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Io, performer: Siamo dipendenti da performance?
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E-book222 pagine2 ore

Io, performer: Siamo dipendenti da performance?

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Info su questo ebook

Oggi siamo produttori di continue performance. Ogni momento è occasione per produrre contenuti, progetti e prestazioni, in una eterna corsa competitiva che porta a stanchezza e nuove alienazioni. L’individuo moderno, così, diventa performer, mirando a un ideale di perfezione irraggiungibile. La relazione tossica con tempo e tecnologie, ormai pervasive nella quotidianità digitale, produce una cultura della performance che è caratterizzata da cambiamenti, competizione e incertezza. Questo ritmo di vita crea una società affetta da malesseri, nella quale le persone rischiano di diventare «performalcolizzate», ossia dipendenti dalle performance: iperconnessione, burnout, disturbi d’ansia e depressivi sono le psicopatologie che ne derivano. L’autore propone un decalogo con alcune strategie di disintossicazione dal «prestazionismo» per costruire un nuovo modello di vita, basato sul benessere e sulla salvaguardia della salute del singolo e della collettività.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2024
ISBN9788881955077
Io, performer: Siamo dipendenti da performance?

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    Anteprima del libro

    Io, performer - Giacomo Prati

    BIBLIOTECA CONTEMPORANEA

    © 2024 Edizioni Angelo Guerini e Associati srl

    via Comelico, 3 – 20135 Milano

    https://www.guerini.it

    e-mail: info@guerini.it

    Prima edizione: gennaio 2024

    Ristampa: V IV III II I 2024 2025 2026 2027 2028

    Publisher Benedetta Dalmasso

    Copertina di Donatella D’Angelo

    ISBN 9788881955077

    Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

    Le fotocopie per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da GLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org.

    Versione digitale realizzata da Streetlib srl

    title

    INDICE

    PREFAZIONE di Riccardo Sartori

    INTRODUZIONE

    PARTE PRIMA

    LA SOCIETÀ DIGITALE TRA ACCELERAZIONE, INCERTEZZA E STANCHEZZA

    1.LA SOCIETÀ DELL’ACCELERAZIONE

    1.1. L’accelerazione tecnologica

    1.2. L’accelerazione dei mutamenti sociali

    1.3. L’accelerazione del ritmo di vita

    2.LA SOCIETÀ DIGITALE

    2.1. Gig economy: chi dorme non piglia lavori

    3.LA SOCIETÀ DELL’INCERTEZZA

    3.1. Flessibilità?

    3.2. O precarietà?

    4.LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE

    4.1. Da soggetti a progetti

    4.2. La performance nella società digitale

    4.2.1. Le recensioni: la valutazione della performance nella gig economy, p. 52

    5.LA SOCIETÀ DELLA STANCHEZZA

    5.1. Nuove alienazioni

    5.2. La «fine» delle vacanze

    6.IL PERFORMAHOLISM: LA DIPENDENZA DA PERFORMANCE

    PARTE SECONDA

    LE PSICOPATOLOGIE DA «PRESTAZIONISMO»

    1.IL PRESTAZIONISMO NARCISISTICO DEL PERFORMAHOLISM

    2.LE PATOLOGIE DA «IPERCONNESSIONE»

    2.1. FOMO: la paura di essere tagliati fuori

    2.2. Nomofobia: la paura di rimanere senza connessione

    2.3. Phubbing: preferire lo smartphone alla compagnia

    2.4. Vamping: connessioni notturne

    2.5. Il sovraccarico informativo

    2.5.1. L’ansia da informazione, p. 78 - 2.5.2. La sindrome da affaticamento informativo, p. 79

    3.STRESS DA PRESTAZIONISMO

    3.1. Le reazioni psicofisiologiche da stress

    3.2. Il modello del carico allostatico

    3.3. Il sé esaurito: il burnout

    3.4. I nuovi lavori usuranti: lo «spazzino» del web

    4.I DISTURBI D’ANSIA

    4.1. L’ansia da… prestazione

    4.2. La sindrome dell’impostore

    4.3. I disturbi del sonno

    5.LA DEPRESSIONE, IL MALE DEL SECOLO

    5.1. I numeri di un’emergenza globale

    6.IL PERFORMAHOLIC: UN PRIMO PROFILO

    PARTE TERZA

    STRATEGIE PER PREVENIRE E FRONTEGGIARE IL «PRESTAZIONISMO»

    1.STRATEGIE PER PREVENIRE IL PRESTAZIONISMO

    1.1. Prevenzione primaria

    1.2. Prevenzione secondaria

    1.3. Prevenzione terziaria

    1.4. Prevenzione quaternaria

    2.STRATEGIE PER FRONTEGGIARE IL PRESTAZIONISMO

    2.1. Coping centrato sul problema

    2.2. Coping centrato sulle emozioni

    2.3. Non coping di evitamento e di fuga

    2.4. L’importanza di essere ottimisti

    3.UNA PEDAGOGIA PER UNA PERFORMANCE SOSTENIBILE

    3.1. Il ruolo dell’educazione e della formazione nel contrasto al performaholism

    3.2. La consapevolezza: sapere per cambiare

    3.3. L’arte per connettersi alla bellezza

    4.DISCONNETTERSI PER RICONNETTERSI A SÉ

    4.1. Il diritto (e dovere) alla disconnessione dal digitale

    4.2. Il supporto sociale: l’importanza della rete relazionale

    4.3. Riconnettersi alla natura

    5.UN NUOVO STILE DI VITA PER IL BENESSERE COLLETTIVO

    5.1. Attività fisica in giuste dosi e sana alimentazione

    5.2. Il sonno: dormire bene per vivere meglio

    5.3. Rilassamento e meditazione per un nuovo approccio al tempo

    5.3.1. Il rilassamento mentale, p. 145 - 5.3.2. Il rilassamento fisico, p. 147

    6.PRENDERSI CURA DI SÉ

    6.1. Chiedere aiuto: il ruolo della psicoterapia

    CONCLUSIONI

    UN NUOVO MODELLO DI VITA È POSSIBILE?

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    A Cecilia, bella e pura

    PREFAZIONE

    di Riccardo Sartori*

    Leggendo alcune parti di questo nuovo volume di Giacomo Prati, autore da me già apprezzato per il libro Invisibili al lavoro. Gli operai del clic ai tempi della gig economy, mi è capitato di provare qualcosa che, in parole, potrebbe essere reso in questo modo: «Così ci facciamo del male! Ci stanchiamo, ci stressiamo, ci esauriamo e ci ammaliamo!». E mi è venuta in mente una delle frasi più celebri di Sigmund Freud, noto a tutti come il padre della psicoanalisi, secondo il quale la salute mentale di una persona può essere misurata attraverso la sua capacità di amare e di lavorare. Le due cose assieme, però, armoniosamente assieme mi verrebbe da dire, non che una prevalga sull’altra! Mi sono venute in mente anche parole come omeostasi, equilibrio, bilanciamento o, per usare un anglismo noto non solo agli addetti ai lavori, work-life balance, ovvero equilibrio vita-lavoro. In pratica, parole in netto contrasto con altri anglismi, come quelli più volte citati nel testo, quali workaholism (dipendenza dal lavoro) o performaholism (dipendenza dalla prestazione).

    Amare e lavorare, pur essendo attività tanto antiche da permettere a noi esseri umani di godere di un certo bagaglio di esperienza in entrambi i campi, rimangono anche oggi attività al tempo stesso semplici e complesse.

    Amare non vuol dire soltanto e semplicemente desiderare, possedere, controllare o dominare un’altra persona, così come non significa diventarne dipendenti o addirittura ossessionati. La psicopatologia ha ben indagato, individuato e definito le diverse forme che la dipendenza affettiva può assumere nella vita di noi esseri umani adulti, e nessuna di queste delinea un modo sano e maturo di amare. Prima della psicopatologia ci hanno pensato la letteratura e il cinema con le loro figure di ossessionati dall’amore come Heathcliff (uomo) in Cime tempestose (romanzo di Emily Brontë del 1847) o Alex Forrest (donna) in Attrazione fatale (film del 1987 diretto da Adrian Lyne), per citarne soltanto due e non fare discriminazioni di genere. Amare, quindi, può diventare patologico, tossico e distruttivo, sia per sé che per gli altri.

    Lavorare, del resto, non significa soltanto e semplicemente prestare la propria mano d’opera. Taylor, quello del taylorismo per capirci, anche solo a nominarlo fa venire in mente quanto di meno desiderabile una persona possa immaginare per sé come lavoratrice o lavoratore. Non a caso, dal punto di vista linguistico, si è passati dall’antica e svalutante espressione «forza lavoro» a quella più moderna e valorizzante di «risorse umane», passando per la più semplice e ancora oggi usata «personale». Quest’ultima designazione ha, a mio avviso, quanto meno il merito di ricordare che lavoratrici e lavoratori rimangono persone anche al lavoro e non sono soltanto ruoli. «Risorse umane», del resto, è un’espressione coniata da un certo Raymond Miles nel 1965 per ricordare alle aziende che le persone al lavoro sono anche risorse su cui investire in un’ottica di sviluppo sia individuale che organizzativo, non soltanto spese, perdite e uscite sul libro paga.

    Si può amare il proprio lavoro; ma nessuno ama un lavoro che lo avvilisce, non gli dà soddisfazione e alimenta stati emotivi negativi come frustrazione, rabbia, ansia o depressione. Gli atteggiamenti che le persone possono assumere nei confronti del proprio lavoro variano tra due opposti così definiti: atteggiamento difensivo e atteggiamento proattivo. Assumiamo un atteggiamento difensivo nei confronti del nostro lavoro tutte le volte che questo diventa fonte di malessere, disagio e insoddisfazione (ci difendiamo, ad esempio, mettendoci in malattia o facendo assenteismo, sia reale – pause caffè prolungate – che virtuale – navigare in internet dal posto di lavoro per contenuti non lavoro-correlati, fenomeno che in inglese è noto come cyberloafing). Assumiamo invece un atteggiamento proattivo, di investimento libidico direbbero gli psicoanalisti, tutte le volte che il nostro lavoro ci piace ed è fonte di benessere e soddisfazione (siamo proattivi, ad esempio, quando ci facciamo volentieri carico di sforzi aggiuntivi o aiutiamo un collega in qualcosa che non ci compete). Continuare un lavoro verso il quale ormai abbiamo assunto un pressoché costante atteggiamento difensivo significa esporsi a rischi psicosociali quali stress, mobbing e burnout. Viceversa, assumere un ruolo e occupare una posizione verso i quali abbiamo sviluppato un quanto mai produttivo atteggiamento proattivo significa sentirsi motivati, soddisfatti ed engaged.

    Il work engagement, ovvero uno stato mentale positivo nei confronti del proprio lavoro, caratterizzato da tre dimensioni – vigore, dedizione e assorbimento –, viene considerato l’opposto del burnout, ovvero uno stato cronico di stress lavoro-correlato caratterizzato anch’esso da tre dimensioni – esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale.

    Potrebbe venir facile pensare che, se il mio lavoro è fonte più di malessere che di benessere, stimolando in me un pressoché costante atteggiamento difensivo ed esponendomi a rischi psicosociali quali il burnout, io lo lasci. Ma esattamente come pare non sia facile lasciare un partner che ci trascura o sia addirittura maltrattante, allo stesso modo non si osserva una correlazione alta e lineare tra l’avere un lavoro insoddisfacente e il lasciarlo. «Turnover» e «intenzione di turnover» sono due variabili differenti e non così tanto correlate come ci si potrebbe aspettare. Non fosse altro perché lasciare un lavoro pur poco soddisfacente significa rinunciare attivamente all’unico vantaggio certo, legato a qualsiasi lavoro legalmente formalizzato: lo stipendio.

    Dall’altra parte, potrebbe venire ugualmente facile pensare che il work engagement, essendo uno «stato mentale positivo», abbia solo ricadute apprezzabili e desiderabili sulle lavoratrici e sui lavoratori, e non porti con sé quei rischi di stanchezza ed esaurimento insiti nei concetti di stress e burnout. Vale la pena qui ricordare che, invece, il work engagement ha in comune con il workaholism almeno la dimensione dell’assorbimento, così come mostrato in figura 1.

    Figura 1 - Le dimensioni del work engagement e del workaholism

    Anche lavorare, quindi, può diventare patologico, tossico e distruttivo, sia per sé che per gli altri.

    Il libro di Giacomo Prati ci mette in guardia dall’accelerazione della vita moderna e dal rischio, non sempre riconosciuto da noi esseri umani, che la presenza costante tra noi di mezzi sempre più potenti e veloci (lo smartphone su tutti) con cui svolgere le nostre attività lavorative ed extralavorative significhi dare vita a una corsa e a una gara per esserci sempre e non essere mai assenti. Una continua sfida a mostrarsi costantemente disponibili e reperibili, non restare mai esclusi da nulla (o fuori, ai margini e superati) e rimanere performanti sempre e comunque: di giorno e di notte, nei giorni sia feriali che festivi, sul lavoro, a casa e in vacanza, in salute e in malattia. Finché morte non ci disconnetta…

    Viene in mente Tempi moderni di Charlie Chaplin, film di denuncia uscito nel 1936 sugli effetti collaterali e deleteri accusati dalle persone come conseguenza dell’applicazione acritica e standardizzata dei principi di Taylor all’organizzazione del lavoro nelle fabbriche e nelle industrie. Siamo ancora in quei Tempi moderni? I tempi di oggi, che in teoria hanno passato al setaccio filosofie deprecabili di organizzazione del lavoro come il taylorismo e il fordismo, evidenziandone l’inadeguatezza dal punto di vista dei meccanismi di funzionamento psicologico delle persone, coniando espressioni come quella di risorse umane, nate proprio per salvaguardare le persone al lavoro da fenomeni quali l’alienazione, lo schiavismo, l’insoddisfazione, lo sfruttamento e la demotivazione, e sviluppando modelli di organizzazione del lavoro più umani e complessi che mettano al centro delle attività produttive e di erogazione di servizi l’essere umano: in definitiva, questi tempi moderni di oggi sono davvero così diversi dai Tempi moderni mostrati da Chaplin?

    Sì e no.

    Sì, per la diversa e maggiore consapevolezza che si ha oggi di temi quali il malessere e il benessere al lavoro (la cosiddetta salute organizzativa), consapevolezza che rende possibile, oggi, la pubblicazione di libri come questo; sì, perché ai tempi di Chaplin era netta la differenza tra il «carnefice», ovvero il «padrone» schiavista e sfruttatore, e la «vittima», ovvero lo «schiavo» sfruttato, ridotto a ingranaggio e assoggettato ai ritmi della macchina (oggi le cose sono un po’ più sfumate, come anche la figura 1 vuole suggerire); sì, perché oggi lavoratrici e lavoratori possono godere di maggiori tutele, diritti e libertà. Almeno sulla carta.

    No, soprattutto perché l’illusione di avere sotto controllo la propria vita, anche grazie a un mezzo come lo smartphone che, con le sue innumerevoli app, ci permette di comunicare e lavorare a distanza con chiunque, sia oralmente che per iscritto, leggere la posta ovunque e rispondere alle e-mail da qualsiasi luogo fermo (casa) o in movimento (treno), entrare in banca per fare e ricevere pagamenti anche senza recarci fisicamente in filiale, scrivere testi, fare calcoli, firmare documenti ecc., ci rende non solo padroni ma anche schiavi di noi stessi, con il rischio che siamo noi a ridurre noi stessi a ingranaggio, mantenendo però l’illusione di poter disporre del no stro tempo, di gestire le nostre attività, di essere solo padroni e non anche schiavi. Crediamo di incarnare il concetto di work engagement

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