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Sognare, sognare forse
Sognare, sognare forse
Sognare, sognare forse
E-book460 pagine6 ore

Sognare, sognare forse

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Info su questo ebook

Ancora una volta il prof. Fazìa, autore originale che usa la parola con ardire e leggerezza, sorprende i suoi lettori dando alle stampe questo particolarissimo libro dal titolo “Sognare...”, dedicato agli anni dell’insegnamento.
Ma non contiene i classici “ricordi di scuola” in forma di aneddoti più o meno divertenti o di ritratti di colleghi o allievi più o meno singolari. Il ricordo che l’autore vuole rinverdire è proprio quello della sua attività di insegnante: il libro contiene infatti la trascrizione delle lezioni tenute dal prof. Fazia al Liceo Artistico lungo un arco di tempo che va dall’inizio degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta. Le lezioni sono riportate esattamente come, appena fatte, venivano fotocopiate direttamente dai quaderni degli allievi, e poi composte in fascicoletti sui quali venivano siglati sezione, giorno, mese e anno.
L’autore non vi ha riportato alcuna modifica se non qualche taglio dovuto a ragioni di spazio: la sostanza rimane immutata, con la freschezza e l’immediatezza dell’appunto preso a lezione, abbreviazioni comprese. Le lezioni, ordinate in senso cronologico, non hanno - se non per caso - continuità tra di loro, né legata alla classe cui son rivolte né all’argomento, per cui la lettura di ciascun capitolo è sempre episodica e singolare, si apre e si chiude su se stessa. Proprio per questo il libro risulta sempre gradevole e assai più interessante che se fosse un trattato di letteratura italiana redatto con rigore enciclopedico.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2014
ISBN9788884496997
Sognare, sognare forse

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    Anteprima del libro

    Sognare, sognare forse - Salvatore Fazìa

    arrivo

    Prefazione

    PREFAZIONE

                                                                                                            La sola giustificazione della vita è il Sapere,

                                                                                                            che è di per sé il Bello e il Vero…

                                                                                                            Solo un’impresa intellettuale è bella e vera

                                                                                                            e può giustificare la vita

                                                                                                            (Deleuze)

    Non è possibile sapere in anticipo come l’individuo apprenderà,

    per quali amori si diventa bravi in latino, per quali incontri si è filosofi,

    in quali dizionari s’impara a pensare

    (Deleuze)

    Che Dante Alighieri sia nato a Firenze nel 1265 da famiglia di piccola nobiltà guelfa si veniva a sapere dal libro di testo, Il sistema letterario, un bel libro, e anche che… Quel che non si veniva a sapere dal libro di testo né da altre fonti era che nella Divina Commedia - anzi, nella Commedia - all’inizio, per dire che s’era perso, Dante sognasse e piangesse, così come aveva già fatto tante volte nella Vita Nova, dove più spesso piangeva e sognava.

    Che Giacomo Leopardi sia stato un grande poeta romantico, pessimista e disperato, pure si veniva a sapere dal libro di testo, e anche che… Quel che non si veniva a sapere dal libro di testo né da altre fonti era perché in tutte le poesie egli fosse infelice, tranne in una: L’Infinito.

    Che la storia della letteratura italiana fosse così ricca di opere e di autori si veniva a sapere dal libro di testo, quel che non si veniva a sapere era che cosa fosse la letteratura, mettiamo la poesia. Cosa fosse la narrativa, lo si sapeva, lo si immaginava; cosa fosse la frase, il discorso, lo si sapeva: c’era la grammatica… ma che cosa fosse la poesia, cosa fosse il verso, non si veniva a sapere né dal libro di testo né da altre fonti, perché? La spiegazione che se ne dava era quella metrica, ma la metrica cristallizzava tutto in uno schema, non diceva nulla della simbologia onirica del verso, nulla del mistero estetico, la sua differenza con la frase, l’ebbrezza e l’estasi, l’azione poetica.

    I programmi parlavano di storia della letteratura, e la materia scolasticamente era definita come Italiano, qualcosa che non lasciava trasparire alcunché al riguardo, restava quel che dicevano i programmi: già, ma la letteratura cos’era? quella in prosa si capiva, lo si immaginava - ma quella in versi, la poesia cos’era? Perché in versi?

    Tanto più che ogni anno, all’inizio, ogni nuova sezione, ogni volta che s’incominciava con una classe, prima di cominciare, andavo alla lavagna e scrivevo: vorresti che tuo padre fosse poeta? Poi facevo tirar fuori un foglio e chiedevo che ognuno scrivesse sul foglio sì o no, senza firmarsi: era un piccolo referendum per venire a sapere che cosa i ragazzi pensassero della poesia, utilizzando il codice affettivo in modo da coinvolgerne l’io tenero e filiale. Volevo sapere con questo piccolo stratagemma in che stima avessero la poesia e quanto se ne fidassero: pensando che la domanda ne mettesse alla prova il diretto interesse, perfino un certo risvolto familiare, sociale. Volere o non volere il proprio padre poeta poteva portare alla luce un elemento di affidabilità che non riguardava solo la sicurezza della famiglia - l’economia, la stabilità economica di casa - ma riguardava anche la dignità stessa della famiglia, nel caso fosse così socialmente esposta tra le confessioni segrete e le esposizioni alle crisi che la poesia del padre poteva comportare.

    C’era insomma qualcosa da fare prima, qualcosa circa un problema di credibilità o meno di quel che si andava a studiare: il referendum dava sistematicamente - ogni anno, ogni classe - un risultato pienamente negativo, e io non mi sentivo sicuro in quel che andavo a fare, come avrei potuto parlare di poesia? parlarne in termini di eccellenza, quando il mio piccolo pubblico era segretamente contrario? Sapevo che i ragazzi scrivevano poesie, e che in qualche modo ne sentivano il fascino, ma sapevo anche che la cosa non durava e che il dato del referendum era in qualche modo più profondo e significativo. Le poesie che scrivevano i ragazzi erano sentimentali, ma non erano poetiche - cosa mancava? - anche questo deponeva a sfavore.

    La circostanza di trovarsi a insegnare in un liceo artistico metteva ancora più allo scoperto il problema, la scuola era orientata sulle materie artistiche e su indirizzi professionali di tipo artistico, dunque non si poteva far finta di niente e trattare la letteratura solo come una storia, e ciò perché la letteratura era materia artistica, e a maggior ragione la letteratura in versi dato che il verso era già, di suo, strutturalmente, artistico, e della poesia era il fattore strutturale di artisticità. Non era, dunque - anche per questa via - possibile tacere, perché come si studiava la storia della pittura e teoria e critica del colore, della pittura, così si poteva e si doveva studiare storia della poesia ma anche teoria e critica del verso, della poesia.

    Ma, come?

    Questo libro è dedicato ai miei allievi, come occasione di ritorno, è formato dalle parole dette in classe, in parte dalle parole dette adesso - poche - per integrare, sciogliere e completare le parole dette in classe. Queste vengono citate letteralmente - a volte solo figurativamente e riportano i discorsi realmente fatti -, le altre, quelle dette adesso, poste fuori virgolette, in parte servono per completarne i fili sospesi, in parte per far segno a nuovi suggerimenti.

    C'è sempre un sospeso, nella storia di ogni insegnamento.

    E' dedicato a tutti i miei allievi di scuola media inferiore e di scuola media superiore, perché, rileggendolo, mi sono accorto che volevo insegnare a tutti la stessa cosa, e cioè trovare il gioco dell'arte e giocare con le parole sulla posta in gioco.

    L'insegnamento in un liceo artistico non è mai un rito istituzionale, ma quasi un atto libero, ideale, questo libro allora è un po' come l'ultimo giorno di scuola, l'ultima lezione, quando cessano i doveri e ha luogo la comunione dei desideri, dei sogni, dopodiché ognuno è veramente libero di andarsene per tutte le vie che si sono aperte, riprendendo io stesso la mia, di quando sognavo la mia vacanza originaria.

    Le lezioni bisogna anche immaginarle nella loro oralità reale, quando cioè l'ordine della voce sta ai tempi dell'ascolto intanto che è l'insegnante che parla lento perché la lezione la sta inventando, nel gioco di un soggetto che dice cose trovabili e introvabili.

    I libri di testo li davo per scontati, erano belli, moderni, i ragazzi di volta in volta dovevano studiarli, da qua fin là, prima ne parlavamo, poi portavamo i giochi sul sapere più interno, tra i testi. Ci pensavo ventiquattrore al giorno, a casa i libri li massacravo, fuori - se camminavo, ero in macchina, al bar - ne ripensavo le cose, le pose, ne progettavo i protocolli applicativi. Avevo dei quaderni, vi raccoglievo citazioni e sviluppi. Quel che dicevo lo sapevo da poco, il linguaggio lo sapevo da sempre. Ne inseguivo la vocalità, l'orecchiabilità, c'era una bellezza da realizzare, ed era doppia, tra l'intelligenza delle cose e la comunione dell'anima, l'intelligenza delle pose. L'altra bellezza, la terza, inaspettata, erano le ragazze, i ragazzi, la fresca adolescenza dei loro visi in grazia della quale velocemente volavamo là dove ci portava il volo. Non era piccolo il gioco, aprire il teatro pensoso e seduttivo della poesia era come mettere in campo l'eros del sapere, diffonderlo, appiccarne con la poesia il sacro fuoco tra le nostre vite, in mezzo a noi, ai piedi dei nostri stessi altari.

    Insegnare era un po' prendere ebbrezza, sognare.

    Lezioni

    1980-1995

    Le lezioni comprendono il periodo che va dall’inizio degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta. Decorrono in senso cronologico, comprendono scolaresche delle sezioni curriculari che vanno dalla prima alla quarta, e una quinta successiva alla maturità che nella fattispecie del Liceo artistico prende la funzione e il ruolo di anno integrativo, aperta soltanto a quegli studenti che aspirano a entrare all’università, e prende il nome di quinto anno integrativo - 5°Anno e data, nel testo - la cui frequenza è facoltativa, e consiste in un corso di alcune materie culturali che non prevedono interrogazioni durante l’anno, e si conclude in un esame finale di idoneità. Le lezioni - qui riportate - non hanno continuità tra di loro, se non casualmente, per cui a una lezione della sezione prima può far seguito una lezione di sezione quarta, a una di sezione quinta può far seguito una di sezione seconda e così via. A maggior ragione non c’è continuità di materia e di argomentazione, per cui la lettura è sempre episodica e singolare, si apre e si chiude su se stessa. Ognuna, si capisce, è da inserire in una circostanza problematica che non viene mai descritta, perché non è lo svolgimento del programma che qui viene a dettarne la scelta, ma il peso specifico dell’argomento: alla fine quel che interessa è soltanto un’idea di memoria e quasi di commemorazione. Abbiamo già detto che l’insegnamento è un sogno esposto all’avventura del sapere e non può che avere il sentimento estemporaneo della commemorazione.

    Che c’è di più bello?

    Roland Barthes, quando è entrato a far parte del Collége de France, ha tenuto una lezione nella quale ha chiuso dicendo: "Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui s’insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare. Ora è forse l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare, di lasciar lavorare l’imprevedibile rimaneggiamento che l’oblio impone alla sedimentazione delle cognizioni, delle culture, delle credenze che abbiamo attraversato. Questa esperienza ha, credo, un nome illustre e démodé, che io oserò impiegare qui senza complessi, proprio nell’ambivalenza della sua etimologia: Sapientia: nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e quanto più sapore possibile".

    Mi è consentito per un po’ di lasciarmi andare e per questo libro ripetere: un po’ di sapere, nessun potere, e quanto più sapore possibile?

    La sua compilazione adesso sfuma nella nostalgia, le posizioni di pensiero diventano pose del sentimento e queste si perdono un po’ tra i risvegli di una vita che ci ripensa, e un po’ tra i dormiveglia di un’età che ci sogna. Se tutto questo è diventato saggezza, se la saggezza ha perso i conti, se l’oblio si diffonde oltre tutti i limiti e sfuma nell’ebbrezza di un po’ di delirio. Tenendo infine presente che "con il passare degli anni diminuisce il numero di coloro con i quali ci si può capire e che quando non avremo più nessuno cui rivolgerci saremo finalmente quali eravamo prima di precipitare in un nome" (Cioran).

    L'ndicazione numerica delle classi, curiosamente espressa, durante i giorni di scuola, non in numeri romani ma in numeri arabi - non I A, ma 1 A - non è un segno dei tempi, un cedimento alla generica pressione islamica sull'occidente, ma più in leggerezza un suggerimento giovanile, un gesto nuovo, innovativo, di ragazzi, un omaggio alla moda della semplificazione alfa-numerica più recente da loro introdotta nelle procedure della comunicazione elettronica, non essendo, peraltro, l'unica intemperanza formale mantenuta nel testo e dovuta alla più generale contaminazione giovanile del momento. Parole accorciate e trascritte non per intero - non stratificazione ma stratif., ricorren. per ricorrenze… - che, fossero state troppo frequenti, avrebbero disturbato la lettura del testo e la libera percezione dei contenuti, qua e là mantenute possono invece conservare fresco il gioco della scuola e ogni tanto lasciare aperto lo spazio del senso al segno degli allievi.

    1981

    Struttura e senso 5°Anno - 11 Dicembre 1980 

    «Ricostruendo la stratif. metrico-ritmica del testo dell’Infinito di Leopardi ci accorgiamo che è costruito secondo certe ricorrenze che indichiamo a parte. L’esistenza di queste ricorr. mostra abbastanza l’in-tenzionalità artistica anche per quanto riguarda l’esito musicale del testo, l’effetto armonico, che diventa il risultato della combinatoria degli accenti metrico-ritmici, ed è esso stesso - accanto ad altri - un significante da interpretare nella ciclicità dei movimenti, come segue:

    - l’ordine ritmico-metrico è costituito da cinque posizioni accentate per ogni verso;

    - l’insieme è attraversato da analoghe pause ritmiche e da medesimi archi musicali;

    - ogni verso è rotto al suo interno e finisce per essere diviso in due segmenti quasi alla deriva tra di loro: questo effetto provoca un reciproco allontanarsi, sicché viene a prodursi un movimento di espansione continua;

    - allora l’intero testo, che è formato da quindici versi, per effetto della cesura ritmica che taglia ognuno dei quind. versi in due, diventa un piccolo sistema di trenta pezzi semantici distribuiti come in un piccolo universo di isole in forma di arcipelago e in continua espansione.

    Il testo in definitiva, per la sua configurazione tecnico-dinamica, simula l’idea dell’infinito, che i vari versi - tranne il primo, il secondo e l’ultimo - suggeriscono, anche perché sono linguisticamente aperti e sospesi, non conclusi e continui nel loro movimento centrifugo. E ancor più alla fine, dove l’ultimo verso, è sì linguisticamente concluso, ma è semanticamente aperto e dispersivo: e il naufragar m’è dolce in questo mare, infinitivo appunto: naufragar e mare sono poi, quanto al senso, due parole intuitivamente, intrinsecamente infinitive.

    La sensazione generale è quella di trovarsi di fronte a un testo ancorato solo al primo e al secondo verso - al colle e alla siepe - mentre tutto il resto - discorsi, immagini, sensazioni - apre alla deriva dei tempi e degli spazi, e l’io che ne insegue la vertigine"».

    Io/Natura 5°Anno - 15 Gennaio 1981

    «Fino ad oggi abbiamo visto quali sono le ragioni meccaniche e i procedimenti di produzione dei due effetti estet. maggiori dell’Infinito: l’effetto di inf. e l’effetto di incanto. Oggi cominciamo a produrre l’analisi delle figure del testo secondo la dimensione simbolica, trovando che sono tre le figure cosmiche in causa: il colle, la siepe e l’orizzonte. Il colle è ermo, cioè solitario ma anche isolato da tutto il resto, è il posto per lo sguardo e la visione cosmica, angolo del desiderio e dell’attesa.

    Ma anche giaciglio dei contatti simbolici dell’io profondo: sedendo e mirando, e cioè luogo per la posizione onirica dell’io.

    Ma cos’è il colle?

    Essendo il luogo narcisistico nel quale il poeta ricorda la relazione d’amore: sempre caro mi fu quest’ermo colle, il colle è il luogo dello specchio, se non addirittura una sua controfigura. La siepe è qualcosa che si mette di traverso, una barriera che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, chiude lo spazio di fondo e nega la relazione d’amore, spingendo l’io del soggetto a interiorizzarsi e a cercarsi altrove: io nel pensier mi fingo. E’ la siepe che taglia la visione amorosa e obbliga il soggetto alla visionarietà.

    Freud spiega che il guardare e il vedere sono azioni della relazione amorosa, il guardare è come cercare l’oggetto d’amore e il vedere è toccare e praticare il profondo contatto.

    Ma cos’è, chi è la siepe?

    Sarebbe eccessivo fare nome e cognome, è probabile però che faccia pensare a una macchia, alla negatività nella quale è finita la relazione con la madre: intanto è una forma che si mette di traverso, come tutte le figure sghembe dell’inconscio.

    Ad essere escluso è l’orizzonte, segno curvo e forma di lontano contorno, movenza generale del paesaggio: qui sta per natura.

    E’ nota la polem. leopardiana con la natura, prima madre e presto matrigna: O natura natura perché non rendi poi quel che prometti allor? Così come è pure nota la protesta del poeta nei confronti del precoce disamore materno, per cui quel che si viene a perdere alla vista è - il naufragar m’è dolce - il negativo della natura.

    Il rapporto - io/natura - è a due, e la stessa analisi simbolica non fa che confermarne la realtà diadica di madre-figlio, se è vero che in tutta la letteratura leopardiana l’assenza eclatante è proprio quella del padre, come in:

    - Sempre caro mi fu quest’ermo colle

    - Silvia rimembri ancora quel tempo

    - La donzelletta vien da la campagna

    - Passata la tempesta odo augelli far festa

    - D’in su la vetta de la torre antica

    - Che fai tu luna in ciel? dimmi che fai?

    - Placida notte e verecondo raggio della cadente luna

    - O graziosa luna io mi rammento

    - Dolce chiara è la notte e senza vento

    - Vaghe stelle dell’orsa, io non credea

    Tutti questi attacchi cantano uno stato di narcisismo ferito, quello della relazione con la natura, madre/matrigna, presto interrotta nel disinganno precoce. C’è assenza della figura del padre, personalità debole: Leopardi è riuscito presto a portar via il posto del padre e perfino a sostituirvisi, se l’occupazione che giovanissimo farà della biblioteca paterna ne è già il segno.»

    Il sistema del sogno 5°Anno - 18 Febbraio 1981

    «Oggi riflettiamo su qualche citazione circa il sogno, del sogno cercheremo l’economia linguistica, in questa ci interesseremo al lavoro che fa la soggettività profonda quando sogna.

    Alcuni stralci da I concetti fondamentali della psicoanalisi, ed. Boringhieri, a cura di Humberto Nagera, a proposito del sogno:

    - il sogno è un prodotto dell’inconscio;

    - l’interpretazione è la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio;

    - il sogno è il custode non il perturbatore del sonno;

    - è una formazione di compromesso, ha una doppia funzione: da una parte è in sintonia con l’io, per il fatto che serve al desiderio di dormire mediante l’eliminazione degli stimoli che turbano il sonno; d’altra parte esso ad una spinta pulsionale rimossa permette il soddisfacimento possibile, sotto forma di appagamento allucinatorio di un desiderio…;

    - una definizione completa dovrebbe comprendere tutto il fenomeno di cui il contenuto latente e il contenuto manifesto sono le diverse componenti. La componente essenziale è il lavoro onirico… Soltanto con la comprensione delle sue regole e delle sue condizioni possiamo pervenire al contenuto onirico latente in cui si trova celato il desiderio vero;

    - il sogno è una reaz. a tutto ciò che esiste contemporaneamente come attuale nella psiche addormentata;

    - il desiderio onirico e, come noi diciamo, allucinato, e in quanto allucinazione crede nella realtà del suo appagamento;

    - dal punto di vista strutturale il desiderio di dormire appartiene all’io… il sonno può essere disturbato da rappresentazioni ossessive, angosce e desideri preconsci rimasti attivi nella vita vigile, così come anche da desideri inconsci che si sforzano di arrivare alla coscienza;

    - per Freud il lavoro di interpretazione deve proseguire oltre e scoprire il desiderio inconscio dinamico che fornisce la forza motrice al sogno…

    Noi dobbiamo considerare il sogno come un testo simbolico, che funziona linguisticamente, pertanto dovremo guardare il suo funzionamento nelle relaz. interne, i materiali, le istanze di segnalazione, i livelli del significante e quelli del significato, i loro spostamenti e i loro travestimenti.

    L’ideale sarebbe riuscire costituire il sistema del sogno.

    Problema: se l’arte funziona come il sogno, allora anche l’arte, come il sogno, permette di dormire.

    Che vuol dire?

    Fa dormire la soggettività, ne immaga l’attenzione, la distrae dal reale!»

    Prove di artisticità 5°Anno - 5 Marzo 1981

    «Oggi facciamo qualche prova di artisticità, andremo a vedere in che cosa consiste un’organizzazione di tipo artistico relativamente a un testo, tentando di misurare la differenza tra le forme non artistiche preparatorie e le forme artistiche finali, prendendo come campione i primi tre versi e le corrispondenti forme pre-artistiche, dell’Infinito di Leopardi.

    Primo verso, forme artistiche: Sempre caro mi fu quest’ermo colle

    Forme pre-artistiche - come figurano nei testi scritti da Leopardi tra la primavera e l’estate del 1819, prima della redazione definitiva - e cioè:

    a) Oh quanto a me gioconda quanto cara fummi quest’erma (sponda) plaga (spiaggia)…

    b) Sempre adorata mia solinga sponda…

    c) Caro luogo a me sempre fosti benché ermo e solitario…

    d) Sempre caro mi è - fu - quest’ermo colle…

    Differenze:

    - nella citazione a) e c) manca l’elaborazione metrico-ritmica tipica del verso, i materiali hanno solo enunciazioni di tipo psicologico, ma non di tipo ritmico-tonale, così mancano i fattori sub-liminali presenti nel verso (armonici, musicali…): questi testi preparatori diventano, allora, soltanto informazioni biografiche, pure frasi di tipo pratico-espressivo, senza diventare figurazioni poetiche e trasfigurative come quelle realizzate nel testo definitivo del verso;

    - non mancano significanti immediatamente pre-artistici, e quasi prossimi all’artisticità, come la terminologia affettiva di parole come gioconda, caro luogo, sponda-plaga-spiaggia, ermo e solitario;

    - più vicini all’esito finale le frasi b) e d), dove la frase in b) è quasi un verso perfetto, quanto alla strutturazione logico-espressiva e metrico-ritmica, ma difettoso perché è troppo evidente l’imitazione del modello petrarchesco;

    - la più interessante è la citazione in d) in quanto è la più prossima alla soluzione finale, ma dove, però, l’incertezza tra la soluzione è e la soluzione fu ne blocca l’esito.

    La volta pross. porteremo più avanti l’analisi avviata.»

    Paese e paesaggio 1A - 27 Marzo / 4 Aprile 1981

    «La Ornella Stefani ha detto che Recanati è stata la città ideale per il Leopardi, in realtà non è così, oppure è cosi solo in un certo senso; bisogna cioè distinguere una Recanati umana e una Recanati cosmica. La Recanati umana è stata ostile al Leopardi, segno di una relazione ambientale dissociata, dato che la condizione nobiliare della famiglia e l’isolamento intellettuale del poeta hanno impedito la reciproca comprensione.

    Fino ad oltre vent’anni Leopardi non è quasi mai uscito da solo, ma accompagnato o dai familiari o dal pedagogo, mancano episodi di amicizie infantili, se non quelli con il fratello Carlo e la sorella Paolina. La madre era particolarmente attenta a che il figlio non intrecciasse rapporti di amicizia, si divertiva piuttosto a torturarlo parlandogli delle maldicenze che nel paese giravano: il poeta chiamerà natìo borgo selvaggio il proprio paese, che certamente amerà ma come paese e paesaggio estetici.

    Questa relazione, cosmico-estetica, sarà eccezionalmente ammirativa: il colle, la luna, i sentieri, gli orti, le piazzette… sono tutti simboli di questo sguardo amoroso del poeta verso la natura del posto; Silvia, Nerina… saranno figure reali e sublimate dello stesso afflato amoroso.

    Figure e cose della scena del paese, che imparerà ad amare da dentro il palazzo di famiglia, ma i termini della relazione saranno regolati dalla distanza patetica e dalla passione visionaria, come ci fanno pensare:

    - La quiete dopo la tempesta: augelli far festa, la gallina tornata in su la via, il sereno rompe là da ponente alla montagna, sgombrasi la campagna e chiaro nella valle il fiume appare, torna il lavoro usato, l’artigian con l’opre in man fassi in su l’uscio a mirar l’umido cielo, a prova vien fuor la femminetta a cor dell’acqua della novella piova, e l’erbaiuol rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero, ecco il sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville, apre i balconi, apre terrazze e logge la famiglia, e dalla via corrente odi lontano tintinnìo di sonagli, il carro stride del passegger che il suo cammin ripiglia…

    - L’ultimo canto di Saffo: placida notte e verecondo raggio della cadente luna, e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe nunzio del giorno, oh dilettose e care sembianze agli occhi miei, bello il tuo rorido manto o divo cielo, e bella sei tu rorida terra…

    - Il passero solitario: d’in su la vetta della torre antica, passero solitario alla campagna cantando vai fin che non more il giorno, ed erra l’armonia per questa valle, primavera d’intorno brilla nell’aria e per li campi esulta si ch’a mirarla intenerisce i core, odi greggi belar muggire armenti, gli altri augelli contenti a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri, tu pensoso in disparte il tutto miri, odi per lo sereno un suon di squilla, odi spesso tonar di ferree canne che rimbomba lontan di villa in villa, tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case e per le vie si spande e mira ed è mirata e in cor s’allegra, io solitario in questa rimota parte alla campagna uscendo, il guardo steso nell’aria aprica mi fere il sol che tra lontani monti dopo il giorno sereno cadendo si dilegua e par che dica che la beata gioventù vien meno…

    - L’Infinito: quest’ermo colle e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, ma sedendo e mirando interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi e profondissima quiete, e come il vento odo stormir tra queste piante io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando, così tra queste immensità s’annega il pensier mio, e il naufragar m’è dolce in questo mare…

    - Alla luna: o graziosa luna sopra questo colle io venìa pien d’angoscia a rimirarti e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai che tutta la rischiari, ma nebuloso e tremulo del pianto che mi sorgea sul ciglio alle mie luci il tuo volto apparìa…

    - La sera del dì di festa: dolce e chiara è la notte e senza vento e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna già tace ogni sentiero e pei balconi rara traluce la notturna lampa, io questo ciel che sì benigno appare in vista a salutar m’affaccio e l’antica natura onnipossente, e qui per terra mi getto e grido e fremo, ahi per la via odo non lunge il solitario canto dell’artigian che riede a tarda notte dopo i sollazzi al suo povero ostello, tutto è pace e silenzio e tutto posa il mondo, ed alla tarda notte che s’udìa per li sentieri lontanando morire a poco a poco…

    - A Silvia: sonavan le quiete stanze e le vie d’intorno al tuo perpetuo canto allor che all’opre femminili intenta sedevi, era il maggio odoroso e tu solevi così menare il giorno, d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suo della tua voce ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela, mirava il ciel sereno le vie dorate e gli orti e quinci il mar da lungi e quindi il monte…

    - Le ricordanze: vaghe stelle dell’orsa, a contemplarvi sul paterno giardino scintillanti, e dalle finestre di questo albergo dove abitai fanciullo, tacito seduto in verde zolla, della sera io solea passar gran parte mirando il cielo ed ascoltando il canto della rana rimota alla campagna, e la lucciola errava appo le siepi e in su le aiuole sussurrando al vento i viali odorati e i cipressi là nella selva e sotto il patrio tetto sonavan voci alterne e le tranquille opere dei servi, la vista di quel lontano mare, quei monti azzurri che di qua scopro, arcani mondi, in questo natio borgo selvaggio intra una gente zotica, vil, qui passo gli anni, in questo soggiorno disumano, viene il vento recando il suon dell’ora dalla torre del borgo, nella buia stanza, quella loggia colà volta agli estremi raggi del dì queste dipinte mura quei figurati armenti e il sol che nasce su romita campagna, in queste sale antiche, intorno a queste ampie finestre sibilando il vento, mi sedetti colà su la fontana pensoso di cessar dentro dell’acque, Nerina, quella finestra ond’eri usata favellar più non odo la tua voce…

    La prossima volta parleremo della situazione familiare, del suo rapporto con la madre che poi si confonderà con quello che avrà verso la natura, o viceversa, dato che la natura - dice - è come una madre che mette al mondo i figli e poi li delude e li opprime».

    Parole dell’io 5°Anno - 6 Maggio 1981

    «Nella lez. precedente abbiamo visto che la simbolizzazione letteraria fa parte del processo secondario, ossia di quel processo del preconscio o della coscienza che interviene attraverso i segni verbali a legare le scariche pulsionali del processo primario.

    Freud sostiene che lo scopo principale del processo psichico primario è una scarica motoria oppure, trovando via libera, un ravvivamento allucinatorio della desiderata identità percettiva. Il processo secondario entra in scena come processo di trasformazione in energia legata, la quale si compie a vantaggio del principio di piacere e il legare è un atto preparatorio che introduce e assicura il predominio del principio di piacere.

    Per noi è forse più interessante un successivo sviluppo, quello cioè che nella contrapposizione tra processo primario e processo secondario vede il momento di una contrapposizione tra investimento di parola e investimento di cosa. Freud assicura che tutti gli investimenti di oggetti formano l’inconscio. Il sistema conscio consiste nella connessione di rappresentazione inconscia con i concetti verbali, altrove parla del sistema inconscio come del campo delle tracce mnestiche di cose (antitetiche agli investimenti di parole).

    Interessanti per il nostro argomento anche le seguenti affermazioni: Il sistema inconscio contiene gli investimenti-di-cosa degli oggetti… Il sistema del preconscio arriva a questa preparazione di cosa perché sovrainvestito dall’essere collegato con la rappresentazione di parola corrispondente. Sono questi sovrainvestimenti che portano a una più alta organizzazione psichica e rendono possibile il fatto che al processo primario succede il processo secondario dominante nel preconscio. Per rendere conscia una rappresentazione preconscia occorre un ulteriore investimento: l’esistenza della censura tra il preconscio e il conscio ci insegna che il divenire conscio non è un semplice atto di percezione, ma è probabilmente un sovrainvestimento, un ulteriore passo in avanti nella organizzazione psichica.

    Questo sovrainvestimento che per Freud emerge nel verbale e nel segno linguistico, costituenti appunto quell’ulteriore passo avanti nell’organizzazione psichica, nel testo dell’Infinito è segnalato proprio da vo comparando, nel senso che questo è il momento della trasformazione dell’investimento di cosa in organizzazione psichica, dove vo comparando è = a vado organizzando. E’ significativo che Leopardi produce questa trasformazione (quello infinito silenzio, a questa voce) proprio come trasformazione dal silenzio al linguistico naturale di: e come il vento odo stormir.

    Ossia nell’Infinito il linguistico entra in scena attraverso la voce del vento, che è la voce della natura, è a questa voce che Leopardi risponde con la sua voce, la voce dell’io, dicendo vo comparando"».

    Il piacere del simbolico 1A - 20 Maggio 1981

    «Qualche lez. fa abbiamo affermato che Leopardi è il poeta dell’amore, oggi facciamo sprofondare quell’affermazione in quest’altra: Leopardi è un poeta che ama l’amore, e ha il piacere dell’amore. E poi in quest’altra ancora: Leopardi risolve la questione della vita nell’impresa simbolica, ossia s’accorge che la vita simbolica è il massimo del sapere personale, e che il sapere simbolico offre il meglio dell’amore.

    Sa che l’immaginario è il luogo dove vive l’io, anzi è il luogo dove la vita reale viene selezionata secondo i desideri dell’io. Nello Zibaldone discute spesso dell’immaginazione, ma anche del piacere, del desiderio e dell’infinito. Fa una distinzione tra l’immaginazione dei classici e quella dei moderni. Quella dei classici, degli antichi, è tutta impegnata nella sceneggiatura del visivo, e le immagini sostituiscono il visibile. Quella dei moderni è invece tutta attratta dalla materia della sensibilità, del sentimentale, una sorta di udito interiore -, forse la materia della voce, la parola che è dentro.

    Leopardi passerà tutta la vita tra il guardare e l’udire: ma sedendo e mirando, la sua letteratura, soprattutto la poesia, è il discorso dell’incanto dell’io nella sua posizione verso la vita, continuamente polarizzata sulla vista e sull’ascolto, e a questo proposito dovremo fare un qualche esame strutturale di questi due tratti estetici della vista e dell’udito. L’occhio e l’orecchio sono le due funzioni del piacere, guardare e sentire le due relazioni più profonde dell’io, perché in fondo sono i due canali della relazione con il mondo.

    Nel titolo abbiamo affermato che Leopardi vive il piacere di ciò che è simbolico, questo piacere s’incrocia nell’atto del guardare e dell’udire. Il simbolico anzi è la messa in scena del loro insieme, da una parte la cosa che si vede, dall’altra la cosa stessa, che viene come ascoltata"».

    Vietato vivere 5°Anno - 21 Maggio 1981

    «Costanza del simbolico. Con questa formula vogliamo dare l’immagine di una vita passata tutta nella devozione di ciò che è figura del simbolico, perché Giacomo Leopardi ha vissuto fasi di investimento esistenziale in questa figura, mantenendo la pratica simbolica come esercizio stesso della vicenda del vivere, come per trovarvi una trasparenza, e la scena simbolica è in effetti un tentativo di incontro con l’evento originale.

    Povero di biografia, si sposta sulla biologia come discorso sulla vita, dove incontra l’allestimento simbolico: qualche viaggio tardivo non cambierà nulla, entrerà ben poco di nuovo nella vita, ormai era tardi, e tutti i giochi erano fatti. La vita reale, quella quotidiana, è stata semplice, potrebbe essere rappresentata in questo schema:

    a) il gioco dell’altarino: la devozione religiosa nella prima infanzia: "era sommamente inclinato alla

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