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Il mio Vangelo (Diario di un pellegrino)
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Il mio Vangelo (Diario di un pellegrino)
E-book319 pagine5 ore

Il mio Vangelo (Diario di un pellegrino)

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Info su questo ebook

Un giornalista romano in carriera viene inviato dal suo giornale in Medio Oriente, dove dovrà mettere a frutto le sue capacità per realizzare un reportage sulle diverse culture presenti nell’area e sulle conseguenze del mai sopito conflitto tra Israele e Palestina sul vivere quotidiano. Il romanzo è ambientato tra maggio e luglio 2013 e scritto prima della tragica vicenda dell’Isis.
Pietro Tarentini, il protagonista, si innamora subito della missione cui è stato destinato ed attraversa Israele, Palestina, Libano, Siria accompagnato da due diversi Ciceroni, l'israeliano Eliyahu ed il palestinese Mahmoud, che gli fanno da interpreti e lo introducono nei luoghi e nelle situazioni che ne ispirano il reportage. Qui, entrando in contatto con il potere delle istituzioni e delle fazioni contrapposte, con il dolore e le sofferenze della gente comune, cambia profondamente nell’animo. Nonostante i venti di guerra, il protagonista riesce solo a cogliere pace e serenità in questi luoghi e nelle vite delle persone comuni. Un vero inno alla pace ed alla tolleranza.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2015
ISBN9786050369281
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    Anteprima del libro

    Il mio Vangelo (Diario di un pellegrino) - Manuel Mose' Buccarella

    MANUEL MOSE' BUCCARELLA

    IL MIO VANGELO (DIARIO DI UN PELLEGRINO)

    UUID: c6b5f7d0-de23-11e4-92eb-1ba58673771c

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    PARTE PRIMA

    L'autore è su Facebook

    https://www.facebook.com/manuel.buccarella,

    ed è disponibile al suo indirizzo di posta elettronica

    mbuccarella@alice.it

    Illustrazione di copertina: Stained Glass Love di Dawn Hudson, mani vetrate create al computer e cuori. Licenza di Public Domain

    Alla pace nel mondo

    "Il pellegrino dimentica a volte di avere gambe per camminare. Dimentica che non è la strada a scorrergli sotto i piedi, ma che è la sua mente a proiettarsi verso l’orizzonte. Chiedete, se avete intenzione di ricevere. Quando la terra ha sete tocca a lei chiamare la pioggia" (dal Vangelo di Maria Maddalena)

    E' martedì, il mio giorno libero dal lavoro. Come accade di solito, mi sveglio tardi, verso le dieci e mezzo, per riordinare corpo ed idee con la dovuta tranquillità. La giornata precedente in redazione si è conclusa come sempre intorno all'una di notte, dopo aver finalmente confezionato la prima pagina con i titoli per l'edizione del giorno dopo. Il resto è già stato preparato nelle ore precedenti.

    Dopo la laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, conseguita con il massimo dei voti a ventiquattro anni, dopo le iniziali titubanze tra l'avvio alla professione di avvocato e la pratica giornalistica, scelsi infine il giornalismo. La carta stampata, infatti, mi trasmetteva sentimenti più forti e trascinanti di quanto non lo facessero le aule dei tribunali ed il potenziale tintinnio di denari della professione, né imbattermi in concorsi pubblici faticosi e ricchi di alea come per esempio quello in magistratura o quello per notaio mi esaltava più del dovuto. Peraltro non sarei stato né il primo né l'ultimo giornalista dottore in legge, come ben prima e meglio di me, Eugenio Scalfari, Mario Pannunzio, Indro Montanelli, solo per citare gli esempi più noti.

    Il primo anno dopo la laurea lo trascorsi facendo pratica presso lo studio legale di un amico di famiglia, l'avvocato Domenico Ciacci, civilista e soprattutto matrimonialista, poco meno di sessantanni ben portati, capelli ancora quasi tutti neri corti e con un ciuffetto lievemente adagiato sul centro della fronte, tenuti insieme da un po' di gel a tenuta forte, amava portare un pizzetto ben curato. Figura longilinea, alta all'incirca un metro e ottanta, distinta anche nell'abbigliamento, con preferenza per gli spezzati, non sempre accompagnati da cravatta, fumava sigari cubani di gran qualità, soprattutto Cohiba, ed era un appassionato di musica jazz. L'avvocato amava soprattutto i grandi pianisti tipo Herbie Hancock, Chick Corea, Count Basie, Romano Mussolini.

    Seguivo Domenico, Mimmo per gli amici, ed alcuni collaboratori dello studio, in qualche udienza civile ed in qualche altra innanzi alla Sacra Rota, visto che era uno tra i pochi avvocati rotali del distretto di Corte d'Appello di Roma. Si occupava degli annullamenti dei matrimoni davanti ai tribunali ecclesiastici ed in ultima istanza, davanti alla Sacra Rota Romana, anche dei classici matrimoni rati ma non consumati. Mimmo mi aiutava a portare avanti il libretto prescritto per l'attestazione della pratica. Contemporaneamente frequentavo la redazione di un piccolo quotidiano locale di Roma, Cronaca Tiburtina, dove mi assegnarono la cronaca giudiziaria, considerato che frequentavo il tribunale per via del tirocinio.

    Alla fine, pur con qualche difficoltà, a ventisei anni conseguì il cosiddetto patentino per giornalista pubblicista e la pratica compiuta per poter sostenere l'esame di avvocato, che decisi di affrontare subito, giusto per lo scrupolo di possedere un titolo legale utile per il lavoro, se non avessi avuto di che vivere come giornalista. Immancabilmente conseguì l'abilitazione, per fortuna al primo colpo.

    Non sono figlio di avvocati, anche se a casa mi avrebbero ben visto come principe del foro. La mia famiglia, la famiglia Tarentini – manco a farla apposta di origini pugliesi, mio padre veniva dal Salento, da Manduria per la precisione, e si stabilì a Roma a vent'anni per lavorare come pizzaiolo – è una famiglia di commercianti, di ristoratori ad essere precisi. Papà Francesco iniziò come pizzaiolo in una pizzeria a Trastevere nel '59. A Roma conobbe la nativa Giuliana, più piccola di due anni, che lavorava in un piccolo negozio di fiorista con la madre nello stesso quartiere. Tra i due sbocciò, è proprio il caso di dire, presto l'amore, così nel 1966 sono nato io, Pietro – per gli amici Piero - due anni dopo Ginevra ed infine, nel 1972, Stefania. Alla fine papà aprì una risto-pizzeria con l'aiuto di mia madre al Flaminio. L'esercizio ebbe un buon successo.

    Inutile dire che buona parte del tempo libero lo trascorrevamo nel ristorante di famiglia, anche parte delle vacanze quando finivano le scuole. A me piaceva stare in mezzo alla gente, nel ristorante, ma non mi affascinava l'idea di proseguire l'attività di famiglia. Mi piaceva studiare, scrivere e leggere tanto. Spesso la sera mi attardavo a leggere il giornale o qualche romanzo, alzandomi al mattino successivo non proprio molto sveglio.

    *********

    Oggi sono un uomo di quarantasette anni. Ho sposato Gabriella Rossi, due anni più giovane, vera romana de' Roma, conosciuta vent'anni fa alla Fiera quando faceva da hostess ad una convention organizzata dai giovani industriali del Lazio; vi partecipavo come inviato del giornalino locale per il quale lavoravo come pubblicista, con un contratto di collaborazione piuttosto misero ancora, ma pur sempre un contratto. Per Gabriella l'impegno da hostess era assolutamente temporaneo e le serviva giusto per mettere da parte qualche soldino per alleviare gli sforzi economici di una famiglia con quattro figli – lei era la penultima – nel sostenerla all'università. La mia futura moglie conseguì l'anno successivo, nel '94, la laurea in Veterinaria. Dopo esserci arrangiati in un appartamentino sopra casa dei miei, in via Carrara, non lontano dal ristorante, dopo qualche anno, con la nascita di Massimiliano, ci trasferimmo in affitto in una casetta vicino al Lungotevere della Vittoria, ad appena due chilometri dallo stadio Olimpico, nella prima periferia di Roma e comunque confinanti con il quartiere Flaminio.

    Gabriella tentò più di una volta il concorso per entrare nel servizio veterinario della Asl – all'epoca si chiamava ancora Usl, Unità Sanitaria Locale – senza riuscirci, giusto per assicurarsi un posto stabile e discretamente retribuito, nella speranza di non dover mai prestare servizio presso un mattatoio, proprio lei che aveva scelto veterinaria per vera passione ed in quanto amante della natura e degli animali. Si sapeva – ma si sa anche oggi – che almeno una buona percentuale di quei posti erano assegnati ai soliti raccomandati. Scampato inevitabilmente il pericolo mattatoio, Gabriella incominciò ad intraprendere con maggiore assiduità la libera professione, tanto da aprire uno studio vicino casa, ricavato in un vecchio deposito di circa sessanta metri quadri con sfogo sulla pubblica via, che ospitava, oltre alla titolare ed ai pazienti a quattro zampe, anche, inizialmente, due giovani praticanti neolaureate, Monica e Stella. Mia moglie prediligeva la cura di cani e gatti, ma le piacevano molto anche pappagalli e castori, impropriamente trattati come animali domestici dai loro padroni. Contraria da sempre alla vivisezione, divenne ben presto vegetariana.

    Massimiliano appena nato era un bel frugoletto biondo: prese i colori dalla madre, bionda e con gli occhi verdi, ereditando però da me alcuni contrassegni caratteriali e l'amore per la lettura. Non volevamo rimanesse unico e solo così dopo qualche anno, pur non senza difficoltà, gli regalammo un fratellino, cui fu dato il nome di Romano, in omaggio alla città che gli dava i natali e che aveva dato ospitalità e fortuna a mio padre. Era il 2002 e Massimiliano aveva già cinque anni.

    Nel frattempo anche la mia condizione professionale era migliorata: in quello stesso anno ero diventato professionista ed il mio contratto mi dava una maggiore tranquillità economica, pur non essendo un caporedattore. Nel tempo ero riuscito a svincolarmi dalla cronaca giudiziaria, che curavo solo occasionalmente e spesso in sostituzione della collega Annalisa Chiarulli quando era in ferie, occupandomi prevalentemente di cultura e spettacoli, sino a diventare responsabile della rubrica, composta nella peggiore delle ipotesi da due pagine, molto più spesso invece da almeno tre o quattro pagine. D'altronde si trattava degli eventi di una città come Roma caput mundi.

    L'arrivo di Romano fu accolto positivamente da Massimiliano; d'altronde il fratellino più grande era già sufficientemente maturo. E poi tutti e quattro i nonni fecero la loro parte per trasmettere calore ai nipotini e per dare una mano a me e Gabriella che ci dedicavamo ad attività particolarmente impegnative, specie per gli orari. Fortunatamente, non senza gli immancabili sacrifici, la nostra famiglia passò questo momento indenne.

    Dopo qualche anno venne l'inaspettata chiamata di un giornale nazionale di grande tiratura, anch'esso con sede e redazione principale in Roma. Correva l'anno del Signore 2006, era il 16 maggio, di martedì, quando ricevetti un messaggio di posta elettronica al mio indirizzo personale del quotidiano per il quale lavoravo ormai da quindici anni. A scrivere era il vicedirettore responsabile de Il Corriere Italiano, Alessandro Antonelli, che mi chiedeva di chiamarlo in redazione quanto prima al suo numero diretto poiché intendeva parlarmi; scriveva anche di apprezzare la rubrica da me condotta ed alcuni articoli a mia firma incentrati, per esempio, sul restauro del Colosseo e delle Terme di Caracalla e delle recensioni dei grandi eventi musicali romani come, per esempio, i concerti di Genesis e Police e quelli di artisti italiani come Vasco Rossi e Daniele Silvestri.

    Approfittavo di un momento di maggiore confusione in redazione per allontanarmi con la scusa di un caffè, che comunque consumavo al bar di sotto; dopodiché chiamavo con il cellulare il diretto di Alessandro Antonelli, una delle firme più note del panorama giornalistico italiano.

    «Dottor Antonelli, buongiorno. Sono Piero Tarentini, ho letto la sua mail ...»

    «Ah, sì collega, buongiorno … La leggo spesso. I suoi articoli sono molto interessanti. Vorrei parlarle di persona qui in redazione di qualcosa che potrebbe fare al caso suo. Va bene per domani all'una e trenta? Dovrebbe essere un orario appropriato per lei: credo corrisponda alla pausa pranzo, no?»

    «Proprio così, dottore», gli risposi.

    «Allora ci vediamo domani da me alle 13,30, ci conto. Il mio ufficio è al secondo piano, comunque potrà chiedere di me all'usciere, che saprà indirizzarla.»

    «D'accordo – dissi – a domani allora. Potrebbe anticiparmi qualcosa?»

    «Gliene parlerò diffusamente domani di persona», replicò Antonelli.

    Per tutta la giornata fui pervaso da dubbi ed aspettative, che minarono immancabilmente la mia tranquillità. Anche la notte successiva passò in parte insonne. Ovviamente, dopo la telefonata con Antonelli informai subito Gabriella della strana cosa che mi era capitata. Ne parlammo in maniera più approfondita a cena a casa, erano quasi le undici, dopo che avevamo messo finalmente a letto Massimiliano e Romano. Come spesso accadeva, ero uscito dalla redazione intorno alle nove: la mia rubrica non partecipava, generalmente, alla pubblicazione di notizie dell'ultimora né dunque alla composizione della prima pagina per cui, rispetto ad altri colleghi che non abbandonavano la redazione mai prima di mezzanotte, mezzanotte e mezzo, riuscivo spesso a guadagnare l'uscita ad orario che mi consentiva di essere a casa per la cena.

    «Chissà cosa vorrà propormi domani l'Antonelli, sono eccitato ma anche un tantino, diciamo così, preoccupato ...», dissi a Gabriella davanti ad una bella insalata mista.

    «Potrebbero proporti un cambio di casacca, chi lo sa. Ad ogni modo l'essere apprezzato e convocato da un giornale così importante come Il Corriere Italiano può essere solo positivo, Piero.»

    La notte, come detto, passò un tantino insonne: ero eccitato dall'idea di dover incontrare un grande della carta stampata italiana come Alessandro Antonelli.

    Il mattino successivo raggiungevo come sempre la redazione intorno alle dieci. La sede del giornale si trovava non lontana dalla stazione Tiburtina; vi arrivavo tutti i giorni con la linea B, la cosiddetta linea blu della metropolitana. Giusto un anno prima avevamo abbandonato la casetta in affitto di Lungotevere della Vittoria per un appartamentino di circa cento metri quadrati tutto nostro all'Eur, nei pressi del Palasport, in viale dell'Arte, acquistato con un mutuo ma anche con un aiutino finanziario dei miei genitori e dei miei suoceri. Vivere a Roma è bello ma anche un po' faticoso, mi diceva spesso mio padre, che aveva la fortuna di paragonare le dimensioni ed i tempi di un paesone come Manduria con quelli di una metropoli come Roma.

    In redazione non erano giunte grandi notizie, se non le solite di furtarelli commessi qua e là per la città e alcune di cronaca amministrativa relative a Roma e dintorni. Sulla mia scrivania c'erano già alcuni comunicati stampa faxati dagli organizzatori di eventi musicali e culturali in genere: per oggi niente di eccezionale. La giornata migliore, insomma, per potersi defilare con un quarto d'ora d'anticipo, salutando il direttore responsabile, Walter Amatulli, giornalista d'esperienza e da combattimento, come amava scherzosamente definirsi, con i suoi cinquantanove anni non distante dall'agognato pensionamento. E sì perché la professione di giornalista, altroché meglio fare il giornalista che lavorare, è faticosa, anche e soprattutto per gli orari, per la disponibilità notturna, per le non poche responsabilità, soprattutto quando si è alla guida di un quotidiano.

    Scesi a piedi dal quarto piano del palazzaccio che ospitava la redazione per sbucare sulla strada. Mi accolse una bella giornata tiepida e con il sole.

    Pochi minuti a piedi ed ero alla metro. Presi la linea blu per raggiungere in meno di mezz'ora la sede del prestigioso giornale, che guarda caso si trovava più o meno agli inizi dell'immensa via Cristoforo Colombo, nei pressi delle Mura Aureliane. Il treno era come sempre stracolmo di gente a quell'ora, pieno di razze e di professioni diverse – democratico e pluralista dunque – e lievemente maleodorante.

    Arrivato davanti alla sede de Il Corriere Italiano seguii pedissequamente le indicazioni del vicedirettore. All'ingresso mi presentai all'usciere dicendogli che avevo un appuntamento per le 13,30 con il dottor Antonelli: l'impiegato, una persona distinta sui cinquanta, appena sovrappeso, vestita in costume nero con una camicia bianca sbottonata in corrispondenza del primo bottone, ma senza cravatta, fece come per chiamare un interno.

    «Dottor Antonelli, buongiorno, sono Dario dalla portineria. C'è qui giù il dottor Tarentini. Dice di avere un appuntamento con lei per l'una e mezza.»

    Dopo qualche secondo Dario mi disse che il dottor Antonelli mi attendeva nella sua stanza, al secondo piano dell'immobile. Presi l'ascensore, a qualche metro sulla mia destra rispetto alla postazione dell'usciere. L'ascensore era già al piano – molti impiegati e collaboratori della testata erano infatti scesi giù per la pausa pranzo – e non ebbi neanche il tempo di pensare o di fantasticare su quanto potesse riservarmi l'incontro che un leggero suono di campanello mi avvertì di essere giunto a destinazione. L'ascensore era collocato esattamente a metà del piano. Davo un rapido sguardo prima sulla destra e poi sulla sinistra. Immediatamente di fronte all'uscita dell'ascensore, a facilitare il compito di ospiti e visitatori, un pannello rigorosamente nero con scritte e freccette bianche ad indicare gli uffici presenti. Sulla mia destra, tra gli altri, l'ufficio del personale e l'economato, sulla sinistra invece stanze ed uffici più propriamente dedicati alla produzione giornalistica, come la redazione sportiva e quella di economia e finanza.

    Pensai bene di presentarmi all'incontro in giacca e cravatta, anche per non sfigurare, in quanto era ben noto che Antonelli fosse solito vestire in completo, camicia e cravatta, in redazione come nelle diverse apparizioni televisive, e men che meno il direttore responsabile, Roberto Ravazzi. La cravatta, una variopinta Bagutta regalatami di recente da Gabriella, farfalline piccolissime e policromatiche su sfondo celeste, me la attorcigliai al collo prima di entrare nella metro. Nella redazione di Cronaca Tiburtina, infatti, ero vestito più o meno come sempre, con una bella giacca scura, camicia verde chiara a costine, blue jeans scuri e sufficientemente attillati, giusto per non dare troppo nell'occhio e non istigare commenti o domande dei colleghi.

    Il potere della redazione de Il Corriere Italiano era volutamente concentrato nelle ultime stanze sulla sinistra del piano, quasi a volerle preservare da occhi ed orecchi indiscreti e, forse anche, da indebite pressioni. La stanza di Antonelli era così la penultima, a precedere quella del direttore, che era appunto l'ultima. Ero non poco emozionato: il cuore mi batteva a mille all'ora, il collo stretto dal colletto della camicia, dal nodo della cravatta ed infine dal bavero della giacca, secerneva sudore in discreta quantità, il battito delle ciglia era diventato più frenetico ed irregolare. Detti sintomi, che incominciai ad avvertire con una certa prepotenza non appena scesi alla fermata della metro vicino alla sede del Corriere, divennero più intensi mano mano che mi avvicinavo alla redazione e da qui alla stanza di Alessandro Antonelli. La porta del vicedirettore era drasticamente chiusa. Tutte le porte del piano erano eleganti, di color testa di moro ed in wengé, le cornici erano invece più chiare. Suonai non senza timidezza il campanello posto sulla parete, alla sinistra dell'uscio. Dopo pochi secondi vidi una luce verde in corrispondenza del campanello che mi autorizzava all'ingresso. Alessandro Antonelli si trovava di fronte a me, in una stanza di circa quindici metri quadri; la location mi era in qualche modo familiare, visto che il suo inquilino vi aveva rilasciato più di un'intervista o di un intervento in televisione. Come immaginavo Antonelli era vestito in costume, con un bel gessato, probabilmente di marca e costoso, sfondo blu scuro e righine bianco panna, che ben si attagliavano al viso con pizzetto castano ben curato e capello corto sempre di color castano, occhi verde scuri, ed alla corporatura piuttosto longilinea. La cravatta tinta unita blu scuro su camicia bianco candido non smorzava il colorito lievemente roseo del viso. Alessandro Antonelli era stato una promessa del giornalismo italiano e capitolino, reclutato qualche anno prima dal giornale più in voga d'Italia, Il Corriere Italiano, appunto, che aveva reso di lui una realtà. Era esattamente mio coetaneo, e già era alle soglie della direzione del quotidiano più venduto nel paese e ritenuto fonte attendibile e prestigiosa anche all'estero.

    «Buongiorno, collega, venga pure – disse subito Alessandro Antonelli – si accomodi, si metta pure a suo agio.»

    Alessandro Antonelli era seduto in fondo alla stanza, su una bella poltrona nera, probabilmente in pelle, con le braccia poggiate al centro di un'ampia scrivania anch'essa realizzata, come la porta, in un bel legno wengé scuro e dalle belle striature tra il marrone scuro ed il giallo scuro. Spostato verso il lato lo schermo, anch'esso scuro, del computer. La poltrona dava le spalle alla finestra, opportunamente oscurata da una tenda chiara. Su ambo i lati vi era lo spazio per due belle librerie a vista con centinaia di pubblicazioni e diversi annali del Corriere. Sulla parete sinistra, prima della libreria, una felice riproduzione fotografica de La creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti. Sulla destra, invece, campeggiava una foto d'epoca in bianco e nero, presumibilmente degli Anni Trenta o Quaranta, raffigurante una tipografia con le macchine, i piani di lavoro e gli operai, e tra questi una donna piuttosto triste in primo piano. La stanza era abbastanza grande. Tutt'altra cosa rispetto alle stanze così essenziali ed un tantino disadorne della mia redazione.

    Non era la prima volta che vedevo il dottor Antonelli. Ci eravamo presentati in circostanze pubbliche un paio di volte, senza mai poter approfondire. Mi aveva invitato a sedermi su una delle due poltroncine, più piccole e sobrie della sua, ma anch'esse rigorosamente scure. Optai istintivamente per quella alla mia sinistra. Non appena seduto, come per incanto, la tensione dentro me incominciò a placarsi: il mistero della convocazione stava per dissolversi.

    «Allora Pietro, come sta?», mi domandò il vicedirettore distogliendo per un attimo lo sguardo dal mio viso per dirottarlo sulla cornice posta alla sua sinistra, che conteneva assai probabilmente una foto della sua famiglia.

    «Bene, grazie, dottore. E lei?»

    «Tutto bene, non mi posso lamentare. Tanto lavoro, ma è il lavoro che ho deciso di fare perché mi piace farlo. Penso che sia lo stesso per lei, no?», rispose Antonelli.

    «Senza dubbio. E' proprio così», dissi.

    «Allora, veniamo al dunque, Pietro. Non mi piace perdermi in inutili convenevoli o in giri di parole. Se ho deciso di convocarla qui è perché mi piace come lavora … La seguiamo da tempo e la troviamo un giornalista molto versatile ed estremamente competente. Hanno fatto bene ad affidarle la responsabilità della rubrica cultura e spettacoli ..», disse l'Antonelli trattandomi con discreta deferenza ed ammirazione.

    «La ringrazio per gli apprezzamenti, dottor Antonelli, spero di meritarmeli», risposi con altrettanta deferenza.

    «Io, noi … avevamo pensato di farle una proposta, qualcosa di un tantino diverso da quello che fa ora, ma non meno interessante. Avremmo bisogno di lei a sostegno sia delle pagine culturali che degli esteri. Crediamo che lei, per la sua vasta cultura, possa esserci d'aiuto sia nella redazione di articoli di spettacolo e cultura, però incentrati su musica, teatro, narrativa stranieri, che a sostegno della cronaca estera, inizialmente solo dalla redazione romana, per gli articoli di approfondimento. E' evidente che il nuovo incarico, se vorrà accettarlo, comporterà un aumento di stipendio … Quanto guadagna ora, dottor Tarentini? Duemilaottocento euro al mese all'incirca?»

    «Diciamo che ci siamo … prendo circa duemilanovecento euro al mese, ovviamente documentabili con busta paga ...», risposi un po' intimorito ma anche un po' ammiccante.

    «Che ne dice se, oltre al cambio di attività che le ho prospettato, portiamo la sua retribuzione mensile a tremilacinquecento euro? Senza parlare poi della maggiore notorietà che acquisterebbe ...».

    L'offerta mi sembrava assai ghiotta. Continuavo ad essere inquadrato contrattualmente come caposervizio anche se non avevo più la responsabilità di una rubrica; in compenso mi veniva offerto un aumento salariale apprezzabile ed il passaggio alla testata giornalistica più nota nel Paese. Difficilmente mi sarei aspettato una proposta come questa. Troppo bello per essere vero! La risposta venne pressoché immantinente.

    «Affare fatto, dottor Antonelli! Mi dia giusto il tempo necessario, anche legalmente, per congedarmi da Cronaca Tiburtina. Ho bisogno di due mesi, come sa, dopo il preavviso, per rendere efficaci le mie dimissioni.»

    «Nessun problema, conosco bene il nostro contratto collettivo. Potremmo aver bisogno della sua collaborazione anche prima di due mesi, diciamo tra circa un mese. In tal caso sarà il nostro editore a corrispondere l'indennità per mancato preavviso che le chiederà il giornale. Ecco qui il contratto di collaborazione, s'intende ovviamente come giornalista professionista nostro dipendente a tempo indeterminato. Ha tutto oggi e domani per leggerlo, dopo di che potremmo fissare un nuovo appuntamento con il nostro direttore per la firma. Come potrà leggere al punto 8, l'editore si assume espressamente l'impegno a rifonderle l'eventuale indennità di preavviso che Cronaca Tiburtina dovesse pretendere ...»

    «Va bene, sarò lieto di incominciare non appena sarà necessario», risposi con franchezza. «Ora voglia favorire il mio bigliettino da visita sul quale è riportato anche il numero del mio cellulare personale ed il mio indirizzo privato di posta elettronica. Per comunicazioni più riservate preferisco essere contattato a questi indirizzi. Non vorrei che qualcuno, dopo che tra un paio di giorni consegnerò la mia lettera di dimissioni al direttore responsabile del quotidiano ed alla casa editrice, spiasse la mia corrispondenza elettronica per trovare un qualche pretesto per farmi male ...».

    «Preoccupazione del tutto condivisibile», replicò quello che mi sembrava, in quel momento, il mio inatteso benefattore. «Tenga anche il mio di bigliettino!»

    «Dottor Antonelli, la ringrazio vivamente per la considerazione e per l'opportunità professionale che il suo giornale mi sta offrendo. Spero di poter interpretare al meglio l'interessante ed insolito ruolo che avete pensato di assegnarmi ...»

    «Credo non avrà problemi – rispose l'Antonelli – a soddisfare le aspettative che riponiamo nella sua oramai imminente collaborazione … Bene, ora credo che ci siamo detti più o meno tutto … Ci sentiamo tra un paio di giorni, allora!»

    Alessandro Antonelli, quello che in qualche modo sarebbe stato il mio futuro capo, mi strinse con decisione la mano nel salutarmi. Quella stretta, decisa ma non forte, impressa da una mano grande ma proporzionata al corpo, mi trasmise la giusta carica per affrontare il resto della giornata ed il tempo che mi separava dalla firma del contratto.

    L'incontro, che probabilmente avrebbe rivoluzionato la mia vita, si era concluso in massimo venti minuti. Uscì dalla stanza di Alessandro Antonelli ben più forte di quando vi ci ero entrato; ripercorsi la strada a ritroso, per essere finalmente fuori dalla sede del giornale, su via Cristoforo Colombo. Si erano fatte quasi le due di pomeriggio e non avevo molta fame. Generalmente a quell'ora mangiavo di buon appetito, in una locanda vicino alla stazione Tiburtina oppure a casa, quando mia moglie non si fermava in studio anche per la pausa. I bambini invece facevano il tempo pieno a scuola e pertanto pranzavano lì. Qualche volta mangiavano con noi genitori oppure a casa dei nonni.

    Non appena fui fuori da quella che a breve sarebbe diventata la mia nuova sede di lavoro, non attesi neppure un attimo per comunicare a Gabriella l'esito dell'incontro e la conseguente soddisfazione. Composi così il suo numero di cellulare. Gabriella rispose immediatamente.

    «Ehi, Gabriella, indovina come è andata», fu il mio esordio.

    «Bene, immagino, non è così, Piero?», rispose.

    «Più che bene: mi hanno offerto il cambio di casacca con un lavoro nuovo, trasversale. Dovrò lavorare per la redazione cultura e

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