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Europa. Evitare il declino: Glossario per una politica economica europea
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E-book227 pagine3 ore

Europa. Evitare il declino: Glossario per una politica economica europea

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Sovranità europea o sovranismo nazionale? Autonomia strategica o neo-mercantilismo? Metodo comunitario o approccio intergovernativo? Allargamento o approfondimento dell’Unione? Costruzione di una difesa europea o politiche nazionali per la difesa? Policy mix coordinato o isolamento della politica monetaria? Politiche accentrate di bilancio o autonomia fiscale? Politica industriale europea o aiuti di stato? Beni pubblici europei o trasferimenti ai paesi? "Made with Europe" o "Made in Europe"? Regole comuni o "disciplina di mercato"? Condivisione o riduzione dei rischi? Queste sono alcune delle scelte cruciali, su cui si giocherà la capacità dell’Unione europea di contribuire alla gestione dei drammatici conflitti geopolitici e di attuare uno sviluppo sostenibile. Il volume offre una preziosa analisi delle prospettive che si aprono dopo le elezioni europee di giugno 2024 e propone una mappa, incentrata su un "federalismo graduale e pragmatico", per disegnare l’Europa del futuro.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2024
ISBN9791254843321
Europa. Evitare il declino: Glossario per una politica economica europea

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    Anteprima del libro

    Europa. Evitare il declino - Marco Buti

    Introduzione

    1. Premessa

    Il 22 dicembre 2023 ci ha lasciato Jacques Delors che è considerato, a ragione, l’ultimo dei padri dell’Unione europea (Ue). Come Presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, Delors ha fornito contributi decisivi per la realizzazione del Mercato unico e per la riforma del bilancio centrale, specie grazie al rafforzamento delle politiche di coesione in connessione con l’allargamento della Ue alla penisola iberica (il cosiddetto Pacchetto Delors I). Egli ha poi svolto un ruolo fondamentale per gli accordi relativi alla creazione dell’euro area, inseriti nel Trattato di Maastricht. Nell’anno seguente (1993), Delors ha infine prodotto il Libro bianco incentrato sul sostegno alla crescita, alla competitività e all’occupazione della Ue grazie a investimenti infrastrutturali transfrontalieri finanziati con l’emissione di debito comune.

    L’Europa di Delors si basava su una visione dinamica della sussidiarietà e non lasciava spazio a condizionamenti ideologici rispetto agli attriti fra approccio sovranazionale e intergovernativo. Delors mirava, infatti, a progredire nella costruzione di un edificio complesso mediante passi graduali e il ricorso a vari strumenti di politica economica e sociale. In quest’ottica, egli ricercava difficili equilibri fra dimensione statuale e mercato, fra competizione e solidarietà, fra interventi dal lato dell’offerta e sostegno della domanda.

    In molte commemorazioni, si è sostenuto che il cambio di passo della Ue dopo la fase di euro-sclerosi degli anni Settanta vada ascritto al clima di cooperazione che Delors seppe instaurare con il Cancelliere tedesco, Helmut Kohl, e con il Presidente francese, François Mitterrand. Non vi è dubbio che un tale clima politico abbia permesso alla Ue di rispondere efficacemente alla chiamata della storia, sfociata nella caduta del muro di Berlino (1989). Sarebbe però un errore ritenere che la funzione essenziale, svolta dalla politica nella seconda metà degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, abbia indebolito la rilevanza delle radici istituzionali, culturali e analitiche che hanno – direttamente o indirettamente – ispirato la costruzione della Ue fin dalle origini della Comunità economica europea.

    In questa prospettiva, va valorizzata la continuità fra la visione dell’integrazione europea à la Delors e l’apporto sia di altri padri della Ue, che sono stati i primi fautori dell’idea europea, sia dei successivi produttori di quegli embrioni di architettura istituzionale, che hanno legato in un irreversibile destino comune un numero crescente di paesi protagonisti (anche su fronti opposti) della Seconda guerra mondiale.

    2. Alle radici della nuova Ue

    Le figure che hanno fatto germogliare un’idea unitaria di Europa prima di Delors e quelle che hanno raccolto il testimone insieme a Delors sono molto variegate in termini di provenienza nazionale e di orientamenti ideologici. Sul piano della predisposizione delle basi istituzionali, sono stati fondamentali il pensiero e le iniziative di fondatori come Jean Monnet, Robert Schuman, Altiero Spinelli e Pierre Werner. Sul piano politico, sono state decisive l’ispirazione e la visione di figure come Simone Veil, Willy Brandt, Olof Palme e – nell’allargamento ai paesi post-comunisti – Ralf Dahrendorf e Bronislaw Geremek.

    Qui sarebbe incongruo ogni tentativo di entrare nel dettaglio dell’apporto alla costruzione dell’edificio europeo, fornito da tali personaggi e da altri a essi variamente collegati. Pur se con qualche semplificazione, è invece possibile valorizzare il loro lascito enucleando quei temi, che sono già presenti nelle loro elaborazioni e che rimangono tuttora essenziali per affrontare i problemi economico-istituzionali aperti nella Ue. Al riguardo, si possono individuare quattro capisaldi: (a) la ricerca di quell’equilibrio fra rispetto di regole comuni e funzionamento del mercato che dovrebbe assicurare la stabilità del sistema economico; (b) il superamento delle tensioni fra efficienza ed equità, fra crescita di lungo periodo e coesione sociale, fra riduzione e condivisione del rischio, fra responsabilità e solidarietà che dovrebbero fungere da elementi complementari anziché contrapposti; (c) una nuova definizione di sussidiarietà, che sia basata sul coordinamento verticale fra le politiche delle istituzioni europee e quelle delle autorità nazionali e che dovrebbe sfociare in una qualche forma di federalismo fiscale; (d) l’attribuzione di una nuova centralità alle decisioni pubbliche a livello europeo.

    A conferma di quanto sostenuto da Keynes nelle conclusioni della Teoria generale, è qui interessante notare che ognuno di questi capisaldi non è solo il frutto del lascito intellettuale dei padri dell’Europa e degli apporti politico-istituzionali dei loro prosecutori. I punti (a)-(d) sono anche riconducibili a elaborazioni teoriche, non sempre fra loro compatibili, sviluppate nella storia dell’analisi economica e adattate in chiave europea.

    Una prima declinazione del punto (a) è stata offerta dall’ordoliberalismo che, specie grazie ai contributi di autori quali Walter Eucken e Ludwig Erhard e – più in generale – della scuola di Friburgo, ha prodotto la visione dell’economia sociale di mercato. Seguendo tale approccio, il mercato svolge un ruolo fondamentale ma non può essere concepito come l’unico principio ordinatore di un sistema economico-sociale. Esso richiede il complemento di un’architettura che, combinando istituzioni e regole, ne garantisca l’efficiente funzionamento mediante la specificazione dei diversi ambiti di competenza. Il centro della scena è, comunque, occupato dal fine della stabilità economica e sociale che va garantita dalla responsabilità individuale.

    L’influenza, esercitata dall’economia sociale di mercato, emerge con evidenza nei contenuti del Trattato di Maastricht (1992) e – soprattutto – nella costruzione di un’unione monetaria incardinata sulla Banca centrale europea (Bce). L’obiettivo della politica monetaria accentrata è la stabilità dei prezzi; e, per soddisfare questo obiettivo, la Bce deve assumere le proprie decisioni in piena indipendenza rispetto alle politiche nazionali di bilancio (politiche fiscali) che, a loro volta, vanno vincolate alle regole del Trattato di Maastricht e, successivamente, a quelle del Patto di stabilità e crescita. La stabilità macroeconomica è, quindi, responsabilità dei singoli stati membri dell’area che devono rispettare le regole fiscali comuni. Negando ogni spazio a forme centralizzate di stabilizzazione economica e sociale, l’ordoliberalismo implica però che le politiche fiscali nazionali incontrino vincoli stringenti rispetto agli obiettivi della crescita, dell’equità sociale e della solidarietà. Per salvaguardare i capisaldi definiti dai punti (b) e (c), è stato quindi necessario allargare le fondamenta dell’edificio europeo ad altri filoni di analisi.

    È palese l’influenza esercitata da quell’approccio keynesiano che, saldandosi con le proposte di stato sociale di William Beveridge, persegue la stabilizzazione macroeconomica mediante una crescita basata sulla complementarità fra sostegno alla domanda aggregata e condivisione dei rischi. Forse meno evidenti, ma altrettanto rilevanti, sono i contributi offerti dall’economia pubblica e dallo schema schumpeteriano dello sviluppo economico. Le tre funzioni di governo, definite da Richard Musgrave (allocazione, redistribuzione e stabilizzazione), mostrano che la terza funzione va perseguita anche – se non soprattutto – a livello centrale e che la connessa redistribuzione a livello europeo riguarda i paesi e non gli individui. Tali indicazioni offrono basi analitiche per le prescrizioni del federalismo fiscale. D’altro canto, nell’esaminare la successione di stati stazionari e fasi di espansione, Joseph Schumpeter individua stretti legami fra positive rotture innovative, condivisione dei rischi per la loro riduzione, redistribuzione dei proventi netti delle innovazioni e delle imitazioni fra i diversi gruppi di agenti.

    Specie ai tempi di Delors (ma, come si dirà nel successivo paragrafo, ancora oggi), l’architettura istituzionale della Comunità economica europea denunciava elementi di strutturale fragilità che rendevano problematico tradurre le indicazioni di fondo, derivanti dalle impostazioni keynesiane e schumpeteriane, in effettivi interventi di politica economica. Pertanto, l’impegno di Delors per il rafforzamento delle politiche di coesione e per la realizzazione dei contenuti del Libro bianco si è potuto concretizzare grazie a contributi di più diretta verificabilità empirica. Si tratta di quelle teorie che, nella terminologia di Robert Merton, sono definibili di medio raggio. Nel caso, il riferimento è alle analisi di economisti e altri scienziati sociali coinvolti, a vario titolo, nelle riflessioni sulla costruzione europea.

    Un primo esempio è fornito dal quartetto inconciliabile di Tommaso Padoa-Schioppa che estende il trilemma di Robert Mundell relativo all’incompatibilità fra una politica monetaria accentrata e indipendente, tassi di cambio fissi e perfetta mobilità dei capitali. Ne derivano distorsioni nel funzionamento del Mercato unico e dell’unione monetaria, in quanto i processi di aggiustamento e convergenza di ciascuno degli stati membri non possono essere garantiti da svalutazioni competitive del tasso di cambio. Un secondo esempio è offerto dalle analisi di Anthony Atkinson rispetto alle politiche sociali europee che devono perseguire almeno due risultati: rendere le varie forme di stato sociale efficaci per politiche redistributive nazionali e incentivare gli investimenti in capitale sociale. Un terzo esempio è rappresentato dalla teoria del federalismo fiscale, di cui Wallace Oates è uno dei principali contributori. Questa teoria mostra che l’offerta di beni pubblici con elevate esternalità va collocata a livello accentrato.

    Le riflessioni di medio raggio, sopra richiamate, rendono concreto il rilievo da attribuire alle decisioni pubbliche sovranazionali [cfr. il precedente punto (d)]; e ciò palesa che la costruzione europea ha subìto la positiva, anche se indiretta, influenza delle analisi di Mancur Olson. Tale autore sottolinea la necessità di attivare efficaci processi decisionali collettivi per predisporre sia l’offerta di beni pubblici sia spazi per politiche specifiche ma condivise (i club). Si crea così una tensione fra un livello minimo di aggregazione di paesi, che è richiesto per sfruttare le economie di scala e di scopo nell’offerta di beni pubblici, e l’eterogeneità delle preferenze che ne riduce il minimo comun denominatore. In questo quadro, assumono rilievo sia il paradosso di Kenneth Arrow, che prova l’impossibilità di costruire un’efficiente funzione di scelta collettiva sulla base delle preferenze individuali, sia le scelte sotto il velo di ignoranza di John Rawls, che aprono la strada ad approcci di tipo assicurativo.

    3. Alla ricerca di nuovi equilibri

    Le considerazioni fin qui svolte consentono di sostenere che i fondamenti analitici, elaborati nel secolo scorso, e le loro applicazioni di politica economica, proposte negli anni Ottanta e Novanta, sono ancora di grande utilità per affrontare i problemi attuali della Ue. Una prima intuizione, al riguardo, è offerta dal tema che ha chiuso il precedente paragrafo: i trade off caratterizzanti le decisioni pubbliche sovranazionali. Dopo le elezioni di giugno 2024, i policy makers europei dovranno individuare, selezionare e – poi – gestire i problemi connessi a un’Unione che subirà un radicale allargamento e che, in quanto tale, registrerà accresciute differenze nelle preferenze nazionali; il che renderà ancora più essenziale ma, al contempo, più arduo perseguire interessi collettivi di medio-lungo periodo.

    Il precedente richiamo alle elaborazioni di medio raggio permette di comprendere come siano cambiate la governance economica e l’architettura istituzionale della Ue a seguito della crisi finanziaria internazionale e del suo impatto sul "doom-loop" europeo fra crisi dei debiti sovrani e crisi del settore bancario. Le istituzioni europee hanno tratto lezioni importanti dalle crisi che si sono succedute dal 2007 al 2023, quasi senza soluzione di continuità, e che rischiano di approfondirsi nell’immediato futuro. In particolare, esiste oggi un largo consenso sui limiti della risposta europea di politica economica allo shock del 2007-2009 e alla connessa crisi europea del 2009-2013.

    Come ha denunciato il caso della Grecia fra il 2010 e il 2015, si è trattato di una risposta troppo ritardata che ha imposto aggiustamenti di bilancio così severi agli stati membri in difficoltà da aggravare i loro squilibri economici e sociali almeno nel breve-medio termine. Nondimeno, essa ha fatto anche emergere l’insostenibilità di assetti dell’Unione economica e monetaria europea, caratterizzati dalla mancanza di strumenti accentrati per la gestione delle crisi e da una netta separazione fra politica monetaria e politica fiscale. Questa duplice eredità dell’approccio ordoliberale è stata superata, creando meccanismi accentrati per la gestione di programmi europei di aiuto (prima quelli temporanei, denominati Efsf e Efsm, e poi quello permanente, ossia il Meccanismo europeo di stabilità: Mes) e attribuendo un ruolo di supplenza alla Bce. Ambedue le soluzioni hanno palesato i gravi limiti e hanno avuto i pesanti effetti sociali già menzionati. Esse hanno, però, segnalato che la stabilizzazione economica richiede spesso strumenti accentrati e che le scelte di politica monetaria non sono scindibili dall’intonazione della politica fiscale.

    I precedenti riferimenti alle teorie di Keynes, Musgrave e Schumpeter trovano, così, conferma: le radici analitiche della Ue sollecitano forme di centralizzazione e coordinamento delle policy per la realizzazione di nuovi equilibri. L’impatto della crisi finanziaria internazionale ha posto in evidenza che, se vincolate a livello nazionale, le politiche di stabilizzazione tendono a essere efficaci per rispondere alle normali fluttuazioni cicliche ma sono inadeguate di fronte a shock esogeni di rilevante portata. In quel frangente (2007-2015), si è però ritenuto che il varo di meccanismi centrali di gestione delle crisi, l’imposizione di stringenti vincoli pro-ciclici alle politiche fiscali degli stati membri in difficoltà e un sovraccarico dei compiti attribuiti alla politica monetaria accentrata come strumento anti-ciclico fossero soluzioni sufficienti per assorbire lo shock esogeno senza la necessità di espandere il bilancio della Ue.

    Solo l’impatto economico della pandemia ha spinto a realizzare un’equilibrata combinazione fra politica monetaria e politica fiscale (ossia, un efficace policy mix) e a costruire una consistente capacità fiscale centrale allo scopo di realizzare una crescita sostenibile mediante le transizioni verde e digitale e mediante le riforme per l’adeguamento dello stato sociale (l’iniziativa, pur se temporanea, denominata Next Generation-Eu: Ngeu). È evidente che la creazione di tale capacità fiscale centrale, per un parziale ma essenziale finanziamento degli investimenti richiesti dalle tre transizioni, rende necessari consistenti e permanenti allargamenti del bilancio europeo.

    Gli shock post-pandemici, che hanno determinato strozzature dal lato dell’offerta aggregata, e i drammatici eventi bellici, che sono scoppiati con l’aggressione russa dell’Ucraina e che si stanno addensando ai confini della Ue, hanno reso ancora più cogente la necessità di costruire una ricorrente o permanente capacità fiscale centrale a livello europeo. Le modifiche nelle catene internazionali del valore, l’intreccio fra i conflitti geo-politici e il controllo degli input necessari alle produzioni innovative nel comparto del digitale e dell’intelligenza artificiale, l’esigenza di accelerare la transizione energetica hanno infatti palesato l’irreversibile obsolescenza di un modello produttivo della Ue caratterizzato dall’utilizzo di tecnologie solide ma mature, da una eccessiva dipendenza dalle importazioni a basso costo, da un abnorme peso delle piccole imprese manifatturiere e da servizi estesi ma spesso arretrati e frammentati. L’implicazione è che il rafforzamento del bilancio europeo deve anche servire per l’attuazione di una politica industriale europea incentrata sulla produzione di Beni pubblici europei (Bpe).

    Queste considerazioni mostrano che l’auspicata evoluzione dell’architettura della Ue dovrebbe permettere di collegare i quattro principi (a)-(d), esposti nel precedente paragrafo, con tre nuovi temi legati alla risposta europea alla pandemia: (i) il coordinamento fra la politica monetaria della Bce, le politiche fiscali nazionali e le nuove politiche fiscali accentrate; (ii) l’integrazione verticale e orizzontale fra politiche economiche, inclusa la politica industriale e la produzione di Bpe; (iii) la complementarità fra riduzione e condivisione del rischio.

    Riguardo al tema (i), la solitudine della Bce nella fase 2011-2019 ha prodotto molte distorsioni che gli economisti hanno etichettato come nuove forme di dominanza fiscale e di dominanza finanziaria. Fatto è che, varando sistematici programmi non-convenzionali di acquisti di titoli del debito pubblico dell’euro area e schiacciando così la struttura dei tassi di interesse di policy sul limite inferiore effettivo (anche in territorio negativo), la Bce ha usato il proprio bilancio come sostituto di meccanismi espliciti di condivisione del rischio e come indiretto ma efficace sostegno delle politiche fiscali nazionali. Il policy mix, disegnato e attuato durante la fase pandemica, ha accreditato la tesi che il coordinamento delle politiche economiche della Ue fosse ormai un fatto acquisito. Eppure, quando il processo inflazionistico europeo è diventato eccessivo (dalla metà del 2021), la politica monetaria è stata di nuovo lasciata sola anche se una politica fiscale accentrata e selettivamente espansiva dal lato dell’offerta sarebbe stata più idonea a contrastare le cause originarie degli aumenti dei prezzi.

    Riguardo al tema (ii), l’esigenza di progredire verso obiettivi di neutralità climatica e di ridurre i crescenti ritardi tecnologici della Ue soprattutto rispetto a Stati Uniti e Cina ha messo in evidenza la necessità di definire e realizzare progetti transnazionali europei con elevate esternalità. Ciò ha sollecitato l’attuazione di nuove politiche industriali europee, finalizzate a sostenere rilevanti investimenti che rispondano ai segnali delle concrete configurazioni di mercato ma che possano – al contempo – favorire la creazione di mercati davvero europei.

    Il riferimento alle politiche industriali europee e ai Bpe pone, in primo piano, il problema della condivisione dei rischi. Il tema (iii) si richiama alla riflessione di Juergen Habermas che ha concepito forme di solidarietà assicurativa. In situazioni di incertezza radicale quale l’attuale, questa solidarietà assicurativa esclude che le sovvenzioni siano unilaterali, ossia sistematicamente a favore della stessa parte di stati membri

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