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E-book364 pagine11 ore

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Info su questo ebook

La narrazione si apre con il protagonista della storia, un ragazzo di quasi 19 anni che si addormenta in una camera di hotel a Boston, città che stava visitando per l'università. Durante la notte rivive gli ultimi mesi della sua vita come un lungo flashback onirico, ripercorrendo le sue esperienze di vita: la perdita della madre, il vivere da solo con la sorella gemella, la relazione con la sua collega Liza (protagonista femminile della storia), il sesso, il lavoro, l'università, le esperienze con gli amici e le ragazze occasionali.
La storia è ambientata a New York ed è scandita da riferimenti come la musica, i sogni e tutti i luoghi della città. I temi principali sono tre:
il rapporto madre-figli, fratello-sorella e ragazzo-ragazza, ed inoltre quasi la totalità dei luoghi descritti è reale.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2014
ISBN9786050306798
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    Anteprima del libro

    Dentro - Alessio Ciccosanti

    Dentro

    1

    Mi risvegliai poco dopo mezzanotte, impiegai qualche secondo per contestualizzare spazio e tempo, non ero abituato a riaprire gli occhi in un posto diverso da casa mia. Mi ero addormentato con la luce sul comodino accesa e questa mi provocò un fastidioso bruciore alle pupille, realizzai che quella era la mia prima notte a Boston. Per l’eccitazione non avevo neanche dato un’occhiata alla camera in cui alloggiavo, era mediamente grande ed organizzata in un unico spazio con un bagno annesso, vicino l’entrata vi era sistemata una scrivania con una sedia di acciaio. Il pezzo forte era indubbiamente il letto a due piazze che occupava la parete opposta alla porta, sul lato sinistro di esso si apriva un armadio a muro in cui non avevo riposto ancora nulla se non la mia giacca a vento, su quello destro invece una piccola finestra che dava sulla strada di fronte, il resto era accogliente, nel complesso era sia pulito che ben curato.

    Ripercorsi mentalmente la giornata che avevo trascorso: il viaggio per venire qui da New York, il pomeriggio al campus dell’università ed il breve tour del centro della città. Mi dissi che in fondo vivere lì non sarebbe stato male, o forse cercai solo di farmi piacere l’idea, quasi per convincermi che quella era la cosa giusta da fare. Continuai a pensarci per gran parte della notte immaginando le esperienze che avrei potuto affrontare lontano da casa, certo ci sarebbe voluto un po’ di tempo per abituarsi a stare da solo senza mia sorella.

    Trascorrere del tempo lontano da lei mi procurava un dolore quasi fisico, sapere di non poter correre nella camera vicino alla mia e trovarla lì mi destabilizzava non poco, quello era un pensiero che aveva sempre occupato un posto di rilievo all’interno della mia testa. Lei il college lo avrebbe fatto alla New York University, era la sua decisione e questo avrebbe significato vivere in due stati diversi.

    Spensi la luce e rimasi immobile a guardare il soffitto, il solo chiarore presente nella camera era quello che filtrava dal vetro della finestra, non so per quanto restai in quella posizione senza far nulla ma fatto sta che trascorsi un bel po’ di tempo così. Avevo freddo perciò mi infilai sotto le coperte per provare a recuperare il sonno, quando lo feci non trovai alcun conforto, anzi, nella mia mente si materializzò l’idea di Liza, erano ormai tre settimane che non ci parlavamo e lei mi mancava da matti.

    Mi chiesi dove fosse in quel momento e cosa stesse facendo della sua vita, c’erano tante cose che avrei voluto dirle, venire a Boston significava anche questo, chiudere per sempre quella porta.

    Come eravamo arrivati al punto di perdere tutto quello che di buono avevamo fatto l’uno per l’altra?

    Decisi di dormire.

    Mi girai su di un fianco, chiusi gli occhi e provai a ricordare come tutto era cominciato. Dall’inizio.

    Avevo la testa contro il finestrino dell’autobus, era una sensazione che odiavo. Quando dormivo poco perdevo il ritmo del mio ciclo vitale, mi svegliavo tardi, o troppo presto, dipendeva dai punti di vista. Entravo in una dimensione parallela al mondo, quando gli altri dormivano io vivevo, quando gli altri vivevano io mi trascinavo, questo perché perdevo il contatto con la realtà, mangiavo ad ore strane, se mi svegliavo alle 5 di pomeriggio ero in ritardo per il pranzo ma in anticipo per la cena. In quei casi il problema da risolvere era quello di decidere se lavarmi i denti oppure aspettare di mangiare.

    In fisica ci spiegavano che il tempo era un concetto relativo, nulla di più vero. Quando soffrivo di insonnia, e non dormivo per 3 giorni a settimana, tutto diventava un’esperienza extracorporea, certe volte pensavo che anche Einstein avesse problemi a dormire.

    Era come essere intrappolati in un fuso orario, i tempi di recupero mi divoravano. Non riuscivo a rilassarmi, i sobbalzi dell’autobus mi facevano sbattere la tempia sul finestrino, il freddo del vetro faceva il resto, decisi di rinunciare e cedetti al nervosismo. Aprii gli occhi. Che ore erano? Dovevo riflettere. Induzione o processo induttivo: procedimento che partendo da singoli casi particolari cercava di stabilire una legge universale. Una legge però che non veniva assolutizzata, ma che, essendo ritenuta molto probabile, fungeva da guida d'indagine sulla realtà. Ero su un autobus, per quale motivo? Per andare a scuola prendevo la metro, quindi non stavo andando li, però avevo uno zaino con me. Questo era il mio singolo caso. Da quello che vedevo fuori dal finestrino mi trovavo a Manhattan, c’era cartello che indicava Noho verso nord, mi trovavo a Manhattan ed avevo con me uno zaino. Avevo capito. Conclusione. Stavo andando al lavoro, quindi era sabato, altrimenti se fosse stato venerdì mi sarei trovato in metro, nel week end certe volte capitava che prendessi l’autobus perché in quel modo potevo provare a dormire lungo il tragitto, cosa che in metro non era possibile.

    Avevo lo zaino con me per portarmi dietro la divisa da lavoro. Riconobbi la strada, ero quasi arrivato, perciò erano le 15 e 20 circa.

    Questa era la realtà. Mi guardai intorno sul bus, una ragazza mi squadrò forse sorpresa dall’aria assonnata che dovevo avere, sorrisi, sorriso di circostanza.

    Non l’avevo mai vista su quest’autobus a quest’ora del sabato, evidentemente era una passeggera occasionale, nessuna chance di rivederla. Era la mia fermata. Mi alzai per scendere, le portiere si aprirono dopo il consueto rumore della frenata che sembrava uno sbuffo, ero fuori, salii sul marciapiede e camminai verso nord per circa cinquanta metri, tutto a memoria, neanche mi guardai intorno. L’unica cosa che mi costrinse ad alzare gli occhi da terra furono due gocce di pioggia che mi raggiunsero la fronte, alzai il cappuccio del mio Eskimo sopra la testa e misi le mani in tasca, tornai a guardare in basso, un piede davanti all’altro fino a quando non raggiunsi la libreria in cui lavoravo.

    Sperai che non piovesse, era sabato pomeriggio ed ero a lavoro, questa era la realtà.

    Entrai nell’edificio col cappuccio ancora in testa, notai che i miei colleghi si stavano dando il cambio. Lavoravo qui part-time il venerdì e nel week-end, cinque ore, quasi sempre di pomeriggio, era così che andava da nove mesi. Buon pomeriggio. Il mio capo mi salutò. Mi scoprii la testa e mi diressi al piano superiore. La libreria si snodava su due piani, al primo c’era il reparto bambini-libri scolastici, con una sezione dedicata ai cd-dvd, al secondo la letteratura, dove lavoravo io. Era ancora tutto vuoto perché eravamo nella pausa pranzo, 15e30 – 20e30 era il mio turno, alla fine non era male, orario part-time perfettamente compatibile con i miei orari da studente e paga accettabile. Era un lavoro ok. C’era qualcosa nei libri che mi calmava, dovevo stare lì ed aspettare che qualcuno mi chiedesse informazioni, non sempre questo succedeva, molte persone avevano quasi il timore di chiedere, talvolta andavano incoraggiate. Salve, serve aiuto? dicevo io, no grazie dò solo un’occhiata, dicevano loro, ok sono a disposizione.

    E’ così che andava, niente di più facile, parlavamo di libri.

    Ciao bello! mi sentii chiamare da dietro, riconobbi la voce della mia collega di reparto, Liza. Era mia coetanea, frequentavamo entrambi l’ultimo anno di liceo, lei era del Queens, io di Brooklyn. Liza stava per Elizabeth. Ciao. Sorrisi quando mi si avvicinò, feci scivolare la mia mano sinistra sul suo fianco destro e lei mi salutò con un bacio sulla guancia. Quanto sei erotica oggi, dissi. Liza era una ragazza magra e un po’ bassa, mora con i capelli lunghi e lisci, con un piercing sul labbro, carina in definitiva. Non era la reginetta del ballo, ma a me piaceva perché aveva un’aria intrigante, mi piaceva perché stava al gioco e rispondeva a tono. Come?.

    Hai capito. Non sono cose da dire a una ragazza del Queens. Invece sono proprio cose da dire a una del Queens. Stupido. E mi sorrise. Ed io pensai che quel sorriso avrebbe potuto convincermi ad andare al lavoro anche se Manhattan fosse stata coperta dalle acque, poi mi ricordai che in realtà quello che invece mi convinceva ad andare al lavoro era l’affitto da pagare al padrone dell’appartamento dove vivevamo io e mia sorella. Liza lavorava qui da 4 mesi, questo faceva di me il veterano tra i due, ed io me ne approfittavo. Vado a cambiarmi ed arrivo, tu metti in esposizione le nuove uscite in ordine alfabetico, da Cornwell a Palahniuk. Dissi.

    Agli ordini!. Senti, abbiamo ancora cinque minuti, lo vuoi un caffè?, fece lei. Io mi sfilai l’Eskimo, poi sorrisi. Vuoi offrire un caffè a uno che soffre di insonnia? Messaggio ricevuto. Se vuoi offrirmi qualcosa mangiamo insieme una sera dopo il lavoro, sempre che anche nel Queens si mangi. Sai quella cosa chiamata cibo? Tipo la pasta o la pizza? Ok, ora hai presente quando le persone masticano? Perfetto, quello è mangiare. E tu sembri sottopeso. La provocai. E tu sembri non dormire da un pezzo, hai presente quando il sole tramonta? Bene, quella si chiama notte. E’ di notte che le persone dormono, nel Queens funziona così, e a Brooklyn? sentenziò lei. Sorrisi.

    Mi girai e mi avviai verso la saletta riservata al personale, per raggiungerla dovetti superare il reparto letteratura europea, sulla destra salendo le scale, aprii la porta con la classica sbarra a spinta tipica delle uscite di sicurezza. Vi era attaccato il cartello che recitava: solo il personale. Fino a poco tempo fa, quando venivo qui ancora come cliente, mi chiedevo cosa ci fosse dietro, poi una volta assunto finalmente lo scoprii. La prima volta che varcai quella soglia pensai: ora tutto ha inizio, vedevo quella porta come il mio ingresso nel mondo del lavoro, ero tanto eccitato quanto impaziente del mio primo stipendio. Quella porta non fu solo la porta della saletta del personale, fu la via di fuga dalla vita che facevo, ed ancora oggi la vedevo come tale. Entrai nella saletta e mi cambiai, dopo aver posato lo zaino nell’armadietto tornai indietro. 15e32. Ero al mio posto con la divisa verde Irlanda sopra i vestiti quando Liza mi raggiunse.

    Senti ma come fa un libro a costare 39 dollari?, fece lei, con uno sguardo che avrei attribuito ad una che aveva appena visto un cane guidare un’automobile. Voglio dire, è un furto, posso capire se si tratta di un libro di cultura, magari fotografico con dei costi di stampa mostruosi, ma questo è da ladri!. Non mi stressare, le risposi.

    No, davvero, lavoriamo per dei ladri, questo fa di noi loro complici.

    Liza era una fautrice della teoria del complotto, una di quelle che pensava che i batteri delle nuove influenze venissero sparati nei condotti d’aria delle metropolitane per far ammalare di proposito le persone, per poi gridare alla pandemia e vendere i vaccini a volontà. E’ così che fanno le case farmaceutiche, diceva.

    Mi divertiva quando faceva così, però non oggi, non potevo associare all’ insonnia anche la paranoia. Senti, mettiamola così: c’è un tizio, questo tizio legge per interesse, magari prima di andare a letto. Legge per conciliarsi il sonno, invece di contare le pecore per addormentarsi apre un bel libro costoso da 39 dollari, poi mettiamo che questo tizio soffra di insonnia, leggere lo aiuta a dormire, invece di imbottirsi di sonniferi messi in commercio da quelle stesse case farmaceutiche che sparano i virus nelle metropolitane lui preferisce leggere. Ok? Vedila così: noi rubiamo i clienti alle case farmaceutiche, con i libri perderanno clienti e soldi, meglio 39 dollari che la metro infestata. Sei forte dovresti fare l’avvocato, o il giornalista, disse Liza.

    Così mettiamo su un bel caso Pellican, io faccio Julia Roberts.

    Mi venne da ridere, poi tirai fuori il cellulare dalla tasca e lo misi in modalità silenziosa, 15e35. Non ridevo più, ancora 4 ore e 55 minuti alla fine del turno, avevo solo voglia di dormire, se avessi potuto dormire per 4 ore e 55 minuti sarebbe stato un miracolo. Dovevo stare sveglio, il lavoro era lavoro, non era come la scuola, lì sì che potevo dormire, contava solo essere più intelligenti ed avere metodo. Liza girò intorno ad uno scaffale con due libri in mano, scivolò dalla destra alla sinistra del ripiano come un coltello che spalmava la marmellata sul pane. Un terzo del tempo del lavoro lo dedicavamo a rispondere alle domande dei clienti curiosi o semplicemente distratti, un altro terzo lo impiegavamo a mettere a posto quello che i clienti prendevano e lasciavano fuori posto, nel restante terzo non facevamo proprio niente. Era proprio nel tempo in cui non facevamo niente che io e Liza davamo il meglio, parlavamo di tutto quello che capitava. Ehi, hai sonno? Sembri proprio a pezzi, lo sai che il capo ci tiene alla presenza con i clienti.

    Si, lo sai che ho quel problema riguardo al dormire, risposi io, sto sveglio due giorni di seguito e poi mi capita di addormentarmi due ore nei posti più strani, figurati che l’altro giorno per poco non mi facevo tutta la metro avanti e indietro. Be’, bello svegliarsi nel South Bronx no?, assunse un’aria comprensiva. Senti finché non c’è nessuno parliamo, altrimenti crollo e il capo mi caccia. Ok, posso dire quello che voglio?. Si, comincia da dove vuoi, la incoraggiai. Voglio parlarti del primo giorno che ho lavorato qui. Perfetto. Liza in questo momento mi stava di fronte tenendo il profilo sinistro, tra di noi c’era lo scaffale con la letteratura inglese, mi stava passando due volumi da rimettere in ordine alfabetico. Come sai sto qui da tipo quattro mesi, l’idea di fondo era quella di trovare qualcosa di poco impegnativo per alzare qualche soldo, diciamo per uscire, per lo shopping, per quello che mi va insomma. Considera che col primo stipendio ho comprato un paio di quadri e poster di New York, ora ho mezza città esposta dentro casa, te l’ho detto che mi piace la pittura, la fotografia in bianco e nero, stile Herb Ritts. Insomma volevi lavorare per comprarti quello che ti piaceva. Esatto, il primo giorno è stato stressante. Comunque lavorare qui alla fin non è male, l’ho pensato subito. Quando ti ho visto volevo salutarti ma dubitavo che ti ricordassi di me. Provai a tornare con la mente al momento in cui ci avevano presentati, non mi sembrava proprio di aver visto Liza prima di allora.

    Le dissi: Forse mi sbaglio ma non mi avevi mai detto che ci eravamo conosciuti prima, non mi ricordo, davvero. Poi lei mi spiegò la cosa: E’ stato ad una gara dei Knicks, al Madison Square Garden.

    Era quasi la fine della regular season, in città c’erano i Celtics, mi ricordo che eri seduto davanti a me, avevi sorriso ad un canestro di Boston, non capivo perché visto che avevi la maglietta dei Knicks, poi quando ti ho visto divorare due hot-dog insieme ho capito. Adesso mi ricordo. Era la sera della promozione: se la partita terminava con più di duecento punti distribuivano hot-dog gratis ai tifosi, evidentemente con quel canestro si superava il tetto di punti richiesti. Provai a giustificarmi. Il punto è che mi ricordavo di te e volevo salutarti, durante la partita avevamo parlato un po’ ma poi mi sono bloccata. Comunque è stato solo un attimo, non ti montare la testa. Liza voleva sembrare sicura di se ma invece stava dimostrando di essere in imbarazzo. Si si, feci io. "E' che prima lavoravamo in settori diversi, io stavo al primo piano e facevo il sabato e la domenica mattina, avevamo anche orari opposti, e poi non importa, mi sembravi anche un po’ strano all’inizio, al cambio ti vedevo sempre stanco, poi ho capito la faccenda dell’insonnia. Quando il capo ci ha presentati e ci ha detto che avremo lavorato insieme ho pensato: qualcuno della mia età!

    Questa cosa mi ha rilassato perché mi sono sentita meno fuori posto.

    Il primo impatto è stato divertente, continuavi a chiamarmi con un altro nome, non avevi capito che Liza ero io. Non ho talento nel ricordare i nomi."

    Questo era vero, dovevo ammetterlo, dimenticavo spesso il nome delle persone appena conosciute. Comunque mi facevi ridere. Avevo capito che non era per cattiveria, pensavo fossi semplicemente scemo. Liza adesso mi fece una smorfia. "Ridere non è affatto un brutto modo per cominciare un’amicizia. Citando uno dei miei autori preferiti. E’ vero, hai ragione. Mentre stavamo parlando vidi salire quattro ragazze, forse si incominciava a lavorare dopo tutto. Guardai l’ora, 15e45, quattro ore e un quarto alla fine del turno. Poi dissi: Arriva gente, per ora basta chiacchiere, dopo torniamo insieme per un pezzo di strada ok? Liza si girò per vedere chi stesse salendo al nostro piano, tornò a guardarmi e mi fece cenno di sì con la testa. Ok andiamo fino alla metro insieme, non ti addormentare altrimenti ti lascio li."

    Tranquilla. Una cosa. Quindi ti piace il basket?. Già. Mi voltai ed andai verso la mia postazione.

    Non vedevo l’ora di tornare a casa.

    Lei si stava cambiando ed io la aspettavo al piano terra vicino l’entrata della libreria. Guardai oltre le vetrine, non pioveva più, salutai con un cenno il capo che mi diede l’appuntamento all’indomani. Mi girai per controllare se stesse scendendo, ero abbastanza impaziente quando cominciavo ad avere fame, avevo voglia di tornare a casa ed ero felice perché eravamo nel week end. La sera io e mia sorella mangiavamo insieme, ora stava aspettando che tornassi dal lavoro, anche le altre sere lo facevamo, ma il week-end era speciale. Ricomparve Liza: Eccomi, scusa se ti ho fatto aspettare. Sei in ritardo?. No, tranquilla. E’ solo che sono affamato e Lucrezia mi aspetta, spero abbia cucinato la pasta. Ho capito, allora muoviamoci. Mi prese sotto braccio e ci incamminammo verso la metro.

    Stasera ho freddo. Siamo a fine febbraio, è ancora inverno. Mi fece notare. E’ vero, anche se preferisco l’estate all’ inverno. Mentre stavamo parlando continuammo a camminare, c’erano molte altre persone che facevano altrettanto, era incredibile come quella città non si fermasse mai. Erano le 20e45 ed i marciapiedi non accennavano a liberarsi, era buio ma Manhattan era sempre così. Era sabato, i locali sarebbero andati forte. Poi le parole di Liza mi strapparono ai miei pensieri e mi riportarono nel mondo reale:

    Giriamo all’angolo, più avanti c’è la metro. Ok. Come voltammo l’angolo la sentii spingermi verso destra, il suo braccio mi incitò ad avvicinarmi ad una vetrina, vi erano esposti articoli con la forma di fiori. Ce ne erano diversi: lampade, cornici, centri da tavola, cuscini. Osservai l’insegna, sembrava un negozio cinese. Guarda, mi fece Liza. Ce ne sono alcuni deliziosi, aspettami qui un secondo. No non è il momento per lo shopping! Sta anche per chiudere. Parole al vento. Ormai era già entrata ed io mi maledissi per averglielo lasciato fare. Così stupido. Così testarda. Sbuffando produssi una nuvoletta bianca che scappò nell’ aria fredda, poi morì contro la vetrina, fugace, un attimo solo. Ruotai a centottanta gradi su me stesso, ora davo le spalle al negozio, mani in tasca guardai verso destra: due isolati alla metro. Poi guardai verso sinistra: per l’autobus dovevo tornare indietro e camminare verso sud. Dall’ altra parte della strada due ragazze strillarono e fermarono un taxi. Passarono due minuti che trascorsi appoggiato ad un lampione, poi dietro di me sentii una porta che si apriva e chiudeva subito dopo. Fatto! C’è voluto poco tempo hai visto. Il tempo è un concetto relativo. Andiamo. Liza allungò il braccio sotto il mio e riprendemmo a camminare, nell’altra mano aveva una busta.

    Mi dici cosa hai comprato?. Ruppi il silenzio. No, lo devi scoprire. E’ un regalo per te. Mi guardò speranzosa. Davvero? Non dovevi. Era una sorpresa, lo apri stasera prima di andare a dormire, promesso? Ok. Grazie. Neanche finii di ringraziarla che le diedi un bacio sulla testa, mi mossi così velocemente da prenderla alla sprovvista, Liza infatti sembrò sorpresa. Domani mi dici se ti piace e se ti è stato utile. Come vuoi. Attraversammo il secondo isolato, ora ci trovavamo davanti la metro. Ci vediamo domani. Cerca di dormire se ci riesci. Non preoccuparti, grazie ancora per il regalo. Buona cena nel Queens. Anche a te, saluta tua sorella da parte mia. Certo. Liza si avvicinò e ci salutammo. Fece tre passi camminando all’indietro e poi si girò roteando su se stessa, i capelli e la borsetta svolazzarono disegnando una semicirconferenza nell’aria. Così si allontanò ciondolando finché non la vidi scendere e scomparire dietro i gradini della metro. Mi voltai, guardai l’ora prendendo il cellulare dalla tasca, non indossavo mai l’orologio. Misi le cuffie dell’I-pod e ripresi a camminare, stavo ascoltando Surviving the times di Nas, era tardi ed in quel momento decisi che non sarei mai più andato al lavoro in autobus, bensì avrei preso la metro poiché ci mettevo troppo tempo per tornare indietro.

    Cazzo che fame che avevo.

    Finalmente ero sulla via di casa mia, arrivai davanti il palazzo in cui vivevo, sulle scale c’era la signora del secondo piano che stava uscendo con il cane. Sera signora Cohen. Ciao caro, tutto bene? Dì a tua sorella che potrei avere bisogno di aiuto martedì prossimo. D’accordo. Una volta a settimana io o mia sorella le portavamo la spesa a casa. In cambio lei ci controllava l’appartamento quando non c’eravamo. Certamente. Poi salii i gradini e mi misi tra il portone e la signora Cohen. Mi chinai per accarezzare il suo pastore tedesco. Sera. Sorrisi e proseguii verso l’ascensore. Mentre salivo cercavo le chiavi nello zaino, finalmente ero a casa. Entrai e vidi mia sorella sul divano. Ciao Iaia. La chiamavo spesso così, da quando ero piccolo, perché non riuscivo a pronunciare il suo nome per intero e ripetevo solo le due vocali finali. Ciao! Finalmente sei qui. Ho una fame, ci sono le lasagne, le ho fatte come le faceva nonna.

    Allora saranno sicuramente ottime. Nostra nonna era italiana, quindi le donne della nostra famiglia erano tutte buone cuoche.

    Se ti devi sistemare sbrigati che si freddano. Che hai comprato? Cos’è quel pacchetto. Non lo so cos’è, me l’ha regalato Liza stasera, dopo lo apro. A proposito, ti saluta.

    E’ stata carina. Quando me la presenti? Te la faccio conoscere presto, però è solo una collega, almeno per adesso. Mi cambio e sono pronto per la cena. Cercai di tagliare corto. Uscii dal salone ed andai in camera mia, dal corridoio le urlai che la signora Cohen aveva chiesto di lei per martedì. Scrivimelo su un post-it, mi rispose. Mettilo sul frigo. Il tempo di svuotare lo zaino, spogliarmi e fui in salone seduto a tavola. Lucrezia arrivò con la teglia di pasta calda e preparò le porzioni, io invece cambiai canale alla tv. Stasera c’erano i Knicks ad Orlando, sintonizzai su Espn, poi la guardai sedersi, mi sentivo bene quando stavo con mia sorella.

    Le chiesi: Dopo esci?. No, pensavo di vedere la partita con te, domani devo essere al ristorante per pranzo.

    Mia sorella lavorava come cameriera la domenica. Ho invitato una mia amica per il dopo cena, va bene per te? Non c’è problema. Chi è? La conosco? L’hai vista a scuola, sta nel mio corso. Si chiama Julia, è simpatica. Me la ricordo. Però voglio vedere lo stesso la partita. Si lo immaginavo, l’ho già avvisata che a casa nostra funziona così. Sorrise. Molto buone le lasagne, avevo una fame. Ce ne sono anche per domani, prima di uscire finiscile. A che ora viene la tua amica? Domandai. Le ho detto di passare tra il primo ed il secondo tempo. La prossima settimana il padrone vuole l’affitto, domani sera lasciami la tua parte in cucina ok?

    Quando torno te la lascio al solito posto. Precisai. Perfetto. Hai ancora fame? Ci sono le patatine fritte. In realtà si, penso di mangiarle mentre guardo il secondo tempo. Come vuoi, quindi non esci dopo? No, ieri non sono riuscito a finire i compiti di biologia e domani mattina li devo assolutamente fare. Non mi va di mettermi a studiare quando torno dal lavoro. Non hai appuntamento con quella ragazza di scuola? Quella di colore dico. Si, Jada. Non era proprio un appuntamento, dovevamo vederci tutti insieme al club, con suo fratello e gli altri, non era una serata esclusiva per noi due. Comunque l’ho avvertita ieri sera, ho già rimandato. E con Liza invece? Devi mettere ordine nella tua testa. Certe volte sembrava che mia sorella mi facesse da segretaria, era la mia coscienza. Non mi sono sbilanciato, quindi ho tutto sotto controllo. Si ma una ti invita a ballare e l’altra ti fa i regali, attento. E’ perfetto. Mi venne da sorridere mentre lo dissi. Poi tagliai corto: Ora finiamo di mangiare. Sono squisite.

    Qualcosa mi premeva contro la schiena, come se fossi seduto in maniera scomoda. Poco dopo riaprii gli occhi e capii di trovarmi sul divano, dovevo essermi addormentato, ma come avevo fatto? Prima stavo mangiando, quanto tempo era passato? Poi guardai il televisore e vidi che la partita era arrivata al terzo quarto. Iaia. Decisi di chiamare mia sorella. Sono in cucina, sto facendo i piatti. Mi girai e la vidi vicino al lavandino. La porta della cucina si trovava a ore nove rispetto al divano. Che c’è che non va? mi domandò. Come ci sono arrivato sul divano? Stavamo mangiando, non mi ricordavo il resto. Ogni tanto mi capitava di svegliarmi con dei vuoti, era la stanchezza che mi condizionava la mente ed i ricordi affioravano lenti. Hai finito la pasta e poi ti sei messo sul divano, ma non stavi dormendo ho visto che spostavi i cuscini, ti muovevi, eri nel dormiveglia forse. Dietro la schiena sentivo ancora qualcosa che mi premeva, mi misi leggermente su un fianco e con la mano trovai il cellulare, ecco cosa mi dava fastidio. Che ore sono? Chiesi a mia sorella.

    Hai dormito poco, neanche un’ora. Rispose. Come finì di parlare suonò il campanello.

    Ecco Julia. Tentai di risistemarmi. Tornai a guardare la partita, eravamo sopra di sei punti.

    Lucrezia era sulla porta aspettando la sua amica, sentii il rumore dell’ascensore che saliva, passarono pochi secondi e poi apparve Julia dentro casa nostra. Era alta poco meno di mia sorella, più o meno sul metro e sessantacinque, castana, la incrociavo spesso a scuola insieme a Lucrezia. Mi alzai ed andai a salutarla.

    Come vanno i Knicks? Julia si mise vicino a me sul divano. Siamo davanti. Le risposi. Bisogna avere fiducia. Hai mangiato vuoi qualcosa? Feci gli onori di casa.

    Possiamo offrirti un bel piatto di lasagne fatte all’italiana, ricetta originale, sono squisite. Julia era combattuta. Solo un pochino per assaggiarle, mi hai convinto. Poi mi alzai ed andai in cucina, presi le patatine che avevo progettato di mangiare durante l’ultimo quarto di partita e le portai in salone insieme al piatto di Julia. Buon appetito. Altrettanto. Julia affondò la forchetta nella pasta e poi la assaggiò. Avevi ragione sono ottime. Dubitavi delle mie doti di cuoca? chiese Lucrezia alla nostra ospite. Passammo così la successiva mezz’ora mangiando davanti la partita, ogni tanto Julia e mia sorella parlarono di ragazzi ed io evitai abilmente di intromettermi, poi con la vittoria sul campo di Orlando decisi che la serata si poteva concludere li. Salutai:

    Ragazze vi lascio, buona notte. E’ probabile che Julia si fermi qui a dormire, intervenne mia sorella.

    Perciò non ti spaventare se domani te la ritrovi a colazione. Ok. Mi alzai e me ne andai in camera.

    Ero seduto alla mia scrivania, accesi il portatile e cercai di scrivere qualche riga per il compito di biologia, più che altro riordinai i miei appunti, non venne fuori un gran che. Mi buttai indietro e mi appoggiai allo schienale della sedia con le mani dietro la testa, non avevo molta voglia di continuare. Guardai verso

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