Magia delle Somiglianze. La conquista dello spazio secondo Galilei.
Di Sergio Cappa
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Anteprima del libro
Magia delle Somiglianze. La conquista dello spazio secondo Galilei. - Sergio Cappa
Sallustio
Prefazione
…figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, Narciso era bellissimo ma inaccessibile al sentimento amoroso. Amato dalla ninfa Eco la respinse ed ella si uccise per il dolore; un'altra ninfa innamorata di lui ed ugualmente respinta pregò Nemesi, figlia di Zeus e dea della giusta vendetta, di punirlo. Narciso fu fatto innamorare di sé stesso, tanto che egli stava continuamente a rimirare la propria immagine riflessa dalle fonti e dai ruscelli; un giorno, essendosi chinato troppo per vedersi più da vicino, cadde ed annegò……
…figlio di Zeus e di Danae e nipote di Acrisio re d'Argo, Perseo fu da questi abbandonato con la madre in un'arca data in bàlia alle onde del mare. L'arca fu sospinta dai venti fino alle Cicladi, ed approdò a Serifo, dove il re Polidette accolse benevolmente Perseo e la madre; per ordine del re il giovane Perseo fu educato dai migliori sacerdoti del tempio di Atena. La forza del giovane era tale da ispirare timore ai migliori atleti del regno e, divenuto adulto, Perseo si offrì per portare a Polidette la testa della Medusa, una delle terribili Gorgoni, in grado di pietrificare con zanne da cinghiale, artigli da preda e capelli di serpente chiunque le guardasse. Gli dei invocati da Perseo, furono prodighi di aiuti: Ades gli fornì un elmo che rendeva invisibile, Ermes sandali alati ed Atena uno specchio magico….
I miti greci di Narciso e Perseo sono la prova che la curiosità del figlio di Prometeo, di fronte alle superfici riflettenti, è datata al punto da non poter scrivere una storia precedente e/o successiva all'invenzione dello specchio; sin dalla preistoria l'uomo si è interessato al proprio doppio, a partire dalla propria immateriale ed indivisibile ombra, ma ha dovuto attendere secoli per ottenere immagini chiare, prevedibili, calcolabili e spiegate.
Dall'acqua alla pietra levigata, dal metallo alla stagnatura, dal vetro soffiato all’alluminatura, dalla lappatura all'ologramma, le immagini virtuali, eterotopiche od oniriche hanno accompagnato la storia del pensiero scientifico, e non; un viaggio attraverso le immagini apparenti può essere un'affabulazione nella dimensione intima e collettiva del passato, remoto e presente, un sentiero tra apparenze di riflessi divini e intriganti ambiguità, una confessione di enigmatiche realtà e seducenti menzogne.
Il mito di Narciso ci suggerisce che ogni essere umano è soggetto all'immediato fascino d’ogni estensione di sé, anche quando riprodotto in materiale diverso da quello di cui siamo fatti (la penetrante narcosi tecnologica), ma ci insinua anche la diffidenza per l'inganno delle figure allo specchio: lasciarsi catturare dall'immagine riflessa può rappresentare una trappola sino a credere all'apparire, e correre il rischio di annegarvi; l'immagine virtuale deve sempre essere interpretata, con prudente sospetto e misurato rispetto, per difendersi dalle pericolose astuzie della duplicazione, anche solo quando lo specchio, replicandoci, ci confonde la destra e la sinistra ma non l'alto con il basso.
Le pagine che seguono sono guidate dallo stupore che si vuole condividere con il lettore nel ripensare a chi per primo vide sabbia e cenere liquefarsi e ricomporsi in forma metallina irta d’impurità, non sapendo di assistere ad una rivoluzione scientifica: il vetro avrebbe ammesso la luce del sole ed escluso la violenza del vento nelle case, avrebbe esteso la vista del filosofo alla immensità della creazione e convinto dell’infinita subordinazione della vita animale, ed offerto anche, alla stessa vista, una vita sussidiaria in tarda età; le immagini virtuali, dall’ombra all’ologramma, sono manifestamente ontologiche con la nostra storia e finestre del nostro sviluppo, e questo testo ne vuole proporre una sommessa e discreta riflessione.
Nella società della massiccia saturazione tecnologica, dove l'informatica ci forma ed informa, con ed attraverso l'immagine virtuale, una posata riflessione sulla fallacia possibile delle eterotopie tra quante quotidianamente ci vengono offerte, o imposte, consente di avviare la liberazione dalla narcosi tecnologica e la difesa civile contro il fall-out dei media.
…………Primo……promenade…….
Il Maestro sapeva di non poter declinare a quel invito, e si dispose, malvolentieri, ad accettare.
Decise di accettare, di malavoglia, perché i suoi 36 anni erano segnati da una salute non certo ferma: una fastidiosa oftalmia già distraeva la sua vivace curiosità dai notevoli interessi, la meccanica e l’arte, l’ottica e la musica, la filosofia e l’idraulica, e ora che viveva una dignitosa serenità economica e che non poteva certo lagnarsi della mancanza del necessario ma solo dell’impossibilità di attingere al superfluo, avrebbe certo preferito accompagnarsi solo con le sue riflessioni. Inoltre i periodici spostamenti a Firenze per accudire all’istruzione del giovane Cosimo acuivano quelle lancinanti, e spesso imbarazzanti, contorsioni da aria fermentata, che il sintetico gergo popolare indicava con l’evocativo nome di Miserere, che non lo avrebbero più abbandonato, e che era costretto a contrastare con stomachevoli decotti di zolfo e rabarbaro. Il viaggio durava tre giorni e la salita al passo della Raticosa e al Giogo di Scarperia gli pareano un avvilente contrappasso inflittogli per voler ridiscutere i confini del cielo. Questa volta poi non avrebbe potuto accompagnarsi solo con i suoi scritti ma avrebbe dovuto anche compiacere Nicolò da’ Molin, irritante e spigoloso Legato della Serenissima presso il Granducato mediceo e già procurato-re in Frigia e Pamphilia, costantemente proiettato a magnificare i risultati della Repubblica, quasi a rimarcargli le sue mal tollerate origini straniere.
Il Governo del Doge Marino Grimani, amatissimo ed illuminato, invece lo teneva in grande considerazione per quei servigi che all’
Arsenale dispensava con acuto ingegno, e sottostimata remunerazione, in quel tempo in cui il Mediterraneo andava perdendo sempre più attenzione per via di quella Nuova Via alle Indie aperta dal genovese Colombo.
L’unica consolazione, se tale poteva essere, era di viaggiare, per una volta, in una carrozza e non con il solito cocchio che, seppur modificato dall’originale progetto ungherese ormai diffuso, lasciava, per giorni, segni visibili sul fisico e sul morale.
La carrozza dell’ambasciatore da’ Molin invece presentava una cassa con forte ossatura in legno e pannellatura parimenti in legno (costruita sotto la direzione del miglior ebanista di Piacenza, quel Gian Giacomo Navena detto il Cimeta
che già era stato segnalato dai Farnese per la sua arte), con conseguente vantaggio della solidità del tetto, con il cielo interno, e con la comodità delle portiere chiuse e dei finestrini, ma soprattutto con utilissime balestre a cinghioni di cuoio di capriolo a doppia culla e dalla copertura a mantici contrapposti. La Repubblica della Serenissima aveva concesso la titolarità del servizio postale alla privata Compagnia dei Corrieri da ben oltre un secolo, convertendo le antiche mansiones, lungo le direttrici romane, in hostallerie, che ogni trenta miglia consentivano il cambio dei cavalli e il riposo di postiglioni e passeggeri; erano locande che fornivano il vitto e l’alloggio per la notte ed anche la ferratura dei cavalli, la riparazione dei cerchioni e l’adattamento delle finiture rovinate. Così, la lunga tradizione aveva consentito alla Repubblica di dotarsi dell’ultima tecnologia, ed oggi, rivaleggiando con la Corte Estense, disponeva di trenta carrozze in rimessa al deposito di Casoni, sull’Antica via Orlanda.
Decise di accettare, di malavoglia, perché ancora il ricordo dell’amico Bruno, solo pochi mesi prima arso vivo in Campo de’ Fiori, era presente. Il Maestro era arrivato a Padova, da Pisa, nell’inverno del ’91 per occupare la prestigiosa cattedra di matematica, vacante da tre anni, di Giuseppe Moletti, illustre astronomo e geografo che, con il cardinale Christoph Clavius, aveva partecipato alla stesura della riforma del calendario giuliano dell’85. La peste giunta da Oriente, lentamente com’era venuta se n’era andata da pochi anni,