Lo strano Natale del dottor Sossi
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Lo strano Natale del dottor Sossi - Michele Iannelli
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1
Il dottor Giorgio Sossi si assopì sulla poltrona dello studio; la lettura del Corriere della Sera era stata talmente rilassante che gli aveva permesso di valicare l’esile confine che separa la sonnolenza dal sonno.
Il medico approfittava degli intervalli tra un appuntamento e l’altro o per consumare i gustosi pasti cucinati dalla moglie oppure per passeggiare, spesso per leggere.
Dopo trentacinque anni di professione il tempo libero era molto diminuito. La voglia di camminare non era più come quella di una volta e, dunque, le poche pause a disposizione le impiegava, quasi tutte, nutrendosi di cibo e di letture.
Non gradiva alcuna bevanda che non fosse acqua. Centellinava piccoli brani di saggi, articoli del Corriere della Sera, o, più raramente, qualche pagina di un romanzo. Questi scritti svolgevano, a seconda dei suoi bisogni, la funzione di un caffè, di un liquore, di un succo di frutta o di una camomilla.
Amava fumare la pipa, con parsimonia e solo quando non era in studio.
Il dottor Sossi era uno psicoterapeuta e uno psichiatra bravo e quotato. Poteva ritenersi soddisfatto del suo successo professionale; non si considerava un luminare, ma era consapevole di essere valente e stimato. Sin da bambino, come la maggior parte dei genovesi, teneva i piedi ben radicati sulla terra. Ma, d’altronde, Genova è un porto di mare e forse, anche per questo, lui, come molti suoi concittadini, era dotato di una piccola vena d’innocua e creativa follia che prima o poi sarebbe scoppiata. Al Sossi accadde con il raggiungimento della maggiore età, che, a suoi tempi, corrispondeva ai ventuno anni.
2
Mentre frequentava il terzo anno di Medicina fu, infatti, folgorato da un’improvvisa, inaspettata e apparentemente inspiegabile passione per la psicoanalisi.
L’impulso si rivelò talmente forte da spingerlo a individuare in poco tempo un’ottima scuola che poteva essere seguita già da iscritto al quarto anno d’università. Quest’istituto di psicoanalisi aveva, però, sede a Roma e ciò complicava di molto la faccenda.
All’epoca, infatti, oltre a essere uno studente volenteroso e sagace, era fidanzato con la dolce Matilde, sua compagna di classe alle medie e al liceo.
Fino a diciotto anni, aveva militato nelle giovanili della Sampdoria nel ruolo di libero. Iscrittosi all’università era stato costretto ad abbandonare ogni velleità di carriera calcistica dai severi studi di medicina. Aveva, comunque, continuato a giocare come semiprofessionista nella piccola ma gloriosa Entella. Si guadagnava così qualche palanca utile per godere di una certa autonomia finanziaria alla quale avrebbe dovuto rinunciare trasferendosi a Roma.
I suoi genitori possedevano e gestivano una tabaccheria a Sanpierdarena. Lui era il loro unico figlio e, sin da quando era nato, mettevano da parte dei soldi per costituire un fondo al fine di finanziare i suoi studi universitari.
Di fronte a quell’improvvisa mattata psicoanalitica e romana il padre e la madre avevano opposto un immediato e nettissimo rifiuto. I motivi per non volerne neanche sentir parlare erano tanti: non ultimo l’aspirazione di sua madre, malata di reni, a poter disporre di un figlio urologo e a portata di mano.
In quei mesi convulsi era solita proclamare stizzosa e con marcata cadenza zeneise: «Cosa me ne farei di un figlio che cura i matti a Roma!»
Lui, però, tanto aveva pregato, promesso e minacciato che i genitori, alla fine, sia pure con la morte nell’anima, si erano arresi.
Aveva giocato a suo favore il fatto che il denaro già risparmiato per i suoi studi era così tanto che sarebbe stato più che sufficiente alla bisogna. Il soggiorno a Roma, i corsi universitari di medicina, quelli di psicoanalisi, la psicoterapia personale (obbligatoria per un aspirante strizzacervelli) e l’eventuale specializzazione in psichiatria non avrebbero avuto alcuna difficoltà a ricevere un’adeguata copertura finanziaria.
3
Il giovane Sossi una volta a Roma si fece valere. Non venne meno a nessuna delle sue promesse: si laureò in Medicina, ottenne il diploma della scuola di psicoanalisi, si specializzò in psichiatria e, quando iniziò a guadagnare, sposò la Matilde.
Lui e la moglie decisero di stabilirsi definitivamente nella Capitale. Nonostante la lontananza, non fece mai mancare ai suoi affetto e urologi di chiara fama.
I genitori, qualche anno più tardi, vendute la tabaccheria e l’abitazione di proprietà, decisero di ricongiungersi con il figlio e la nuora.
Nel frattempo, Giulia, la sorella minore di Matilde, in uno dei suoi soggiorni a Roma, aveva conosciuto Mario Ignanti, un giovane amico del dottor Sossi. Mario era uno spavaldo e simpatico vigile urbano della Garbatella. Innamoratasi e corrisposta, dopo aver vinto un concorso al Ministero dell’Interno, si era trasferita anche lei a Roma. Qualche mese dopo, Mario e Giulia si erano sposati.
Le tre coppie, unendo tutte le loro risorse, avevano acquistato, all’Olgiata, una bellissima villa a tre piani con parco. Era lì che abitavano, ormai da quasi trent’anni: a pian terreno viveva il padre del dottor Sossi, novantenne e vedovo da un decennio; al primo piano il dottore e la moglie Matilde; al secondo Giulia, il marito Mario e il loro figlio Michele.
Mario, nel frattempo, era diventato un ottimo dirigente della Polizia Locale e comandava il Gruppo del 15° Municipio di Roma; Matilde, d’altro canto, aveva fatto una discreta carriera al Ministero.
Il dottor Sossi, da circa dieci anni, usava come studio un piccolo casale con ingresso autonomo sulla strada. Se l’era fatto costruire incastonato nella parte interna della cinta muraria che circondava la villa e il parco.
Lo squillo del campanello di quell’appartamento lo fece sussultare e lo ridestò di colpo dal gradevole torpore.
4
Il dottore si sollevò dalla poltrona e tentò di assumere un’espressione del viso vivace e affidabile.
Era la sera di un lunedì di metà novembre e quello sarebbe stato l’ultimo appuntamento di una giornata gelida e ventosa. Si trattava di un primo colloquio. Trentacinque anni di professione avevano, in parte, smorzato il suo entusiasmo; ma, quando doveva incontrare per la prima volta un paziente, era sempre affascinato e stuzzicato dalla novità. Quella sera lo era stranamente ancora di più del solito.
Dette un fugace sguardo dallo spioncino, aprì la porta blindata che dava sulla strada e fece accomodare il nuovo venuto.
L’uomo gli strinse la mano con un’energia insospettabile data la debolezza della voce con cui si era presentato mormorando: «Buonasera, ingegner Amilcare Sossio.»
Era un signore apparentemente sulla settantina; si distingueva per un’eleganza demodé e anonima; indossava un cappotto e un vestito grigi, scarpe e calzini neri, una camicia celeste e una cravatta blu.
Il dottore, dopo averlo fatto sostare qualche minuto nella sala d’attesa, lo fece accomodare nella stanza della psicoterapia.
Intanto che lui si posizionava sulla propria poltrona, l’uomo gli si accasciò di fronte, sul divano destinato ai pazienti.
L’ingegner Sossio reclinò la testa sullo schienale; dai suoi occhi trasparivano stanchezza e disperazione smisurate.
Si ricompose, fissò per una frazione di secondo il dottor Sossi e poi, distogliendo lo sguardo, proclamò: «Le puntualizzo subito che, se lei mi accetterà come paziente, forse metterà a rischio la sua vita. Per spirito d’esattezza, le preciso inoltre che se non mi prenderà in cura perderà l’occasione di venire a sapere cose estremamente interessanti. Molti sarebbero disposti a pagare grosse cifre per venirne a conoscenza.»
5
L’immediata reazione del dottor Sossi a questa inaspettata esternazione fu confrontare la sua stazza fisica con quella dell’uomo seduto di fronte. Quando realizzò che, sia pur di poco, lo sovrastava, si sentì rincuorato. Ancor di più, lo confortò il pensiero che, a poche decine di metri, c’era la villa dove i parenti lo aspettavano per festeggiare il compleanno di sua cognata. Si tranquillizzò, quasi del tutto, quando focalizzò che tra quei parenti c’era suo cognato Mario, ufficiale della Polizia Locale, e Giulia, funzionaria del Ministero dell’Interno.
In quei pochissimi secondi, ebbe modo di osservare meglio quell’individuo sul divano. Il viso era grande e ovale e vi spiccavano due espressivi occhi blu. I capelli erano pochi e grigi. C’era qualcosa di artificioso in quella faccia: la vecchiezza predominante era resa surreale da sprazzi di fattezze infantili che, incongruentemente, vi si sovrapponevano.
La profondità e la virilità della voce erano intervallate da stridori che la rendevano in qualche modo effeminata.
L’uomo, dopo qualche istante, continuò:
«Lei non solo non dovrà pagare per quello che ascolterà, ma verrà ben pagato. So quanto prende a seduta un professionista del suo valore; ebbene, ho deciso che le darò di più, molto di più: quattrocento euro a visita.»
L’atteggiamento sconcertato del dottor Sossi non bloccò il discorso dell’ingegnere. Questi, infatti, assumendo espressioni del volto che rivelavano un fortissimo malessere, proseguì: «Lei dovrà accettare tutte le mie condizioni. Non le fornirò alcun recapito telefonico né tanto meno abitativo. Le nostre sedute dovranno durare non più di un quarto d’ora, venti minuti: questo è, ormai, il tempo massimo in cui riesco a reggere una relazione umana. Durante gli incontri, dovrà permettermi di camminare in questa stanza qualora ne sentissi il bisogno. Fumerò e berrò alcool a mio piacere. Dovrà ricevermi solo quando è buio perché non riesco più a uscire di casa di giorno. Dovrà diminuire l’illuminazione: voglio almeno la penombra. Sto male, sto molto male; ma non tema, non sono un pazzo nel senso classico del termine. Sento che ho bisogno di parlare. Ho scelto lei non a caso. So che gli psicoanalisti più sono competenti ed esperti, più sanno ascoltare e meno parlano. Ho scelto lei anche perché so che, di solito, tende a non prescrivere psicofarmaci ma, eventualmente, le erbette.»
Lo psichiatra, chiamando a raccolta le sue energie per poter vincere lo sgomento che gli aveva seccato le fauci,