvero, non solo fare qualche torta ogni tanto».

    «Vuoi diventare chef? Ma ci hai già provato». Puntò l’indice contro di lei. «Ti ricordi quella storia della carne cruda… il… ehm… quella faccenda della crisi, dell’attacco di panico. Avevi anche vomitato, se non sbaglio».

    «Grazie per avermelo ricordato, ma allora non mi era venuto in mente che avrei potuto specializzarmi in altri tipi di cucina che non includono la carne. Potrei diventare una pasticcera. Sukie, per esempio, è una pasticcera fantastica, e ora è a New York. Mi ha ispirata. Dovresti vedere cos’è capace di fare. Io… Io…». Nina si interruppe. Aveva fatto qualche esperimento a casa, con vari gradi di successo. Al lavoro non era stato facile osservare quello che faceva la sua ex collega mentre correva avanti e indietro tra i tavoli, nonostante Sukie avesse sempre fatto il possibile per insegnarle quello che sapeva. Doveva studiare. Seguire un corso di pasticceria.

    Dalla telefonata di Sebastian, non aveva più smesso di pensarci. Lui avrebbe insegnato in un corso di pasticceria e aveva bisogno di un paio di gambe. E lei, in quel momento, aveva sette settimane di libertà. O quasi. E di certo la mamma e Cath avrebbero trovato qualcun altro che facesse le torte al posto suo per un breve periodo.

    Il tempismo era perfetto, e ignorarlo sarebbe stata una follia. Doveva trattarsi di un segno del destino, anche se purtroppo includeva Sebastian. Era la sua occasione di esplorare la passione per la pasticceria e dimostrare a tutti che aveva finalmente trovato la sua strada.

    «Potresti parlarci tu?»

    «Con chi?», chiese Nick, sbalordito.

    «Con Sebastian».

    Capitolo 3

    Quando scese dal treno alla Gare du Nord, Nina era talmente incredula ed emozionata all’idea di trovarsi in un’altra nazione e di essere sfrecciata sotto il canale della Manica che ebbe la tentazione di darsi un pizzicotto per verificare che non fosse un sogno. Solo due ore prima si trovava alla stazione di St Pancras e adesso era a Parigi. La gioiosa Parigi. Da sola. Lontano dalla sua famiglia. Aveva la sensazione di essersi scrollata di dosso una trapunta troppo pesante che rischiava di soffocarla. Persino mentre saliva sulla macchina del padre per andare alla stazione, sua madre le aveva allungato di nascosto qualche euro bisbigliando: «Per il taxi quando arrivi. Così non devi prendere la metropolitana con tutti i bagagli».

    E poi suo padre aveva fatto la stessa identica cosa prima di salutarla. Era stato gentile da parte loro e lei non era un’ingrata, ma che esagerazione! Era perfettamente in grado di arrangiarsi con la metropolitana.

    Durante il viaggio in Eurostar, Nina si era dedicata a studiare il francese tramite un’app, ma una volta arrivata si rese conto, con una certa delusione, di non capire assolutamente niente del fiume di parole con cui la investì l’addetto al banco informazioni. Sfortunatamente, l’uomo sembrava determinato a non pronunciare una sola parola in inglese e l’unico termine su cui si trovarono d’accordo fu taxi. Alla faccia dell’indipendenza! Per lo meno mamma e papà sarebbero stati contenti…

    Il taxi percorse un ampio viale fiancheggiato da alberi che facevano ombra ai tavolini di caffè e bistrot. Su entrambi i lati della strada, e per tutta la sua lunghezza, c’erano palazzi di cinque o sei piani con deliziosi balconcini in ferro battuto e imponenti portoni di legno che si susseguivano a intervalli regolari.

    A dispetto delle antiche mura di pietra e delle pesanti finiture in legno scuro, la porta dell’edificio si aprì con un ronzio elettronico e Nina si ritrovò in un androne spoglio con una stretta scala piastrellata che saliva arrotolandosi su se stessa. Sebastian si era momentaneamente trasferito in hotel, perché nel suo condominio non c’era l’ascensore. Con un sospiro, Nina guardò in alto la tromba delle scale. Come avrebbe fatto a trascinare la sua enorme valigia, lo zaino e la borsa fino all’ultimo piano? L’indipendenza è anche questo e ricorda: è esattamente ciò che volevi. In ogni caso non poté evitare di guardarsi intorno nella speranza che si materializzasse qualche vicino volenteroso pronto a darle una mano. Ma purtroppo quello non era un film, e non apparve nessun aitante cavaliere desideroso di mettersi al suo servizio. Con un gemito rassegnato, si mise la borsa a tracolla, caricò lo zaino in spalla, afferrò la valigia e iniziò a salire.

    Seguendo le istruzioni di Sebastian, suonò all’appartamento 44b e ancora prima che staccasse il dito dal campanello la porta si spalancò, facendola sobbalzare.

    Si trovò di fronte una donna slanciata, con i capelli biondi lisci e lucidi raccolti in una coda di cavallo che evidenziava gli zigomi alti e un mento volitivo. Avrebbe potuto essere l’autrice di un manuale di bon ton, con la sua espressione altezzosa, le scarpe lucide a punta, gli ampi pantaloni color crema e una blusa in seta a collo alto di un raffinato azzurro pallido: tutto l’insieme fece sentire Nina improvvisamente accaldata e appiccicosa.

    «Bonjour, je suis Nina. Je suis ici pour les clés de Sebastian».

    Le parole le uscirono di bocca come un farfugliamento disperato e, a giudicare dal

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