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I diari dell'Olocausto
I diari dell'Olocausto
I diari dell'Olocausto
E-book809 pagine12 ore

I diari dell'Olocausto

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Info su questo ebook

Vincitore del premio National Jewish Book

I racconti e le memorie inedite delle giovani vittime delle persecuzioni naziste

Questa commovente raccolta riunisce alcune incredibili storie scritte durante l’Olocausto da ragazzi tra i dodici e i ventidue anni. I protagonisti erano rifugiati o abitanti dei ghetti, o ancora giovani costretti a nascondersi dalla violenza delle leggi razziali. Sono pagine di diario, appunti, scritti in presa diretta, spontanei e toccanti, il cui valore di testimonianza ha pochi eguali nella storia. Quasi tutti i loro autori, infatti, morirono prima della Liberazione. Questo libro, vincitore del National Jewish Book Award, testimonia in modo vivido le impressioni e la sofferenza di chi visse sulla propria pelle lo sterminio nazista, compone il reportage inconsapevole di bambini e ragazzi alle prese con le difficoltà giornaliere dettate dalle persecuzioni. I loro pensieri, le loro idee e i loro sentimenti avvicinano il lettore a un livello più profondo di comprensione degli orrori dell’Olocausto. 

La testimonianza di una generazione assassinata

Vincitore del premio National Jewish Book

«Scritti nel terrore e nell’oscurità da giovani ebrei che attendevano la morte per mano delle SS  e dei loro complici, queste straordinarie testimonianze riecheggeranno nel cuore ferito del lettore per molti giorni e molte notti.»
Elie Wiesel

«Alexandra Zapruder ha reso un grosso servizio alla storia e al futuro: il suo libro merita di diventare una lettura obbligatoria nello studio dell’Olocausto.»
Publishers Weekly

«Questa collezione fa luce sulla vita di tutti i giorni durante l’Olocausto e ci dà l’opportunità di seguire la vita di questi ragazzi nei loro sforzi di sopravvivere al regime nazista.»
Debórah Dwork, direttrice del Centro Strassler per gli studi sull’Olocausto
Alexandra Zapruder
Laureata allo Smith College, ha conseguito un master ad Harvard in Scienze dell’educazione. È tra i fondatori dello United States Holocaust Memorial Museum di Washington, D.C. I diari dell’Olocausto, il suo primo libro pubblicato con la Newton Compton, ha vinto il National Jewish Book Award. Ha scritto e co-prodotto I’m still here, un documentario pluripremiato, basato su questa raccolta.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2017
ISBN9788822716125
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    Anteprima del libro

    I diari dell'Olocausto - Alexandra Zapruder

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Prefazione alla nuova edizione

    Ringraziamenti per la nuova edizione

    Ringraziamenti per la prima edizione

    Nota della curatrice

    Introduzione

    1. Klaus Langer

    2. Elisabeth Kaufmann

    3. Peter Feigl

    4. Moshe Flinker

    5. Otto Wolf

    6. Petr Ginz ed Eva Ginzová

    7. Yitskhok Rudashevski

    8. Ragazza anonima

    9. Miriam Korber

    10. Dawid Rubinowicz

    11. Elsa Binder

    12. Ilya Gerber

    13. Ragazzo anonimo

    14. Alice Ehrmann

    Appendici

    Appendice I. Giovani diaristi dell’Olocausto

    Appendice II. Ai margini

    Fonti e traduttori

    Note

    em

    555

    Titolo originale: Salvaged Pages. Young Writers’ Diaries of the Holocaust Collected and edited by Alexandra Zapruder

    Excerpts from the diary of Moshe Flinker, 1971 Yad Vashem, Jerusalem.

    Excerpts from the diary of Dawid Rubinowicz, © 1982 Norman Bolotin,courtesy of Laing Communications, Inc.

    Excerpts from the diary of Yitshok Rudashevski, © 1973 Ghetto Fighters’ House, courtesy of the United States Holocaust Memorial Museum.

    Second edition 2015. First edition 2002.

    Copyright © 2002, 2015 by Alexandra Zapruder.

    All rights reserved.

    Published by arrangement with Alexandra Zapruder

    Traduzione dall’inglese di Marilena Rutili

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1612-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    I diari dell'Olocausto

    I racconti e le memorie inedite delle giovani vittime delle persecuzioni naziste

    A cura di Alexandra Zapruder

    omino

    Newton Compton editori

    Alla mia cara amica e mentore Barbara Kellum

    Non sei né giovane né vecchio.

    Ma è come se dormissi dopo pranzo.

    Sognando di entrambe queste età.

    T.S. Eliot, Gerontion

    Prefazione alla nuova edizione

    Nell’estate del 1991, fresca di college, andai alla ricerca di un primo lavoro nella mia città natale, Washington d.c. Grazie a diversi periodi passati a lavorare come assistente alla ricerca, e nonostante la mia scarsa conoscenza dell’Olocausto, venni assunta come ricercatrice del dipartimento per le Esposizioni speciali presso lo United States Holocaust Memorial Museum (ushmm). Il museo come lo conosciamo oggi non esisteva ancora. L’edificio era in costruzione, una zona limitata agli operai dove ci facevamo strada tra assi di legno e impalcature; i membri più giovani dello staff, compresa me, sgraffignavano mattoni sfusi o dadi e bulloni giganti e li utilizzavano come fermacarte e, cosa più importante, come indicatori del nostro status di addetti ai lavori. Fino a poco tempo prima che il museo aprisse al pubblico, eravamo sparpagliati in sale indefinite su vari piani di un edificio di L Street. Lavoravamo in relativo anonimato; molte persone non avevano mai sentito parlare del museo e non sapevano cosa stavamo facendo. Anzi, fino a quando il museo non aprì nell’aprile del 1993, negli Stati Uniti non c’era un deposito centrale per la documentazione, la conoscenza e la formazione sull’Olocausto. Impiegai diversi mesi a trovare i miei punti di riferimento in quel lavoro. All’inizio del 1992, mi unii al team curatoriale di Remember the Children: Daniel’s Story, l’esposizione del museo dedicata ai visitatori più giovani. Poco dopo, venni assegnata alla biblioteca del museo per la ricerca sui diari scritti da bambini durante l’Olocausto. Non c’era una vera e propria biblioteca, solo un mucchio di libri in attesa di essere catalogati e messi su uno scaffale, e una scatola piena di schede a fare da archivio. Non ci perdevamo molto tempo. Bastava chiedere al bibliotecario, Bill Connelly, ciò che volevamo; lui spariva per un po’ e poi riemergeva con una battuta sagace e un libro fra le mani. Perciò, quando andai alla ricerca dei diari scritti da adolescenti, chiesi a Bill cosa leggere. Lui rovistò tra i cumuli e poi mi consegnò una pila di libri: copie logore e segnate dalle intemperie dei diari di Yitskhok Rudashevski, Dawid Rubinowicz, Moshe Flinker, Éva Heyman e Mary Berg, insieme ad alcuni volumi che includevano stralci dei diari di giovani scrittori dai ghetti di Łódź e Terezín. Non avevo mai sentito parlare di loro. Quasi tutti – eccetto quelli di Anna Frank, Etty Hillesum e Hannah Senesh – erano fuori catalogo, disponibili solo a stralci, o entrambe le cose. Dopo più di venti anni, ricordo ancora l’esperienza improvvisa, travolgente che fu leggere quei diari per la prima volta. Dall’ampia raccolta di studi storici e analisi accademiche, testimonianze riportate dai sopravvissuti, fotografie e filmati, silenziosi in modo inquietante, emergeva una voce unica, chiara, inequivocabilmente umana. Poi un’altra. E un’altra ancora.

    Una era loquace, l’altra riflessiva, un’altra ancora sincera; alcune erano liriche altre pragmatiche, alcune amare, arrabbiate, speranzose, rassegnate, sarcastiche, indignate, imploranti, e spesso tutte queste cose insieme. Mentre ero sola, nel mio piccolo ufficio, questi diari arrivarono a me con una forza viscerale, come se lo scrittore mi stesse portando per mano indietro nel tempo e in un luogo specifico, conducendomi tra i cortili del ghetto di Vilna o in un appartamento di Bruxelles o nelle strade di un misero villaggio della Polonia. Nella mia mente cominciai a vedere quello che vedevano loro, a sentire le loro domande che mi riecheggiavano nella testa, e ad assistere, con tacita compassione, alla paura, alle perdite e alla disperazione che dominarono gran parte delle loro vite.

    Dopo settimane passate a leggere quel mucchio di diari presi in prestito in biblioteca, iniziai a pormi una serie di domande che hanno guidato larga parte del mio lavoro nel decennio successivo: perché il pubblico non si è accorto di questi scrittori? Perché Anna Frank è l’unica ragazza che conosciamo ad aver scritto un diario? Questi diari sono come il suo o sono diversi? Ritornano tematiche comuni? E soprattutto, è possibile che nell’immenso universo della documentazione sull’Olocausto, siano sopravvissuti soltanto sette, otto diari tenuti da giovani scrittori? Li vedevo come le rovine romane che mi piaceva tanto studiare al college. Se gli archeologi riuscivano a trovare frammenti, urne e vasi vecchi di migliaia d’anni, di certo dovevano esserci altri frammenti scritti di questo recente passato. Ma dove trovarli? E come, dato che non parlavo altre lingue all’infuori dell’inglese e del francese, che sapevo relativamente poco dell’Olocausto, e che io stessa ero così giovane?

    Confidando solo nella legittimità delle mie domande, iniziai a buttare giù idee e pensieri su un quaderno a spirale, alla ricerca di quella che allora sembrava un’idea stravagante per condurre ricerche sull’argomento, trovare altro materiale e far riemergere quei diari dall’oscurità sotto forma di libro.

    Nel corso dei successivi dieci anni, quest’impresa ha dominato gran parte della mia vita. Nei primi anni ’90 la ricerca era identica a com’era stata per secoli e somigliava poco a quella odierna. Senza poter utilizzare Google per scandagliare internet, e con un servizio email limitato, leggevo libri e scavavo tra note a piè di pagina o a fine capitolo. Rovistavo tra i documenti dei maggiori archivi dell’Olocausto presenti in Europa e Israele per rintracciare le fonti dei diari di questi giovani scrittori. Scrivevo lettere ad autori, editori, storici, archivisti e a volte anche a sopravvissuti o a parenti dei defunti, e aspettavo la risposta per settimane.

    L’iter per ottenere l’accesso ai testi scritti fu lungo e laborioso. Potevano volerci mesi per entrare in contatto con un sopravvissuto, guadagnarsi la sua fiducia attraverso la comunicazione e convincere lui o lei a fotocopiare le pagine di diario per poi inviarmele. Poi, potevano passare ancora altri mesi prima di avere il testo tradotto, così che mi fosse possibile leggerlo. Alla fine, i miei colleghi dell’Holocaust Museum vennero a sapere quello che stavo facendo. Mentre raccoglievano materiale archivistico e intervistavano i sopravvissuti, cominciarono a chiamarmi quando un diario veniva donato al museo o menzionato durante un’intervista. Iniziai a ricevere telefonate e lettere a proposito dei diari, non solo dai colleghi ma anche da parte di perfetti sconosciuti. Ricordo ancora l’eccitazione provata quando aprii la cassetta delle lettere e vi trovai una di quelle buste inconfondibili – stropicciata a causa del lungo viaggio, con il francobollo straniero e il mio indirizzo scritto con una calligrafia ignota. In piedi nell’androne del mio palazzo, le chiavi in una mano, la borsa sulla spalla, aprii quel pacchetto per scoprirne il contenuto e poi andai verso l’ascensore e percorsi la strada fino alla mia porta senza alzare lo sguardo, esaminando ostinatamente quelle pagine allegate nel tentativo di decifrare ciò che avevo appena ricevuto. A volte, quei pacchi contenevano copie di diari tanto attese; più spesso, aprendole vi trovavo lettere di sconosciuti che avevano saputo del mio lavoro da colleghi o amici in comune, e che si erano presi il disturbo di copiare e inviare un diario scritto a mano, di cui non avevo mai sentito parlare.

    Benché la ricerca e la scoperta dei diari fossero entusiasmanti, il processo nel suo insieme è stato molto personale e spesso difficile, poiché mi obbligava a fare i conti con i problemi intellettuali, morali ed emotivi che quegli scritti sollevavano. In quegli anni, continuai a lavorare all’Holocaust Museum di tanto in tanto, ad eccezione di un breve periodo iniziato nel 1994, durante il quale lasciai Washington per conseguire la laurea specialistica in scienze dell’educazione, e per un po’ insegnai scrittura in un piccolo college di Boston.

    Ci furono partenze a singhiozzo, intoppi, deviazioni e almeno un tentativo di abbandonare del tutto il progetto. Ma il materiale aveva attecchito e si rifiutava di mollare la presa. Nel 1998, i progressi fatti mi consentirono di presentare una proposta per il libro a un redattore della Yale University Press. Firmammo un contratto per la pubblicazione l’anno seguente, e io lasciai per sempre il lavoro all’Holocaust Museum, per mettere le tende nel mio studio, dove avrei trascorso i due anni seguenti a trasformare in un libro quella massa di traduzioni grezze, appunti scarabocchiati, domande senza risposta e idee appena abbozzate.

    Mentre raccoglievo e ordinavo i diari, mettendo da parte quelli non adatti alle ambizioni del mio progetto, iniziai a incontrare difficoltà con il genere letterario. Come comprendere il significato di quei testi all’interno di un settore vasto come quello della letteratura e della ricerca sull’Olocausto? Non volevo considerare questi scrittori alla stregua di altri Anna Frank, né volevo inserire i diari che stavo leggendo in quella cornice perennemente positiva e speranzosa che accompagna il suo diario. Farlo mi sembrava falso e offendeva il senso di afflizione che provavo per le loro sofferenze e la loro morte.

    Affrontai questo problema nell’introduzione del libro, criticando quell’abitudine che ci porta a interpretare i diari di giovani scrittori come simboli di vite perdute anziché contributi complessi e legittimi alle testimonianze storiche e letterarie dell’Olocausto. Non miravo solo alla divulgazione pubblica degli altri diari dell’Olocausto scritti da giovani autori, ma anche a presentare il tutto – incluse le parole potenti e infinitamente interessanti di Anna Frank – in una chiave che riflettesse il valore intrinseco dei diari, anziché il desiderio del lettore di un finale rassicurante.

    Salvaged Pages fu pubblicato nel 2002. Il lavoro lungo e difficile era finito, e mi aspettavo una durata di vita standard per il mio libro, pensando che avrebbe destato un certo interesse per poi uscire di scena. Ben presto, sarebbe arrivato il momento di decidere cosa fare in seguito. E poi, è successo qualcosa d’inatteso. Diversi mesi dopo la pubblicazione del libro, iniziai a ricevere telefonate non dalle librerie o dai critici, ma da insegnanti, organizzatori di conferenze di educatori e capi delle comunità ebraiche che si occupavano della formazione locale sull’Olocausto. Volevano sapere se ero disponibile a parlare di Salvaged Pages, a mostrare agli insegnanti come usare il libro in classe, e a condividere consigli su come integrare le lezioni sul Diario di Anna Frank. All’inizio, accettavo questi inviti con esitazione. La formazione sull’Olocausto negli Stati Uniti era in fase di transizione; anche se gli educatori all’ushmm e altrove erano impegnati a stabilire e diffondere una metodologia responsabile per l’insegnamento della materia in un contesto americano, non esistevano ancora standard ufficiali e buone pratiche. Allo stesso modo, quanti s’impegnavano per inserire l’Olocausto nei programmi delle proprie scuole e comunità non condividevano gli stessi obiettivi educativi.

    Molte volte incontravo insegnanti e volontari guidati da una connessione emotiva, e spesso personale, con l’Olocausto talvolta accompagnata dall’imperativo morale di trasmettere un determinato bagaglio di lezioni alla generazione successiva. Erano tantissime le persone che, di fronte all’enorme portata dell’argomento in questione, abbandonavano la sua specificità storica a favore di generalizzazioni e, fin troppo spesso, di cliché sulla «disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo» e simili. La metodologia e la logica educativa adottate nelle scuole potevano essere disomogenee. Se in una scuola, l’Olocausto veniva usato come un’introduzione a vaghe lezioni sulla tolleranza, in un’altra scuola gli studenti leggevano il Diario di Anna Frank e ripetevano frasi trite e ritrite sulla speranza per l’umanità e sul trionfo dello spirito umano per la gioia dei loro insegnanti e dei dirigenti scolastici. In un’altra ancora, docenti malaccorti adottavano metodi punitivi per insegnare storia, obbligando gli studenti a ricostruire l’Olocausto chiedendo loro di provare la sofferenza delle vittime o addirittura mettere in pratica tattiche oppressive contro gli altri. Mentre accettavo sempre più inviti a parlare alle conferenze, nelle scuole o nelle sedi della comunità ebraica, nelle sinagoghe, mi ritrovai alle prese con questo terreno emergente e mutevole. Così come la raccolta dei diari era stata una lenta accumulazione di materiale che impiegò sei anni per diventare un libro, Salvaged Pages diventò gradualmente uno strumento educativo nei dieci anni successivi. Nel 2005, collaborai con mtv per la realizzazione di un documentario basato sul libro, intitolato I’m Still here, e lavorai insieme alla organizzazione non-profit educativa Facing History and Ourselves alla creazione di materiali per lo studio del film in classe. Il dipartimento educativo dello ushmm adottò Salvaged Pages come uno dei suoi testi fondamentali, invitandomi a parlare in occasione dei forum sull’istruzione in giro per la nazione e distribuendo copie del libro a migliaia d’insegnanti negli anni a seguire. In quel periodo, incontrai insegnanti che avevano difficoltà a cambiare norme e valori in questo settore, e che erano impegnati nella formazione professionale presso l’ushmm, lo Yad Vashem, la Facing History and Ourselves e altre istituzioni. Riconoscevano il valore dei diari di Salvaged Pages e mi coinvolsero in un dialogo su come contestualizzare il materiale. M’invitarono a insegnare ai loro studenti e a tenere presentazioni in occasione di conferenze di educatori, e mi spinsero a riflettere su come il contenuto potesse essere meglio adattato alle lezioni in classe. Molti di questi insegnanti sono diventati miei buoni amici e colleghi, e il loro lavoro non ha soltanto plasmato l’insegnamento di Salvaged Pages, ma ha anche donato al libro una seconda vita.

    Ora, durante questi tredici anni dalla prima edizione, ho viaggiato per gli Stati Uniti per parlare del libro in un numero impressionante di città. I miei ricordi di quei luoghi sono come uno studio dei contrari. Una settimana, sono in piedi sul palco di un’aula magna elegante e silenziosa di una prestigiosa scuola privata in California, con gli studenti che scrivono educatamente sui loro laptop; quella dopo, sono in un’aula magna cavernosa, con ottocento preadolescenti chiassosi a Tucson, Arizona, quando uno studente si alza in piedi per chiedermi: «Parla ebreo?». Sto parlando ad un gruppo di giovani studentesse ortodosse della Yeshiva University, tutte con il capo coperto, che indossano maniche e gonne lunghe. E sono in un’aula dei bassifondi con macchie di umidità e intonaco scrostato, dove scoppiano risse nei corridoi e gli studenti mi guardano con sospetto, dubitando della mia capacità di dire qualcosa che risulti minimamente interessante o significativa ai loro occhi.

    Mi trovo in un anonimo centro congressi a leggere una difficile pagina di diario che parla degli ebrei che lucravano sulle altre vittime per sopravvivere nel ghetto, quando un rabbino mi rimprovera per avere disonorato il ricordo dei morti. Sono in una stanza piena zeppa di cristiani ed ebrei alla Mobile Public Library in Alabama, poi nella sensazionale sinagoga di Birmingham, e più avanti nel piccolo centro congressi di Monroeville, con sessanta insegnanti non ebrei, dove il gruppo recita preghiere prima di mangiare e ringrazia Gesù per il nostro cibo. Ho incontrato gli studenti in piccole biblioteche di periferia, in campus di scuole parrocchiali, in aule di scuole private progressiste e in scuole di campagna dove nessuno ha mai conosciuto un ebreo, figurarsi pensato d’imparare le tradizioni, la cultura e la religione delle principali vittime dell’Olocausto. Sono stata in tantissimi centri congresso asettici e in logore sale di hotel, dove gli insegnanti vengono per un incontro di una sola giornata e animano lo spazio con domande, osservazioni e profondo coinvolgimento verso la materia e il suo potenziale per gli studenti.

    In ogni contesto, tutte le volte, che io sia con gli studenti o con gli insegnanti, che loro siano ben informati o ne sappiano poco, ci avviciniamo ai diari con lo stesso approccio basico. Apriamo il libro e leggiamo le pagine ad alta voce, soffermandoci sulle parole e lasciando che le nostre domande vengano a galla. Le nostre osservazioni ci conducono alla riflessione, alla contemplazione e a una comprensione più profonda. A volte discutiamo la realtà storica dell’oppressione nazista in un luogo e in un periodo particolari; altre volte approfondiamo le abissali trasformazioni causate dalla fame e del suo impatto devastante su corpo, mente e spirito; e a volte parliamo di speranza, fede e disperazione o di vergogna, risentimento, rabbia, o di sopravvivenza e perdita. Parliamo del male e di Dio ci chiediamo chi sia il responsabile. Parliamo di Anna Frank e del motivo per cui il suo diario è stato letto in quel modo, e su come riconsiderarlo. I diari non mancano mai di suscitare pensieri e quesiti; singolarmente, spezzano l’esperienza dell’Olocausto in tanti momenti che riflettono la complessità di una vita; presi nel loro insieme, offrono racconti complementari e talvolta contraddittori che sfidano semplificazioni e generalizzazioni. E anche se questi testi non possono riportare in vita i loro autori o riscattarne la morte, possono preservare la memoria e complicare, nel miglior modo possibile, la nostra conoscenza di questo passato storico. Senza mai perdere la sua pregnanza nel tempo, il libro ha continuato a creare per me opportunità e sfide. Negli anni più recenti, ho parlato di Salvaged Pages in occasione di alcuni giorni intensivi di lezioni consecutive alla Maya Angelou Academy, scuola privata assegnata al d.c. Juvenile Detention Center, centro di detenziona giovanile. Passo attraverso il metal detector, consegno telefono e chiavi ed entro in isolamento per parlare a studenti che sono anche detenuti, colpevoli di reati ma anche vittime di circostanze ingiuste. Mi ricevono quasi tutti con calore, rispetto e anche curiosità; altri sono così storditi dai farmaci o disinteressati che appoggiano la testa sul banco e dormono. «Sei ebrea?», mi chiedono, e quando dico sì, ridono, imbarazzati. «Mai conosciuto un ebreo prima». «Cosa pensi?», domando, sorridente, e loro ridono di nuovo, con una tale dolcezza che è difficile credere che siano in prigione per crimini violenti.

    Questi adolescenti perlopiù afroamericani, la cui capacità di lettura è in genere molto sotto la media, s’impegnano duramente per cogliere l’essenza del libro, ma articolano con sicurezza pensieri profondi, difficili, sull’ingiustizia, la sofferenza, la violenza e la sopravvivenza. Parliamo di quanto la nostra vita sia dominata dal caso, e di ciò che facciamo con le carte a nostra disposizione. Parliamo di equità e giustizia, e di quello che gli adolescenti ebrei hanno subìto durante l’Olocausto. «Non avrei mai potuto affrontare ciò che hanno affrontato loro», dice un ragazzo. «Li avrei uccisi quei bastardi», replica un altro.

    E pur sapendo che una sessione di quarantacinque minuti passata a parlare di Salvaged Pages ha poche speranze di cambiare il corso della vita di questi ragazzi, mi fa comunque male sapere che in pochissimi riusciranno a ricostruirsi una vita una volta fuori dal sistema di giustizia penale. In un’altra occasione, mi sono recata a Shanghai per lavorare con gli studenti della Concordia International School sulla narrativa personale, prendendo i diari come modelli e fonte d’ispirazione.

    Durante la settimana, gli studenti, per la maggior parte espatriati, che si distinguevano nell’ambiente rigorosamente accademico della scuola, incontrarono difficoltà a mettere temporaneamente da parte le loro capacità analitiche e dedicarsi alla ricerca personale, all’osservazione e all’espressione di sé. Non fu facile per loro, e per me non fu facile capire in che modo parlare di Salvaged Pages in Cina differisse dal farlo in America. Un esiguo numero di studenti riuscì nell’impresa, molti altri, cresciuti in culture che non incoraggiano la condivisione di sentimenti e pensieri personali, si sentivano a disagio e addirittura frustrati. Alcuni non sapevano cosa scrivere o come svolgere un compito aperto in cui non esiste una risposta sbagliata. I loro insegnanti ce la mettevano tutta per far funzionare l’esperimento, incoraggiandomi a sollevare queste questioni direttamente. E così facemmo, alle prese con la finalità e il significato della scrittura personale, e dei sentimenti privati e talvolta dolorosi che può evocare. Anche se la nostra settimana insieme non rese tutti dei diaristi, li sfidò a esplorare i loro ricordi e usare le parole per capire il significato delle loro esperienze. Da parte mia, ripartii con una comprensione più profonda delle cose di cui gli studenti necessitano per non concepire la lettura dei diari di Salvaged Pages solo come storia o letteratura e di utilizzarli come un’ispirazione per la loro scrittura.

    La notte prima di partire, parlai allo Shanghai Literary Festival da M on the Bund, il favoloso ed elegante ristorante-bar affacciato sulla strada principale che attraversa Shanghai. Alla mia sinistra, attraverso una fila di finestre, potevo vedere il fiume Huangpu con le chiatte che galleggiavano lentamente, costeggiate da un lato dagli eleganti edifici del diciottesimo e diciannovesimo secolo e, dall’altro, dal profilo ultracontemporaneo, quasi extraterrestre, di Pudong.

    Per un attimo mi domandai cosa avrebbero pensato Yitskhok Rudashevski o Moshe Flinker o Elsa Binder se avessero potuto immaginare le loro parole che riecheggiavano in quella sala, portando degli sconosciuti alle lacrime, così lontano nel tempo e nello spazio da tutto ciò che avrebbero mai potuto conoscere.

    Poco dopo aver insegnato in Cina, andai in Israele per la prima volta per parlare alla Yad Vashem’s Ninth International Educator’s Conference. Nella settimana precedente la conferenza, conobbi e intervistai Sarah Kalivatsch, la prima cugina di Yitskhok Rudashevski, e il giorno successivo Leah Levy e Rebecca Schweber, due delle sorelle di Moshe Flinker. Erano tutti sopravvissuti all’Olocausto e restavano gli unici collegamenti viventi con questi autori. Durante ciascuna intervista, parlammo per ore mentre io snocciolavo una domanda dopo l’altra, cercando di far rivivere sessant’anni di vecchi ricordi, di scorgere Yitskhok e Moshe, non come gli scrittori che conoscevo attraverso le loro parole, ma come i ragazzi che erano all’epoca. La settimana successiva, durante una sessione plenaria mattutina, in un imponente auditorium pieno di quattrocentocinquanta educatori da tutto il mondo, lessi un estratto dal diario che Moshe scrisse quando si spacciava per non ebreo, nel Belgio occupato. Più di qualsiasi altro scrittore, scrisse con passione della promessa di un riscatto degli ebrei e diede voce ai suoi sogni di fuggire dall’oppressione nell’Europa occupata per vivere in una patria ebraica.

    Ogni volta che mi alzo in piedi per pregare rivolgo tutta la mia anima alla mia bellissima terra, e la vedo davanti ai miei occhi; vedo la costa, vedo Tel Aviv, Jaffa e Haifa. Poi vedo Gerusalemme, con il Monte degli Ulivi, e vedo il Giordano che scorre dal Libano al Mar Morto. […] Già molte volte ho domandato a me stesso se avrò mai la possibilità di posare i piedi sul suo suolo sacro, se il Signore mi permetterà di passeggiare sulla mia terra. Oh, quanto ti desidera la mia anima, patria mia, quanto i miei occhi bramano di vederti, mia nazione, Terra di Israele.

    Ancora una volta, parole vecchie diventano nuove, mentre vedo Tel Aviv, Jaffa e Gerusalemme non come la turista che sono stata per tutta la settimana, ma attraverso gli occhi di Moshe come ebreo e sionista devoto, prima ancora che lo Stato d’Israele esistesse. E mentre leggo – il mattino successivo Hamas avrebbe lanciato i primi missili su Gerusalemme, dando inizio ad un’altra guerra – quasi aspettandomi un raid aereo da un momento all’altro, ricordo che Moshe non soltanto sognava Israele ma imparò da solo l’arabo durante la latitanza, per poter diventare un diplomatico dopo la guerra. Fu difficile e laborioso, ma necessario, scrisse, per assicurare la pace in Israele, doveva essere «capace di parlare con i nostri fratelli, i figli di Ismaele, che sono anche i discendenti di Abramo».

    Moshe non visse abbastanza a lungo per calpestare la terra sacra d’Israele, e non riuscì mai a parlare ai suoi abitanti arabi nella loro lingua madre, alla ricerca di comprensione e pace. Fu deportato ad Auschwitz-Birkenau e infine a Bergen-Belsen, dove si arrese al tifo. Ma quel mattino perfetto e luminoso, mentre le sue parole riecheggiavano alla conferenza dello Yad Vashem, non furono più soltanto sue; a loro, aggiungemmo il nostro pianto per il sogno realizzato che lui non riuscì a vedere, disperazione per l’inafferrabile promessa di pace, e dolore per tutto quello che andò perduto con la sua morte.

    Credevo di aver già sondato gli abissi di questi diari negli anni dedicati ad assemblare Salvaged Pages. Ma le esperienze vissute in più di dieci anni mi hanno insegnato che non c’è un limite. Non sono testi statici, ma dinamici, che continuano a sfidare e provocare, a suscitare una riflessione originale da parte dei lettori, nel loro contesto spazio-temporale specifico.

    Pertanto, non li leggiamo solo per far luce sul passato storico ma anche per illuminare il nostro presente moralmente complicato. E forse, nella migliore delle ipotesi, ci porteranno a fare un passo in più sfidandoci, supportando, mutando o anche plasmando quello che pensiamo, crediamo e sentiamo. E non si può sapere quale beneficio potrebbe derivarne.

    Sono passati trent’anni da quando ho iniziato a lavorare a questi scritti. Molte cose sono cambiate dalla pubblicazione di Salvaged Pages nel 2002, negli anni in cui è stato adottato come risorsa formativa dalle comunità degli Stati Uniti e del mondo. Ho perseguito l’idea di una nuova edizione, in parte perché il genere stesso è cresciuto – nel tempo sono stati pubblicati tanti nuovi diari – e in parte perché ci sono cose nuove da dire, grazie alle innumerevoli letture attente e all’influenza degli insegnanti e degli studenti che hanno condiviso con me osservazioni e interpretazioni.

    Ma soprattutto, il ruolo incessante di Salvaged Pages come strumento educativo in un mondo che cambia ha iniziato a far sollevare domande su ciò di cui insegnanti e studenti, in particolare, hanno bisogno per comprenderne il significato. Per molti, l’istruzione non si basa più su un testo scritto con una sporadica immagine di accompagnamento. I libri sono animati digitalmente; i siti web offrono un accesso facile a un gran numero di risorse; e svariate piattaforme permettono a studenti e insegnanti di imparare, conversare e condividere idee senza trovarsi a distanza ravvicinata. Negli anni in cui la tecnologia stava rivoluzionando le modalità d’insegnamento, gli autori sopravvissuti entravano negli ultimi decenni della loro vita, depositando un bel po’ di materiale in archivi e musei, inclusi reperti, foto storiche, opere d’arte inerenti quel periodo, documenti e lettere, testimonianze orali e altre prove che rendono conto degli eventi che hanno preceduto la stesura del diario o che ci dicono cosa è successo quando le parole ruppero il silenzio. Intanto, anche l’erudizione sull’Olocausto ha continuato a crescere, offrendo a educatori e studenti definizioni enciclopediche di termini ed eventi, mappe e risposte a quasi tutte le domande storiche che questi testi possono sollevare. Ed esponenti di tutti i settori – registi di documentari, studiosi, docenti, scrittori e artisti – hanno sviluppato i loro progetti basati sui diari, pubblicando nuove edizioni, realizzando film, creando offerte formative, e dando il via a progetti di gruppo per commemorare gli autori.

    La nuova edizione di Salvaged Pages riflette una nuova idea delle sue possibilità educative e, pertanto, esiste in tre versioni collegate tra loro: questa edizione aggiornata, un e-book arricchito e un sito educativo per gli insegnanti. La versione cartacea, più grande per facilitarne la lettura, include nuovi dettagli sui diari, diverse voci aggiunte alla lista dei diari di giovani scrittori alla fine del libro, e un nuovo indice analitico.

    Al tempo stesso, Salvaged Pages è disponibile in formato e-book, con definizioni, mappe, immagini delle pagine, foto storiche e personali, documenti chiave e filmati con le testimonianze orali di alcuni degli scrittori sopravvissuti o di loro parenti stretti. Infine, in collaborazione con Facing History and Ourselves e un team di professori universitari, abbiamo creato un sito con materiali educativi che offrono modalità specifiche per utilizzare i diari nell’insegnamento della storia, dell’analisi del testo, e della scrittura.

    A differenza del progetto, per lo più isolato, di scrivere Salvaged Pages negli anni ’90, questa revisione è frutto di uno sforzo collettivo tra diverse discipline, con un team di collaboratori che hanno messo a disposizione del lavoro una vasta gamma di competenze e conoscenze. Il nostro obiettivo fondamentale è fornire un aiuto a studenti e insegnanti e rendere i diari di Salvaged Pages uno strumento indispensabile per l’insegnamento dell’Olocausto attraverso la loro contestualizzazione, così che siano accessibili e utili a chiunque voglia leggerli.

    Infine, i diari come testimonianza storica e letteraria dell’Olocausto restano il cuore pulsante di Salvaged Pages. La nostra speranza è che questa nuova edizione, nelle sue molteplici forme, possa continuare a coinvolgere e ispirare nuove generazioni di lettori, e che le parole partorite con tanta fatica da questi scrittori come rifugiati, latitanti, nei ghetti dell’Europa nazista, continuino a riecheggiare tra insegnanti e studenti, alimentando nuove domande, stimolando ipotesi, e infiammando il dialogo sull’Olocausto e su cosa significhi essere umani.

    Ringraziamenti per la nuova edizione

    Sono immensamente grata ai tanti colleghi e amici che hanno reso possibili questa nuova versione e l’e-book arricchito di Salvaged Pages.

    Prima di tutto, vorrei ringraziare Ingrid Tauber e la Tauber Family Foundation per la generosa donazione che ha reso possibile questo progetto. Vi siamo tutti debitori. Inoltre, grazie all’Holocaust Museum Houston, alla Warren Fellowship for Future Teachers e alla Naomi e Martin Warren Family Foundation per aver contribuito ai finanziamenti necessari in fase di sviluppo, e a David Belle e Mary Lee Webeck. La Warren Fellowship for Future Teachers è sostenuta in onore della sopravvissuta Naomi Warren dai suoi figli, i suoi nipoti e i pronipoti.

    Le parole non possono esprimere a pieno la profondità della mia gratitudine verso i sopravvissuti e i membri delle loro famiglie, che hanno investito tempo, energie e forza per contribuire a questo progetto. Grazie a Miriam Korber Bercovici, alla famiglia Shek, a Jacob Langer e sua figlia Yael, che hanno generosamente condiviso documentazioni familiari, fotografie e altro materiale privato. In particolare vorrei ringraziare Leon Schwimmer per la sua inesauribile determinazione a organizzare le interviste con le sorelle di Moshe Flinker, per aver risposto a domande infinite, e per avermi aiutato a ottenere immagini importanti da usare nell’e-book. Sono grata alle sorelle di Moshe Flinker, Leah Levy e Rebecca Schweber, che mi hanno accolto a casa di Leah con caffè e dolci, e per avermi raccontato pazientemente del loro amato fratello e della loro famiglia. Parimenti, ringrazio Ilana Kazovsky per aver reso possibile l’intervista con sua madre, e sono grata a Sarah Kalivatsch per aver condiviso i suoi tanti ricordi e le fotografie del caro amico e cugino Yitskhok Rudaschevski. A Chava Pressuburger, ti ringrazio ancora e sempre per la tua generosità e il tuo calore, e per tutti i modi in cui hai sostenuto e incoraggiato questo lavoro. E al caro Peter Feigl, sei il miglior capitolo tre che potessi desiderare! Grazie, per la tua incredibile energia, il tuo entusiasmo mai sopito, l’aiuto appassionato, e per la tua amicizia, di cui faccio tesoro.

    Molti colleghi hanno contribuito allo sviluppo dell’e-book e ai materiali educativi. Vorrei ringraziare in particolare Suzy Snyder dello United States Holocaust Memorial Museum per aver sempre fatto di tutto per aiutarmi a trovare e utilizzare i materiali migliori. Grazie a Judith Cohen e Nancy Hartman per aver aiutato con la ricerca fotografica, Bret Werb per avermi aiutato nella comprensione della raccolta di canzoni di Ilya Gerber dal ghetto di Kovno e per aver condiviso registrazioni musicali per l’e-book, e Ann Millin per avere aiutato con i documenti di archivio. Sono immensamente grata a Jonathan Brent, Fruma Mohrer, Shmuel Klein e Marek Web del yivo Institute for Jewish Research per l’accesso illimitato alle collezioni Nachman Sonabend e Kaczerginski-Sutzkever. Vorrei ringraziare anche lo staff addetto alla raccolta e agli archivi dello Yad Vashem, del Museo Gaon di Vilna, dell’Istituto di storia ebraica di Varsavia, dell’Archivio di Stato belga, del Direttorato generale delle vittime di guerra di Bruxelles, che hanno fornito documenti prezioni per l’e-book e i materiali educativi. In questi archivi, Agnieszka Reska, Ilona Murauskaite, Michal Feiner, Filip Strubbe e Sylvie Vander Elst sono stati particolarmente gentili e collaborativi, così come Dorien Styven del Museo di storia ebraica di Malines, in Belgio. I miei più sentiti ringraziamenti a Eva Wymark, direttrice di Bodzentyn.net, che mi ha offerto un grande aiuto per le informazioni e i materiali relativi al diario di Dawid Rubinowicz, e a John Braat grazie al quale ho approfondito la mia conoscenza della storia della famiglia Flinker e che ha condiviso con me importanti materiali grafici. Grazie alla usc Shoah Foundation Institute for Visual History and Education per avermi accordato il permesso di usare le interviste ai sopravvissuti nell’e-book. Si tratta di contributi davvero speciali, per cui siamo profondamente grati. Grazie anche alla mia cara amica Daphna Cohen-Mintz in Israele e a Magal Lotan dell’Università di Be’er Sheva per avermi aiutato a ottenere le copie delle foto di famiglia e dei carteggi personali della famiglia di Chava Pressburger. Infine, per conto di Bonnie Sussman, ringrazio il dottor Simon. P. Sibelman, Leon Levine professore emerito di studi ebraici, sull’Olocausto e sulla pace dell’Appalachian State University di Boone, North Carolina, per l’aiuto con il diario di Elisabeth Kaufmann.

    Grazie a Shoshana Mandel per il suo inestimabile contributo come interprete durante le interviste in Israele e a Gabriel Wagon per averle filmate. Grazie anche a Julie Donat, Mona Momescu e Hana Rudnick per aver tradotto le interviste straniere in inglese per l’e-book, e a Fritz Paul Gluckstein, D.V.M. per aver tradotto l’ultima lettera di Erich Langer a suo figlio Klaus. Per il supporto amministrativo, ringrazio Ash Lago, Taly Ashkenazi, Michael Lemanski e Elissa Gallagher. Bill Nelson ha creato le mappe e Nancy Zibman ha compilato l’indice.

    Alla Yale University Press, vorrei ringraziare specialmente Sara Sapire, che ha supervisionato la produzione dell’e-book e mi ha guidato nel terreno sconosciuto dei formati e delle piattaforme digitali. Ringrazio anche Jenya Weinreb per la pazienza e la diligenza profuse nel verificare le revisioni del manoscritto. Alla mia cara amica e curatrice paziente, pronta e lucida Sarah Miller, ti ringrazio per aver visto le potenzialità di questo progetto e per averlo portato fino alla pubblicazione. Ti sarò sempre grata per gli infiniti modi in cui mi hai aiutato a realizzare questo progetto.

    Mi sento molto fortunata ad aver trovato il mio agente letterario, Gail Hochman, che ha negoziato i complicatissimi contratti di pubblicazione per la nuova edizione in brossura e le edizioni e-book di Salvaged Pages con trasparenza, efficacia, saggezza e cuore.

    Sono in debito con Marc Skvirsky, Adam Strom, Fran Sterling e lo staff di Facing History and Ourselves che non si sono mai tirati indietro di fronte alla possibilità di un lavoro di collaborazione in ambito storico ed educativo. Il vostro team ha contribuito con supporto materiale, infinite ore di lavoro ed esperienza professionale alla creazione dei materiali educativi, e avete dato al nostro programma formativo una dimora fissa sul sito di Facing History. Siete partner nel vero senso della parola, e sono grata di aver avuto l’opportunità di lavorare con voi.

    Lascio i miei ultimi e più sentiti ringraziamenti ai miei coautori nella creazione della versione e-book di Salvaged Pages e dei materiali educativi complementari. Quando abbiamo iniziato questo lavoro, non avevamo idea di quanto fosse complicato, impegnativo e totalizzante fosse il progetto. Per tutti i cavilli amministrativi e metodologici, mi dispiace, e vi ringrazio per aver tenuto duro. Come team, avete speso più tempo, energia e impegno mentale di quanto ci si aspetterebbe. Eppure, in qualche modo, sapevo che ce l’avreste fatta. Avete sempre dimostrato una dedizione notevole verso questi diari e un impegno a portarli di fronte a studenti e professori. Sono fortunata ad avere partner e amici così in questo lavoro, e vi ringrazio con tutto il cuore per le ore passate a far diventare realtà la nostra visione comune.

    Bryan Davis si è occupato della prima revisione del manoscritto per identificare e apportare migliorie all’e-book, ha preparato i termini del glossario, e ha lavorato al mio fianco per creare e compilare i primi fogli di lavoro che disegnavano lo schema del progetto.

    Sheila Hansen ha condotto una dettagliata ricerca iconografica per l’e-book, inserendo foto d’archivio e personali, documenti e filmati, e ha esaminato, raccolto e identificato i video contenenti le testimonianze orali per l’e-book. Le sono grata per la pazienza inesauribile e per il duro lavoro.

    Lisa Bauman, Colleen Tambuscio e Bonnie Sussman hanno creato l’offerta formativa per Salvaged Pages, che diventerà una parte permanente del sito educativo per Facing History and Ourselves. Hanno condiviso risorse, condotto nuove ricerche, sviluppato attività e contribuito con anni di esperienza in classe al prodotto finale. È stata un’iniziativa ambiziosa e sono grata per il tempo, l’energia e l’impegno che hanno profuso.

    Fran Sterling ha fatto da tramite fra gli insegnanti e Facing History e ha dato contributi significativi in ogni fase. Ha supervisionato l’immenso progetto editoriale e preparato i materiali per la pubblicazione sul sito, riscritto e rifinito le attività, trovato i fondi necessari, aiutato con i permessi e l’accesso ai materiali e svolto tantissimi altri compiti ingrati senza i quali l’offerta formativa non sarebbe stata completa.

    Una parola di ringraziamento finale e personale a mio marito, Craig Dye, che con il suo supporto e la sua comprensione rende possibile il mio lavoro, e ai nostri amatissimi figli, Hannah e Toby, che m’ispirano oltre ogni limite e che rendono importante ogni cosa.

    Ringraziamenti per la prima edizione

    Questo progetto non sarebbe esistito senza la gentilezza e la generosità delle persone negli Stati Uniti, in Europa, in Israele. Tra questi vi sono principalmente i sopravvissuti all’Olocasuto, i parenti e gli amici dei giovani scrittori, ancora in vita o deceduti, che hanno condiviso i diari con me, risposto a innumerevoli domande e che, in modi piccoli e grandi, hanno incoraggiato il mio lavoro sull’argomento. Per questo, sono profondamente grata a Werner T. Angress, Andrea Axt, Janina Bauman, Miriam Korber Bercovici, Norman Bolotin, Aleksander Demajo, Debórah Dwork, Selma Engel, Peter Feigl, Jacob Fishkin, la famiglia di Moshe Flinker, Raymonde Frazier, Felicitas (Lici) Garda, Helga Weissová Hošková, Lilly Isaacs, Inga Joseph (conosciuta anche come Ingrid Jacoby), Helga Kinsky, Elizabeth Koenig, Clara Kramer, Michael Kraus, Moshe Kravec, Jacob Langer, Jutta Levy e Debbie Levy, Guido Lopez, Thomas Mandl, Halina Nelken, Ana Novac, Elisabeth Orsten, Mirjam Pinkhof, Chava Pressburger, Anne Ranasinghe, Macha Rolnikas (conosciuta anche come Masha o Maria Rolnikaite), Lillyan Rosenberg, Tamara Lazerson Rostovsky, Eva Roubíčková e Vera Wiser, Lena Jedwab Rozenberg e Dorothée Rozenberg, Gertrude Schneider, Alisa Shek, Leo Silberman, Edith Velmans, Charlotte Verešová, Werner Warmbrunn, Susi Hilsenrath Warsinger, Denise Weill, Paul Weiner e Leon Weliczker Wells.

    Molti giovani scrittori non sono riusciti a vedere la fine della guerra e i loro diari sono custoditi da archivi e musei in tutto il mondo. Sono particolarmente grata a quegli archivi che hanno fornito documenti e concesso il permesso di usarli per questo lavoro, tra cui quello dello United States Holocaust Memorial Museum di Washington, d.c.; della Beit Theresienstadt, a Givat Haim Ihud, in Israele; del Centre de Documentation Juive Contemporaine di Parigi; della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano; dello Jewish Historical Institute di Varsavia; dello Joods Museum van Deportatie en Verzet di Malines; i Kibbutz Moreshet Archives in Israele; i Lithuanian Central State Archives di Vilnius; quello del Museum of Jewish Heritage di New York; quello del Museo ebraico Gaon di Vilna; dell’yivo Institute for Jewish Research di New York; della Federazione delle comunità ebraiche in Iugoslavia, a Belgrado; dell’Herinneringscentrum Kamp Weserbork nei Paesi Bassi; del Museo ebraico di Praga, e dello Yad Vashem a Gerusalemme.

    In questi archivi, ci sono singoli bibliotecari e archivisti che con il loro aiuto e la loro cortesia sono andati oltre tutte le aspettative. Vorrei ringraziare in particolar modo William Connelly, Steven Vitto, Mary Ann Leonard, e Mark Ziomek dello United States Holocaust Memorial Museum, Alisah Schiller della Beit Theresienstadt, Alina Skibinska del Museo di storia ebraica di Varsavia, Judith Kleiman dello Yad Vashem, Rachel Kostanian del Museo ebraico Gaon di Vilna di Vilnius, e Esther Brumberg del Museum of Jewish Heritage di New York.

    Un piccolo ma generoso gruppo di persone e fondazioni ha finanziato le traduzioni di questo progetto. Sono molto grata a Diane Troderman e all’Hatikva Holocaust Center di Springfield, Massachussetts. Kamira Korff e la Baruch Korff Foundation, la famiglia Pozez, Steven Ludsin e la Remembrance of the Holocaust Foundation, i miei genitori, Marjorie e Henry Zapruder, e Marcia Kurtz per il loro contributo inestimabile nel finanziamento delle traduzioni che hanno reso i diari accessibili al pubblico.

    Un vero e proprio esercito di traduttori attenti ha tradotto questi diari dalla loro lingua madre all’inglese. Sono loro grata per la loro competenza, il talento e l’ingegno, e per i tanti sforzi compiuti per questo progetto. Loro sono Madeline Vadkerty, Ivo Řezníček e Benjamin Herman (ceco); Małgorzata Markoff e Kristine Belfoure (polacco); Maya Popovič (serbo-croato); Dana Keren (yiddish, ebraico e polacco); Galeet Westreich (ebraico); Solon Beinfeld and Tina Lunson (yiddish); Kenneth Kronenberg e Gerald Liebenau (tedesco); Radu Ioanid e Julie Donat (romeno); Laszlo Szimonisz e Peter Katona (ungherese). Vorrei anche estendere il mio ringraziamento a coloro che hanno tradotto precedentemente alcuni dei diari contenuti in questo libro. Tra di loro ci sono Peter Feigl (francese e tedesco), Micheal Kubat (ceco), Percy Matenko (yiddish) e Derek Bowman (polacco).

    Vorrei rivolgere un ringraziamento speciale ai tanti colleghi e amici dello United States Holocaust Memorial Museum che hanno supportato questo lavoro per quasi dieci anni. I membri dello staff e i volontari delle varie divisioni – Biblioteca, Archivi, Raccolte, Archivi fotografici, Registro dei sopravvissuti ebrei all’Olocausto, Storia orale, Formazione, Mostre e il Centro per gli studi avanzati sull’Olocausto – sono sempre venuti in mio aiuto, fornendomi non solo materiale da fonti primarie e secondarie, ma interviste, contatti, fotografie, idee, traduzioni informali e, soprattutto, quel tipo di incoraggiamento che fa tutta la differenza. Vorrei ringraziare in particolare Vadim Altskan, Brewster Chamberlin, Emily Dyer, Raye Farr, Martin Goldman, Sara Greenberg, Jerzy Halberzstadt, Ken Haman, Patricia Heberer, Radu Ioanid, Ferenc Katona, Marvin Liberman, Genya Markon, David Marwell, Scott Miller, Susan Morgenstein, Klaus Mueller, Jacek Nowakowski, Teresa A. Pollin, Jerry Rehm, Mary Lou Riccio, Joan Ringelheim, Travis Roxlau, Diane Saltzman, Sara Sirman, Suzy Snyder, Paul Thomas, Shari Rosenstein Werb, Bret Werb, e la compianta Sybil Milton.

    Sono stata estremamente fortunata nel corso di questo progetto ad avere al mio fianco colleghi e amici informati, premurosi e generosi. I loro contributi hanno assunto diverse forme e sono stati sia materiali che spirituali; non avrei mai voluto dedicarmi a questo lavoro senza di loro. Primi tra questi sono Michael Berenbaum, Maria Bucur, Steve Cogil, Ellen Diamond, Brian Funck, Deborah Gaffin, Alexandra Garbarini, Jennifer Gaylin, Mimi Hellman, Zuzana Justman, Anita Kassof, Barbara Kellum, Sara Lawrence Lightfoot, Frank Lawrence, Dini McCullough, Kelly McHugh, Kristy Sager, Philippa Shepherd, Jillaine Smith, Alicia Seiger, Marion Usher, Melody Wilenski, Carin Zelenko e il rabbino Daniel G. Zemel.

    Il mio grazie va anche alla mia ristretta cerchia di amici che hanno offerto il loro aiuto, suggerimenti e contributi al manoscritto. Voglio ringraziare in particolare Joan Ringelheim, alla quale ho parlato per prima di questo progetto, e che mi ha aiutato, consigliato e incoraggiato fin dall’inizio. François Guilleux che ha ascoltato tutte le mie idee e pazientemente letto e commentato le prime bozze del manoscritto; Sara Hendren, che è stata una vera anima gemella, un’amica e una sostenitrice devota; e Michal Downing, la cui amicizia, solidarietà, ironia e saggezza sono state spesso la mia salvezza.

    A questo, vorrei aggiungere i miei più sentiti ringraziamenti alla mia meravigliosa agente letteraria Jennifer Lyons, che ha subito capito questo progetto, e al direttore editoriale della Yale University Press, Jonathan Brent, che ha dato supporto ed entusiasmo, e a cui sarò sempre grata per aver reso realtà questo libro. Hannah Tinti e Heather Currier della Writers House e Aileen Novick della Yale University Press hanno offerto aiuto in piccoli e grandi modi, e le ringrazio per la pazienza e il sostegno. Infine, sono grata a Philip King, revisore del mio manoscritto alla Yale University Press, che con bontà, pazienza e buon umore ha reso una gioia la revisione di questo libro. La sua attenzione al dettaglio e alla coerenza, la sua valutazione attenta di innumerevoli domande e questioni e i suggerimenti e i miglioramenti perspicaci hanno trasformato il mio manoscritto in un libro e per questo si è guadagnato la mia ammirazione e la mia imperitura gratitudine.

    La mia amica Sara Greenberg si è assunta la responsabilità in veste di assistente alla ricerca improvvisata durante gli ultimi tre anni del progetto, scrivendo al computer parti del manoscritto, ricercando articoli ignoti, libri e storie orali; correggendo note a piè di pagina e miscellanea di tutti i tipi; viaggiando con me per intervistare i sopravvissuti all’Olocausto e altre persone; ascoltando e avanzando proposte e aiutando in ogni fase della stesura del manoscritto. Ha alleggerito il carico quando ne avevo più bisogno e per questo le sarò sempre grata.

    Non avrei potuto completare questo libro senza Radu Ioanid, che ha letto ogni pagina del manoscritto così com’era scritta e ha sopportato pazientemente ore e ore di conversazione sull’Olocausto e su ogni aspetto del manoscritto, offrendo suggerimenti rispetto alla storia, allo stile, al contenuto, alla forma e alla struttura. Lo ringrazio per tutto questo e per la sua generosità, il suo senso dell’umorismo e, soprattutto, per la sua amicizia, che mi ha sostenuto durante la stesura di questo libro.

    Sono molto grata alla mia famiglia, vicina e allargata, per il suo perenne sostegno durante i molti anni che sono stati necessari a completare questo progetto. Voglio ringraziare in particolare i miei genitori per la loro saggezza e generosità di spirito; mio fratello gemello Michael per le sue tante idee artistiche e creative, la sua dolcezza e il costante incoraggiamento; e mio fratello maggiore Matthew, per il suo sguardo critico, il suo ascolto comprensivo, e i suoi suggerimenti ponderati che hanno contribuito a migliorare questo lavoro. Infine, voglio ringraziare Craig Dye, che ha vissuto al mio fianco per più di dieci anni, e il cui incessante incoraggiamento e altruismo mi hanno sempre permesso di seguire il mio cuore.

    Non posso fare a meno di chiudere con una nota finale ai diaristi stessi – vivi e morti – che hanno lottato per lasciare un segno nel mondo, nonostante la distruzione. Più di tutto, questo libro dà voce al loro contributo alla storia e riconosce la grazia del loro gesto.

    Nota della curatrice

    Questo progetto, che ho iniziato nell’ottobre del 1992, ha previsto tre fasi principali. La prima si è concentrata sulla ricerca e sulla raccolta di informazioni o copie del maggior numero di diari sull’Olocausto di giovani autori. A questo scopo, entrai in contatto con sopravvissuti all’Olocausto e archivi negli Stati Uniti, in Israele e in Europa (Germania, Polonia, Russia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, ex Iugoslavia, Grecia, Italia, Francia, Olanda, Belgio e Romania).

    Molti dei più importanti musei e archivi legati agli ebrei o alla storia dell’Olocausto nelle loro collezioni disponevano di pochissimi diari scritti da giovani. Pertanto, le mie indagini spesso assumevano la forma di richieste informali attraverso comunità ebraiche o di sopravvissuti all’Olocausto di queste nazioni, o attraverso lettere a studiosi, storici ed esperti della materia. Questo tipo di ricerca molto spesso dava dei risultati, dal momento che i diari di giovani autori sono ancora custoditi prevalentemente in collezioni private e conosciuti attraverso canali informali e locali. Sono certa che c’è ancora una grande quantità di materiale originale lì fuori, e non mi illudo che questo lavoro rappresenti uno studio completo e definito dei diari di giovani scrittori di questo periodo. Piuttosto, vorrei presentare questa come una materia meritevole di una ricerca seria e continua, e spero che negli anni a venire altri diari continueranno a emergere e vengano messi a disposizione di studenti, storici e lettori comuni.

    In molti casi, e grazie alla generosità di persone e archivi, è stato possibile ottenere copie di diari originali. In alternativa, ho ricevuto copie dattiloscritte o versione dei diari pubblicati in lingua originale. Parimenti, ci sono stati casi in cui è stato impossibile ottenere una copia completa del diario; in queste circostanze, ho lavorato partendo da estratti sia in lingua originale che tradotti. Infine, ci sono stati sopravvissuti comprensibilmente non disposti a condividere i loro diari con il pubblico. In questi casi, e con il loro permesso, ho incluso informazioni sull’esistenza del diario e sulle circostanze in cui è stato scritto anche se non ho visto o letto il testo stesso.

    La seconda fase ha riguardato la traduzione dei diari dalla loro lingua originale all’inglese. Grazie alla generosità di donatori singoli o istituzionali, il cui sostegno economico ha reso possibili le traduzioni, sono riuscita a mettere insieme un team di traduttori cui affidare questo lavoro, molti dei quali hanno messo a disposizione tempo e conoscenze volontariamente per revisionare e riassumere o tradurre in maniera informale i diari per la mia pubblicazione. In tal modo, sono riuscita a limitare la mole di materiale che volevo tradotto per le finalità di questo lavoro. Anche se tanto materiale è stato tradotto in inglese e non inserito qui, per ovvi motivi di spazio, ce n’è molto altro che non è stato tradotto completamente. Proprio come spero che continuino a emergere diari di giovani scrittori, spero anche che in futuro altro materiale originale venga tradotto, studiato e messo a disposizione del pubblico.

    Nella maggior parte dei casi, le traduzioni sono state fatte da una copia del manoscritto originale; a volte, tuttavia, i traduttori hanno lavorato su copie dattiloscritte o copie del testo pubblicato nella sua lingua madre. Solo nel caso del diario di Klaus Langer la traduzione è stata realizzata da una registrazione audio dell’autore che legge il suo testo. Il motivo è da ricercarsi nella fragilità del diario originale, che ne ha precluso la duplicazione. I traduttori hanno lavorato sotto la mia supervisione, sforzandosi prima di tutto di tradurre un testo accurato e, allo stesso tempo, di renderlo il più leggibile possibile per un pubblico anglofono. Nei rari casi in cui l’uso della lingua nativa da parte dell’autore risultava particolarmente problematico, ai traduttori è stato chiesto di rendere il testo quanto più comprensibile e corretto possibile senza alterarne il significato, il senso, o il carattere di base. In tutti quei casi in cui il diarista o un parente sopravvissuto erano disposti a revisionare la traduzione, questa è stata verificata, corretta e approvata. Alcuni dei diari qui contenuti sono ripubblicati con il permesso dell’editore da edizioni inglesi attualmente fuori catalogo. Infine, alcuni diari precedentemente tradotti in inglese dall’autore stesso o da un traduttore sono pubblicati in questo volume per la prima volta. In tutti i casi, ho incluso dettagli sulla fonte del diario e della traduzione nella sezione intitolata Fonti e traduttori.

    La terza fase del progetto consisteva nella scelta dei diari da includere nel libro e nel loro editing in vista della pubblicazione. Data la straordinaria ricchezza dei diari esistenti, limitarsi agli estratti contenuti in questo volume è stato uno dei compiti più difficili in assoluto. Ho cercato di scegliere i diari senza basarmi solo sulla differenza di nazionalità, economica o di ceto sociale, orientamento religioso ed esperienza della guerra, ma anche tenendo conto delle connessioni e delle relazioni che esistevano tra di loro. Inoltre, ho scelto quei diari che riflettevano stili di scrittura mutevoli e diversi gradi di informazioni storiche. Non volevo creare un’immagine falsamente romanticizzata dell’importanza storica o della forza letteraria dell’intero corpus di materiale scegliendo solo i diari migliori, ma fornire un saggio del materiale esistente che avrebbe lasciato intendere le variazioni, le complessità, e gli echi che lo attraversano nel suo insieme.

    Ho organizzato i diari nella raccolta a seconda delle relazioni che possono essere rintracciate tra loro e della loro connessione logica alla storia più ampia dell’Olocausto. Non ho scelto di adottare un ordine strettamente cronologico o geografico, poiché una tale struttura organizzativa tende ad alimentare generalizzazioni che travalicano lo scopo di questo lavoro. Diversi diari da un ghetto in particolare, ad esempio, potrebbero rivelare sfaccettature della vita quotidiana in un medesimo luogo, ma raggrupparli in questo modo è fuorviante perché sembra suggerire che questi diari rappresentano la vita di quel ghetto. D’altra parte, molti diari che riecheggiano tipi diversi di esperienze – sia dovuti alle circostanze (come la vita da rifugiati, in clandestinità, spacciandosi per non ebrei o nei ghetti) oppure al periodo in cui sono scritti (all’inizio della guerra o verso la liberazione), o al particolare orientamento o fulcro del diario – sono spesso messi insieme perché rendono evidenti sia i loro elementi condivisi sia ciò che li distingue.

    La quantità di materiale disponibile ha reso necessario l’editing di quasi tutti i diari, ad eccezione di quei pochi talmente brevi e frammentari da poter essere ristampati nella loro interezza. Quando si è resa necessaria la revisione, ho cercato di conservare la forma di ciascun diario, sfoltendo le annotazioni e abbreviando il tutto senza alterarne la natura di base. Laddove ho eliminato un’intera annotazione o una serie di annotazioni, non vi è indicazione a meno che non sia resa necessaria una nota a spiegare una pausa nel testo. I miei interventi nelle annotazioni sono indicati da interruzioni tra parentesi quadre, per distinguerle dalle ellissi del testo originale. Molti diaristi conoscevano diverse lingue e hanno abbellito i propri diari con espressioni tratte da lingue diverse da quella materna in cui scrivevano. Per conservare il più possibile l’atmosfera dell’originale, in genere ho mantenuto queste espressioni nella lingua usata dall’autore e aggiunto una traduzione tra parentesi. Infine, ho quasi sempre conservato la punteggiatura e la divisione in paragrafi dell’originale, a meno che non fosse necessario o utile modificarle per motivi di trasparenza.

    Ogni diario è preceduto da un’introduzione che include informazioni biografiche sul diarista, il suo contesto storico, e uno studio del testo stesso e della sua importanza nel quadro della storia e della letteratura dell’Olocausto. Per questo motivo, non ho commentato eccessivamente i diari stessi. Tuttavia, dal momento che i diari pullulano di riferimenti a persone, luoghi ed eventi che vanno da una sfera personale a una locale fino a una apertamente pubblica, a volte è stato necessario includere informazioni essenziali o particolarmente interessanti tra parentesi o nelle note. D’altra parte, una triste realtà di quando si lavora con materiale di questo tipo è che molte informazioni sono andate perse per sempre. In alcuni casi, non sono riuscita a stabilire l’identità di persone menzionate nei diari, né sono riuscita a chiarire alcuni riferimenti agli eventi. Queste informazioni mancanti, e la frustrazione e la confusione che talvolta provocano, dovrebbero essere lette come l’inevitabile risultato dell’incontro con i resti frammentari di un genocidio.

    L’Appendice i fornisce brevi descrizioni dei diari esistenti conosciuti finora. Ogni annotazione riassume quello che si conosce sui dati biografici del diarista, le circostanze in cui il diario è stato scritto, e il destino dell’autore. Cosa più importante, spero, per la ricerca e per gli studi futuri, dove possibile ho incluso informazioni sulle diverse versioni del diario, compreso il luogo in cui è ubicato il manoscritto originale, i dattiloscritti e le versioni duplicate su carta o microfilm presenti nelle raccolte archivistiche, e le edizioni in inglese o in altre lingue del diario. Dal momento che alcuni dei diari più famosi sono stati ristampati come estratti in diverse pubblicazioni, non ho incluso una lista completa di queste ristampe ma ho indicato solo le pubblicazioni principali in inglese o in altre lingue. Queste liste dovrebbero servire come un consistente punto di partenza per i ricercatori che desiderano approfondire la materia.

    Infine, l’Appendice ii descrive una serie di lavori ai margini del materiale qui incluso. Questi comprendono diari-memoir, diari post-guerra, diari riscritti e così via; lettere e altre prose scritte dai giovani del tempo; diari di vittime non ebree della guerra e del nazismo; diari di giovani adulti dopo i vent’anni. Questo studio è stato concepito non solo per esaminare brevemente i tanti materiali collegati che sono emersi durante la mia ricerca, ma anche per esplicitare i termini con cui ho definito la materia in oggetto – cioè, i diari rispetto ai memoir, l’Olocausto rispetto alla seconda guerra mondiale, e i giovani scrittori rispetto agli adulti – ed esplorare i quesiti ricchi e complessi che una simile distinzione solleva.

    Note alla nuova edizione

    Considerando i cambiamenti avvenuti nella tecnologia della composizione tipografica tra la prima e la seconda edizione, non è stato possibile correggere gli errori o integrare informazioni aggiornate direttamente nel testo. Pertanto, le correzioni e gli aggiornamenti sono elencati qui.

    klaus langer

    Aid to Jewish Youth dovrebbe essere inteso come Aliyah dei Giovani, l’organizzazione fondata da Henrietta Szold per formare i giovani ebrei alla vita del kibbutz e salvarsi dalla persecuzione nazista, inviandoli al sicuro in Palestina.

    elisabeth kaufmann

    Peter Kaufmann venne trattenuto nel campo di prigionia francese di Meslay-du-Maine.

    Elizabeth ed Ernst Koenig furono sposati per poco più di cinquantacinque anni. Elizabeth morì nel 2003, e Ernst venne a mancare nel 2005.

    peter feigl

    Daniel Trocmé era il nipote del pastore Andre Trocmé.

    Sec. Suisse dovrebbe essere inteso come Secours Suisse aux Enfants, un’organizzazione umanitaria svizzera per bambini rifugiati.

    otto wolf

    Nel 2010, Felicitas Garda donò il diario originale allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, d.c. Morì nel 2006 e Thomas Mandl venne a mancare nel 2007.

    Introduzione

    Durante l’Olocausto, da un capo all’altro dell’Europa, da prima dello scoppio della guerra e fino alla liberazione, ragazzi e ragazze tennero diari e memoriali. Scrivevano su agende rilegate in cuoio o tessuto, o su album goffrati in oro, ricevuti come regalo in occasione di compleanni e festività; portavano con sé i loro diari dalle loro case ai nascondigli, dai campi profughi ai ghetti. Quando i tempi si fecero difficili, contrabbandarono e rubarono ritagli di carta, trovavano monconi di matita e penne a inchiostro ormai consumate; scribacchiavano alla luce di una lampada a carburo o di una candela su quaderni di scuola, su rubriche per gli indirizzi, agende e libri mastri, sul retro di sottili sacchetti di carta, e ai margini di opere di altri autori. Nonostante la paura e la repressione, nonostante la fame, il freddo, lo sfinimento, la disperazione, nonostante lo spazio vitale limitato e la mancanza di privacy, e nonostante la lontananza da casa e dai propri cari, questi giovani documentarono le loro esperienze e le impressioni sulla loro vita, e così facendo si ritagliarono il loro posto nel mondo.

    Come il mondo sa, uno di questi diari riemerse alla fine degli anni ’40 in Europa. Il diario di Anna Frank, scritto mentre l’autrice si nascondeva in una mansarda di Amsterdam, era evocativo e intenso come lo sarebbe qualsiasi frammento storico; come un antico reperto, è sopravvissuto al passare del tempo e alla distruzione di quasi tutto ciò che ad esso era collegato per testimoniare un momento nel passato. Quando il 4 agosto 1944 la famiglia Frank fu arrestata nel suo nascondiglio al numero 263 di Prinsengracth ad Amsterdam, il diario, contenente le testimonianze che Anna aveva scritto per oltre due anni, finì tra gli effetti personali dimenticati. Fu solo quando il padre di Anna, Otto Frank (unisco sopravvissuto sugli otto che si erano nascosti insieme), ritornò in Olanda, nel giugno del 1945, che il diario venne portato alla luce e consegnato a lui¹.

    Meno di due anni dopo, nel marzo del 1947, la prima edizione del diario di Anna Frank fu pubblicata in Olanda. Seguì un’edizione in francese nella primavera del 1950. Quell’estate, lo scrittore americano Meyer Levin lesse l’edizione francese del Diario e ne riconobbe subito la forza

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