L'immaginario rubato: Senza arte, ogni società è indifesa
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L'immaginario rubato - Fabrizio Catalano
metamorfosi
L’evoluzione degli elefanti
Je n’ai pas besoin de faire remarquer au lecteur que je parle de tout ceci avec la simplicité d’un amateur qui n’a pour lui, en cette matière, que ses sensations toutes naïves. Il y a de la brutalité chez l’ingénu, et il lui vient des idées d’une étrange sauvagerie. [1]
Paul Valéry, Variations sur ma gravure
È piuttosto improbabile, nel terzo millennio, che un qualunque cittadino, pur non nutrendo uno spiccato interesse per questi temi, non si sia imbattuto in un manuale di paleontologia, in un documentario sull’evoluzione, in un cartone animato che abbia per protagonisti i dinosauri oppure i mammiferi dell’era glaciale. Anche chi per questi argomenti ha curiosità sporadiche o relative sa che si è giunti all’ homo sapiens a seguito di un percorso travagliato, affastellato di deviazioni e false piste. Più specie affini a noi hanno convissuto nelle preistoria recente, e con ogni probabilità molte erano interfertili. Tale processo evolutivo, che gli scienziati definiscono a grappolo, non è stato d’altronde una nostra prerogativa: lo sviluppo di molti animali è avvenuto con modalità similari.
Tra questi processi evolutivi, uno dei più intriganti e multiformi è quello degli elefanti. Prima delle due varietà che ancora popolano l’Africa e l’Asia, si è transitati attraverso una ridda di tentativi d’adattarsi agli ambienti e ai climi più disparati. Gli esemplari più antichi somigliavano ai suini o ai tapiri di oggi; il platybelodon possedeva delle zanne inferiori a spatola per frugare negli acquitrini e il deinotherium, invece, per qualche ragione tutt’ora nebulosa le aveva incurvate all’indietro; nel gomphotherium i quattro incisivi formavano una sorta di becco e i mammut erano ricoperti da un fitto mantello per resistere alle rigide temperature del Pleistocene. Nessuna specie era intrinsecamente migliore di un’altra: ognuna poteva far fronte alle difficoltà e alle contingenze dell’epoca in cui viveva.
In milioni di anni, creature elementari, primigenie, sono state rimodulate dalle sollecitazioni della natura, ed è questa non solo una vicenda esaltante, ma una metafora dell’atteggiamento umano nei confronti dell’arte. Arte che – ci insegnano ancora i paleontologi – scaturisce dalla scoperta del fuoco e dalla conseguente genesi del concetto di tempo libero.
A una di quelle domande che si pongono per gioco – in quale periodo storico ti piacerebbe essere teletrasportato? – in pochi sceglierebbero di retrocedere fino agli albori dell’umanità. È stato calcolato che, al termine dell’ultima glaciazione, la popolazione di homo sapiens era ridotta a meno di centomila individui. L’esistenza dei nostri antenati, in un’era così remota, doveva essere dominata tanto dalla paura quanto da un’ineffabile libertà. Certo, non c’era, in quei rari abitanti del pianeta, la cognizione dello spazio che noi abbiamo – o dovremmo avere – undicimila anni dopo; però l’immemoriale retaggio di questa terra vuota, baluginante di misteri, da esplorare, temere, apprezzare e idolatrare dev’essere ancora in noi, acquattato negli insondati recessi della nostra coscienza.
Immaginiamoci dunque fra quei superstiti: intorno a noi fa ancora freddo, la selvaggina scarseggia e ci sono animali da cui ancora non sappiamo difenderci – anche se presto li sopraffaremo –, ci sono malattie, scontri con altre famiglie o con altre tribù, incognite e insidie; eppure siamo soltanto centomila, alla conquista di territori immensi e sconosciuti, siamo i primi a vedere l’oceano o le aurore boreali, i primi a costruire delle barche o ad addomesticare un cane. Siamo un drappello sparuto di persone; per difenderci dal gelo e dal buio, ci rifugiamo dentro una grotta. In quella grotta, c’è un membro del nostro gruppo che ha un talento che gli altri non possiedono: a noi sembra che lui sia in contatto con gli spiriti, con forze occulte di un’altra dimensione – e nulla esclude che ciò corrisponda al vero – ma quell’individuo è essenzialmente un artista. Intona un canto in una lingua di cui si sono perduti suoni e accenti, intinge le dita in alcune sostanze colorate; e, sulle pareti della caverna, traccia le prime pitture rupestri. Dipinge ciò che noi rispettiamo, che speriamo, che invochiamo, che paventiamo. Rende i nostri occhi umidi di lacrime, induce emozioni nel nostro cervello. Ci aiuta a innalzarci al di sopra di ostacoli e pericoli; e ha bisogno di noi che, nella semioscurità della caverna, nel tremulo bagliore di un falò, lo – o la – osserviamo e ammiriamo mentre delinea mistiche figure sulla roccia, sinuosi segmenti pigmentati o, genuinamente, fissa nella storia l’impronta della propria mano.
In quell’istante, è nata l’Arte. E la nostra mente, ancora scevra da sovrastrutture, ha riconosciuto nell’artista una sensibilità diversa, rivelatrice, irrinunciabile.
In un’età in cui forse non si era ancora sufficientemente maturi per definire alcuni concetti, l’artista e lo sciamano erano la stessa persona. Indissolubilmente l’arte era legata alla magia. I disegni sulla roccia e i riti, nel tremendo isolamento della notte, tramite l’energia evocativa dello stregone, emendavano dalla fatica, fomentavano la trance, l’oblio, la purificazione.
Molto è stato scritto su questa materia; e varrebbe la pena di recuperare il sulfureo trattato di André Breton e Gérard Legrand L’art magique. Il libro, in cui la storia dell’arte viene rivisitata alla luce del Surrealismo, contiene, nella sua ultima sezione, una serie di interviste a numerosi rappresentati della cultura del Novecento. L’arte si fonde nella magia – affermano i due autori e buona parte dei loro compagni di viaggio – e in questo amalgama si coltiva l’estrinsecazione della libertà. L’arte è sogno, estasi, illuminazione; è un mezzo per rivendicare un diritto, per pretendere il meglio, per innescare nuove sinapsi, per innalzarsi al di sopra d’una condizione ferina. [2]
Tutte precisazioni, queste, superflue, al limite del pleonastico. Tuttavia, a millenni di distanza dal paleolitico, viviamo stagioni in cui il ruolo salvifico dell’arte viene – con assunti capziosi e con volgarità – costantemente negato.
Una delle mete di questo studio – redatto talora con una veemenza che vorrebbe emulare quella di un fervido polemista del passato come Barbey d’Aurevilly, né compassato né imparziale – è quello di rivendicare per l’arte un ruolo cardinale all’interno della collettività. Negli ultimi tre decenni la figura dell’artista è stata infatti progressivamente screditata, spogliando il tessuto sociale di una protezione indispensabile, enucleando da una cospicua parte dei cittadini l’umiltà, l’aspirazione e la speranza. La pittura e la scultura contemporanee sono state rese – almeno ai livelli più alti – strumenti di riciclaggio di denaro, la letteratura langue nella piattezza di un mercato – cioè di un’editoria – che esige la reiterazione di formule triviali, e la musica sembra non aver alternative, in un bivio letale, tra il fingere che l’Ottocento non sia mai finito e il dover vendere a ogni costo ritornelli che partono esattamente dopo un minuto di ascolto. Rimossi gli artisti del passato, esautorati quelli del presente, il loro patrimonio culturale, la loro eredità etica, le loro invenzioni e intuizioni, i loro struggimenti possono essere derubati, mistificati, traditi, riutilizzati per fini opposti. Tenteremo di tracciare le rotte attraverso le quali un dipinto o una poesia vengono sfruttati per veicolare messaggi che niente hanno a che spartire con le intenzioni che li hanno ispirati. Diffideremo delle soluzioni facili e del convenzionalismo. Stigmatizzeremo le strategie di vendita, che sempre meno aguzzano i gusti del pubblico e sempre più li corrodono.
L’arte, in sintesi, dovrebbe aiutare l’uomo a conoscersi, a capirsi. Indovinarne l’animo e suturarne le cicatrici. E non c’è una regola per conseguire questo obiettivo: e se è pur vero che l’arte è magia, essa non è obbligata a pendere verso il fantastico. I mutamenti del secondo dopoguerra, ad esempio, ben s’attagliavano allo stile scarno, concreto, senza fronzoli e al bianco e nero del neorealismo. In una fase opposta, di recessione e di pessimismo, come quella attuale, è presumibile invece che la verità si stagli sullo sfondo dell’irrazionale. È un’ipotesi – la più plausibile? – che però potrebbe essere confutata. L’essenziale è che questa o qualunque altra ipotesi sgorghi dalla sorgente cristallina della sincerità. Se dall’età della pietra l’arte è ispirazione divina – e ciascuno può dare a questo aggettivo il senso che preferisce – non ci si può illudere di depurare le acque della menzogna!
Questa sorta di perorazione, di pamphlet e di sfogo non ha la pretesa di vagliare lo stato delle arti nel terzo millennio, bensì, più modestamente, di denunciare alcune inquietanti derive. Su tutte, la più silenziosa, sebbene sia sotto gli occhi di ognuno, è quella del cinema. L’esile volumetto che tenete fra le mani si propone d’indagare sui motivi della crisi del cinema europeo e, in special modo, italiano. Dalle proiezioni dei fratelli Lumière a oggi non si è ancora stabilito se queste immagini in movimento, queste parole e questi suoni che rimbombano nelle nostre orecchie e si abbarbicano alla nostra memoria siano arte o meno; una cosa però è certa: in attesa dell’avvento della realtà virtuale, in nulla le arti s’incontrano e si coagulano come nel cinema: creatura poliedrica che è stata progressivamente eviscerata, e adesso inane si dibatte su una spiaggia disseccata e lunare. Il cinema del terzo millennio non ammalia, non coinvolge – se non in maniera superficiale – e non ha un impatto costruttivo sulla coscienza degli spettatori. È sempre più raro che un film accenda un dibattito; e, quando ciò accade, non è più agevole stabilire quanto dipenda da un’arbitraria volontà di sbalordire degli autori o dalla stucchevole contraddanza del marketing.
Sovente nella nostra indagine ci allontaneremo dalle piste già battute, da quelli che la critica ufficiale ha consacrato capisaldi del cinema, perché è preferibile considerare lo stesso fenomeno da svariati punti di vista; e da un lato i millenni di filosofia che ci hanno preceduti e dall’altro la miseria del conformismo che ci circonda ci insegnano che nulla è più venefico di quella che Gesualdo Bufalino definiva l’ossificazione del mondo. [3] L’obiettivo dichiarato di questo libello è suscitare curiosità, pungolare il lettore, spingerlo a ricerche insospettate. Svelare in parte cosa si nasconde oltre lo schermo bianco: non le idee di Platone, non le superbe marionette di cuoio del teatro giavanese delle ombre, ma le colpe di chi si è arrogato il diritto di gestire e manipolare l’arte, il cinema, sconquassando lo specchio e la coscienza di innumerevoli consorzi umani. Accantonando i rimpianti; con vibranti proteste, con proposte per strategie più assennate.
Il tema ricorrente sarà il viaggio. Un infaticabile viaggio sulla mappa del nostro pianeta e del nostro cervello. E ci accompagneranno, con una serie di interviste concesse in esclusiva, due pittori, un grande economista controcorrente, una storica dell’arte e un regista ed esperto di comunicazione, provenienti da diversi angoli del pianeta. Perché ogni inchiesta ha bisogno di testimoni, di prove, di confutazioni. Ogni processo ha bisogno di un’arringa. E non può che sfociare in un’assoluzione o in una condanna. Ma anche la più crudele condanna, come ci insegna Tolstoj, può tramutarsi in una resurrezione.
[1] Non ho bisogno di far notare al lettore che io parlo di tutto ciò con la semplicità di un amatore che non può avvalersi, in questa materia, che delle sue sensazioni assai naïf. C’è brutalità nell’ingenuo, e gli vengono idee d’una strana ferocia.
[2] L’ancien magicien et l’artiste moderne ont en principe la même fonction qui est enchanter l’univers, recréer cet univers et y faire pénétrer les autres par des processus rituels ou intellectuels. Così Jean Markale rispondendo al questionario de L’Art magique. Il mago dell’antichità e l’artista moderno hanno in linea di principio la stessa funzione che è quella di incantare l’universo, ricrearlo e farvi penetrare gli altri mediante procedimenti rituali o intellettuali. (traduzione di Augusto Comba e Roberto Lucci)
[3] E dopotutto il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l’oltranza dei colori, mi pareva, e