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Un'insopportabile donna morta
Un'insopportabile donna morta
Un'insopportabile donna morta
E-book170 pagine2 ore

Un'insopportabile donna morta

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Info su questo ebook

Un cadavere. Un condominio. Un Commissario annoiato. Una domenica di quasi primavera.

Gli elementi del giallo ci sono tutti. E in effetti è così.

L'unica, fondamentale differenza che rende questo libro atipico è che del cadavere non ce ne importa quasi nulla.

Non che la povera vittima meritasse quella fine (o forse sì?), ma in quel condominio borghese c’è poca voglia di piangere la scomparsa, ma tanto desiderio di raccontarsi.

E il Commissario ascolta, osserva e, cercando la storia della vittima, apprende quella dei coinquilini, fatta di malizie, piccoli segreti, cattiverie, desideri infranti.

LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2024
ISBN9788869349089
Un'insopportabile donna morta
Autore

Stefania Coco Scalisi

Stefania Coco Scalisi, catanese, vive e lavora a Bologna. Laureata in Relazioni internazionali, ha vissuto a Firenze, Milano, Ginevra, L'Aia, Londra, Washington e Tel Aviv. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo, La Democrazia della Felicità (Edizioni Scatole Parlanti). Dal 2020 pubblica per diverse riviste letterarie: A4, Rivista Blam, Grado Zero, Pastrengo, Smezziamo e Storie Bizzarre.  

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    Anteprima del libro

    Un'insopportabile donna morta - Stefania Coco Scalisi

    Stefania Coco Scalisi

    Un’insopportabile donna morta

    Romanzo

    © 2024 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    I edizione, maggio 2024

    Isbn 9788869349072

    e-Isbn 9788869349089

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati

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    Alle donne della mia vita. Più una.

    Capitolo 1

    L’androne

    Il corpo era lì, a terra, scomposto. Una scarpa ancora al piede, l’altra sbalzata di qualche metro. Al collo, la volpe sembrava avesse cambiato espressione, triste per essere finita indosso a un cadavere. Attorno alla testa, una piccola aureola di sangue, i cui contorni a mala pena si percepivano tra il vinaccia del tailleur e il granata delle mattonelle. Gli occhi erano invece sbarrati, in un misto di disappunto e nausea che chi la conosceva, la vittima, giurava avesse sempre, anche prima dell’incresciosa situazione in cui si ritrovava.

    Sì, perché Adalgisa Calvi, nel palazzo nota come la vedova Calvi, era morta. Su questo non aveva avuto nessun dubbio Alberto, il portinaio, che sentendo un tonfo quella domenica mattina, mentre stava ancora a letto a godersi il primo sole d’autunno nel suo piccolissimo appartamento a piano terra, si era precipitato, o almeno ci aveva provato, a vedere di cosa si trattasse.

    Non percepiva alcun compenso, si badi bene, per il suo lavoro in guardiola o per quanto faceva perché i pacchi e le lettere arrivassero sempre a destinazione, ma a ottant’anni suonati, più di cinquanta dei quali passati in quel condominio, l’affitto gratis in cambio di qualche piccolo lavoretto e la pensione minima gli andavano più che bene. Mai, quindi, si sarebbe sognato di assistere a una scena così raccapricciante, proprio la mattina del suo giorno libero. E soprattutto trovava irritante che una cosa tanto spiacevole fosse successa nel suo palazzo.

    Certo, c’erano stati alcuni tentativi di suicidio nel corso degli anni: barbiturici, overdose di Xanax, un superficiale taglio delle vene da parte della figlia quindicenne dei coniugi Aldobrandi (problemi di cuore, dicevano, causati da un amoretto estivo che non aveva mantenuto la promessa di amore eterno fatta in villeggiatura). Tutte cose abituali di un rispettabile condominio borghese, insomma. Ma niente di cruento e volgare. E soprattutto, niente di così definitivo, come un cadavere in bella mostra nell’androne.

    Il tonfo Alberto lo aveva sentito intorno alle otto del mattino. Dell’orario era ragionevolmente sicuro perché, anche se i suoi occhiali erano sul comodino e lui senza non vedeva molto, la radiosveglia aveva appena annunciato l’ora esatta.

    Era da sempre una sua abitudine quella di farsi svegliare dal giornale radio delle otto in punto così da iniziare, dopo una fugace colazione a base di latte, pane e marmellata di ciliegie, il suo turno in guardiola mezz’ora dopo. Da lì cominciava la sua giornata, fatta di raccomandate da firmare, piccole riparazioni da effettuare per i condomini e scale da spazzare.

    Quella mattina però, era ancora a letto. E tirarsi su all’improvviso per capire cosa fosse successo, gli era costata un’enorme fatica. Si mise addosso alla bene in meglio la camicia e i pantaloni ordinatamente ripiegati sulla sedia accanto al letto (anche quella un’abitudine che lo accompagnava da decenni) e in pantofole corse verso l’origine del rumore. Ci mise un po’ a capire cosa fosse quella massa informe ai piedi delle scale: un sacco della spazzatura? Un lenzuolo? Fu solo quando, avvicinandosi, vide una scarpa, poi un piede fasciato in un collant nero e infine i contorni del viso che realizzò. Un corpo, il corpo della vedova Calvi.

    Per un momento gli mancarono le forze. Si appoggiò con forza al corrimano e si sedette su un gradino. Con le mani tra i capelli, continuò a fissare il corpo. Perché? Perché l’aveva fatto? Perché suicidarsi a quell’età?

    Mentre quelle domande vorticavano nella sua testa, iniziò a giocherellare con il piede della vedova, dandogli colpetti con la punta delle pantofole. Per un attimo ebbe la sensazione di sentire il rumore di una porta che si chiudeva. Alzò la testa, in cerca di qualcosa, qualcuno che magari lo venisse a trarre d’impiccio. Ma niente, non vide nessuno. Forse se l’era solo immaginato. Stette così per almeno cinque minuti, incapace di pensare a cosa fare dopo. Era troppo vecchio per avere anche quel pensiero.

    Affranto, si tirò su.

    «Ma proprio di domenica mattina si doveva buttare giù, eh? Non poteva aspettare lunedì?»

    La morta non raccolse la provocazione e, in tutta risposta, continuò a fissarlo con gli occhi spalancati. Alberto si soffermò un attimo ancora a guardarla, sperando nel miracolo che lei si ricomponesse e con la solita puntuta antipatia lo riprendesse: "Ha messo troppa cera su quei gradini, signor Alberto. Se non presta attenzione, qualcuno qui ci lascia le penne!".

    Ma nulla accadde. E ad Alberto non restava che una decisione: se di quel corpo non se ne fosse occupato lui, se ne sarebbe occupato la polizia.

    Al telefono, la poliziotta gli sembrò piuttosto perplessa: la voce di Alberto tradiva la sua età e aveva avuto come l’impressione che lei non lo prendesse molto sul serio. Anzi, a dirla tutta, temeva pensasse che fosse proprio rimbambito.

    Ma una denuncia di quel tipo non poteva essere presa alla leggera, e così due poliziotti partirono con molta calma dalla centrale di polizia, distante poco più di tre chilometri dal palazzo, e dopo circa un quarto d’ora varcarono l’imponente portone di legno massello oltre il quale videro Alberto, fermo ad aspettarli.

    «Prego, prego, da questa parte» disse Alberto puntando con il dito in direzione del corpo, che non si era ovviamente mosso di un millimetro.

    I due si avvicinarono e i loro volti tradivano la gamma di emozioni che stavano provando in quei pochi secondi: prima perplessità, poi curiosità, e infine stupore. Il vecchio non era pazzo. Lì c’era proprio un cadavere.

    Alberto li vide armeggiare con il telefono, non sentì bene cosa stessero dicendo, ma poiché i due continuavano a puntare lui e la defunta vedova, riuscì a cogliere il senso generale dei discorsi.

    «Buongiorno signor...?»

    A parlare era il più grande dei due poliziotti. Piuttosto alto e dal fisico robusto, si accompagnava perfettamente al collega leggermente più basso, ma molto più esile. Chissà se venivano accoppiati sempre così, pensò Alberto. Uno alto con uno basso, un magro con un grasso, uno brutto con uno bello.

    «Alberto Bonini.»

    «Lei è…?»

    «Il portinaio di questo stabile. Dal 1968.»

    «Che cosa è successo? E soprattutto, lei conosce la vittima?»

    «La conosco da quasi quarant’anni. È Adalgisa Calvi, la moglie del giudice Cosimo Calvi. Il suo nome da signorina, non lo so. Da quando la conosco si è sempre presentata come Signora Calvi, poi vedova Calvi, da più o meno dieci anni. Il marito è morto di tumore al colon. Non aveva nemmeno sessant’anni che glielo diagnosticarono. Era irriconoscibile alla fine. Lui sempre così impettito, in ordine, con una gran massa di capelli, a dispetto del cognome che teneva. Nell’ultimo periodo sembrava un altro: in disordine, spettinato. Ma ci teneva comunque, lo si capiva. La vedova gli stava sempre dietro con un pettine e continuava a mettergli in riga il ciuffo, o quel poco che gliene restava. Alla fine, se ne è andato in meno di tre anni.»

    «E cosa è successo esattamente stamattina?»

    «Ah, questo è lavoro vostro. Io so solo che me ne stavo tranquillo a letto quando all’improvviso sento questo tonfo dalle scale. Io sento tutto purtroppo perché la mia camera da letto dà proprio sulla tromba delle scale. Un inferno che non le dico: bambini che piangono, gente che corre, tiratardi. Non riesco mai ad avere un attimo di pace. L’unico momento di calma è la domenica mattina, quando tutti dormono. E proprio oggi che me ne stavo tranquillo a letto, succede questo.»

    «Capisco. E si ricorda che ore fossero?»

    «Lo so bene. Erano trascorse le otto da pochi minuti. Era appena passata alla radio l’ora esatta. E dopo neanche cinque minuti ho sentito quel rumore e sono venuto a controllare.»

    «Non ha pensato che potesse essere semplicemente il rumore di una porta che si richiudeva?»

    «No, era chiaramente qualcos’altro.»

    «Quindi ha visto il cadavere e cosa ha fatto?»

    «Beh, innanzitutto mica ho capito subito di che si trattava. Mi sono dovuto avvicinare per vedere bene.»

    «Non ha toccato niente vero?» lo interruppe il poliziotto.

    «Ovviamente no – rispose impettito Alberto – so bene cosa si fa in queste situazioni. Ho visto tutte le puntate di quella seria americana, quella con tutti gli omicidi, come si chiama?»

    «CSI?» suggerì l’altro poliziotto, quello che ancora non aveva aperto bocca.

    «Ecco, quella là! L’ho vista tutta. So cosa si fa con un cadavere! Non lo si tocca fino a che arriva la polizia!»

    Alberto pronunciò queste ultime parole sperando di ricevere un complimento, che però non arrivò.

    «Va bene allora. Ha visto il cadavere e poi?»

    «E poi, quando ho capito chi fosse e cosa era successo mi sono seduto sul gradino. Non ci potevo credere. Sono rimasto qualche minuto fermo, sbigottito. Poi ho realizzato che, se non mi fossi dato da fare, nessuno si sarebbe occupato della cosa e vi ho chiamati.»

    «Ha fatto benissimo. Ora si accomodi qui che arrivano i colleghi. Resti a nostra disposizione. Non si allontani.»

    Nel giro di paio di ore, l’androne si riempì di gente. Poliziotti in divisa per lo più, ma anche fotografi, un medico legale e una signorina che non lo aveva nemmeno salutato e che aveva tutta l’aria di essere un giudice. Ovviamente, dato il trambusto, iniziarono a scendere alcuni condomini dai vari piani, incuriositi da tutto quel via vai.

    Ma è una cosa terribile!, Ma come è potuto succedere!, Oh mio Dio, povera vedova, furono le frasi che Alberto sentì pronunciare più spesso da quella carovana di curiosi che cercava disperatamente di sapere da lui più informazioni possibili.

    L’entusiasmo si spense quando uno dei poliziotti in borghese, il commissario Caputo, disse che voleva sentire tutti, uno ad uno.

    Ora era però necessario ricomporre la salma e portarla all’obitorio per l’autopsia di rito – che beffa per la vedova sempre così rigida ed impettita, sapere che l’avrebbero fatta a pezzi e ricucita. Dopo quella comunicazione tutti rientrarono nei loro appartamenti, tra borbottii e non tanto celati lamenti per quella spiacevole incombenza che avrebbe rovinato la domenica. Alberto giurò di aver sentito l’Avvocato Finelli dire:

    «Comunque, fa un po’ cafone andare a morire di domenica.»

    Quando l’androne tornò a svuotarsi, il Commissario si avvicinò ad Alberto che per tutto quel tempo era rimasto seduto in guardiola, come gli avevano detto di fare.

    «Buongiorno Sig. Bonini, innanzitutto grazie per la sua pazienza.»

    Il Commissario aveva una voce sottile, sembrava uno di quegli uccellini che iniziano a pigolare e non la smettono più. Tutto il suo corpo in realtà emanava un senso di delicatezza, di fragilità. C’era qualcosa di sfuggente in lui, una forma inconsapevole di eleganza. Chissà come sarebbe stato con indosso degli abiti femminili, pensò Alberto. Probabilmente nessuno si sarebbe accorto che c’era un uomo sotto quel travestimento.

    «Dunque, i colleghi stamane sono arrivati dopo la sua chiamata che è avvenuta alle…»

    «Alle 8.20! Minuto più o minuto meno. Come ho detto ai suoi agenti, io mi sono alzato che saranno state le 8.05 al massimo.»

    «Come mai ne è così certo?»

    «Perché come i suoi agenti gli avranno già detto – e rimarcò quelle parole con una punta di fastidio – la radio aveva passato il segnale orario da uno massimo due minuti quando ho sentito il tonfo. Il tempo di recuperare gli occhiali e mettermi su la camicia che si saranno fatte le 8.05.»

    «Bene, e poi?»

    «Poi sono arrivato nell’androne e ho visto il corpo a terra. Lì per lì non lo avevo capito che era la vedova. La vista non è più quella di una volta e quindi mi sono dovuto avvicinare meglio per vedere.»

    «Non ha toccato niente vero?»

    «Non ho toccato nulla» replicò Alberto,

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